8 resultados para Mythology, Egyptian

em AMS Tesi di Dottorato - Alm@DL - Università di Bologna


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The thesis concerns, from an economic and institutional point of view, the migration process in connection with development issues, focusing on the Middle East and North Africa region. Adopting a south-south perspective of migration flows, which is focusing on migration from the Maghreb and Mashreq towards the GCC, the research focuses on the linkage between migration and local development (LED), considering the economic implication that temporary migration flows (trough physical and human capital accumulation) have for the labour exporting countries of the region. Since south-south migration flows are both temporary and skilled, the research points out that return migrants from the GCC can have a significant impact for the growth of recipient countries, as they transfer capital through remittances on regular basis and, once back, they can use human capital acquired abroad to promote economic initiatives. Starting from the descriptive analysis on international migration flows (from an historical to a systemic point of view), and focusing on the patterns of people movements in the Gulf Migration System and on the role remittances have in the region as a strategy for both household survival and local development, the research considers the economics of migrant remittances from a micro and macro perspective and the main direct and indirect effects that remittances have on the local communities. The review of the economic literature on international remittances and on local development shows how migration is an alternative strategy of financing local economic development (LED) especially for low-middle income countries (among them the Maghreb countries). The linkage between return migration, remittances, human capital formation and the promotion of local development in the Egyptian case is the focus of the empirical investigation.

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Participation appeared in development discourses for the first time in the 1970s, as a generic call for the involvement of the poor in development initiatives. Over the last three decades, the initial perspectives on participation intended as a project method for poverty reduction have evolved into a coherent and articulated theoretical elaboration, in which participation figures among the paraphernalia of good governance promotion: participation has acquired the status of “new orthodoxy”. Nevertheless, the experience of the implementation of participatory approaches in development projects seemed to be in the majority of cases rather disappointing, since the transformative potential of ‘participation in development’ depends on a series of factors in which every project can actually differ from others: the ultimate aim of the approach promoted, its forms and contents and, last but not least, the socio-political context in which the participatory initiative is embedded. In Egypt, the signature of a project agreement between the Arab Republic of Egypt and the Federal Republic of Germany, in 1998, inaugurated a Participatory Urban Management Programme (PUMP) to be implemented in Greater Cairo by the German Technical Cooperation (Deutsche Gesellschaft für Technische Zusammenarbeit, GTZ) and the Ministry of Planning (now Ministry of Local Development) and the Governorates of Giza and Cairo as the main counterparts. Now, ten years after the beginning of the PUMP/PDP and close to its end (December 2010), it is possible to draw some conclusions about the scope, the significance and the effects of the participatory approach adopted by GTZ and appropriated by the Egyptian counterparts in dealing with the issue of informal areas and, more generally, of urban development. Our analysis follows three sets of questions: the first set regards the way ‘participation’ has been interpreted and concretised by PUMP and PDP. The second is about the emancipating potential of the ‘participatory approach’ and its ability to ‘empower’ the ‘marginalised’. The third focuses on one hand on the efficacy of GTZ strategy to lead to an improvement of the delivery service in informal areas (especially in terms of planning and policies), and on the other hand on the potential of GTZ development intervention to trigger an incremental process of ‘democratisation’ from below.

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This 
study
 participates 
of
 the 
vivacious
 and
 recent 
interest
 for
 the 
Martial’s
 work, 
that
 has
 brought
 to
 discover
 a
 wealth
 and 
a 
complexity,
 remained 
for 
a
long
 time
 hidden, 
of 
the 
epigrammatic
 kind.
 Of
 this
 complexity
 is
 an
 important
 part
 the
 refined
 allusive
 game
 with
 the
 preceding
 tradition,
 as
 that
 with 
Ovid.
 My 
work
 is
 divided
 in
 two
 sections: 
the 
first
 one
 is dedicated
 to 
the 
passages 
in 
which
 Martial
 quotes
 Ovid
 and
 to
 the
 surest
 and
 more
 important
 recalls.
 The
 single
 chapters
 are
 dedicated
 to
 a
 detail
 theme
 (the
 apostrophe
 to
 the
 book;
 the
 mythology;
 the
 love;
 the
 exile).
 The
 second
 section, 
instead, 
is
 dedicated 
to 
the 
rhetoric,
 with
 an 
analysis 
of
 the
 structure 
of 
the 
poetic
 discourse
 in
 the
 elegy
 and
 in
 the
 epigram,
 and
 to
 the study
 of
 some
 rhetorical
 figures,
 in
 primis
 the
 sententia,
 key‐element
 in
 the
 Martial’s
 work,
 but
 also
 decisive
 in
 the
 innovative
 poetic process
 begun by
 Ovid.


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Come dimostrano i sempre più numerosi casi di cronaca riportati dai notiziari, la preoccupazione per la gestione delle immagini di morte si configura come un nodo centrale che coinvolge spettatori, produttori di contenuti e broadcaster, dato che la sua emersione nel panorama mediale in cui siamo immersi è sempre più evidente. Se la letteratura socio-antropologica è generalmente concorde nel ritenere che, rispetto al passato, oggi la morte si manifesti con meno evidenza nella vita comune delle persone, che tendono a rimuovere i segni della contiguità vivendo il lutto in forma privata, essa è però percepita in modo pervasivo perché disseminata nei (e dai) media. L'elaborato, concentrandosi in maniera specifica sulle produzioni audiovisive, e quindi sulla possibilità intrinseca al cinema – e alle sue forme derivate – di registrare un evento in diretta, tenta di mappare alcune dinamiche di produzione e fruizione considerando una particolare manifestazione della morte: quella che viene comunemente indicata come “morte in diretta”. Dopo una prima ricognizione dedicata alla tensione continua tra la spinta a considerare la morte come l'ultimo tabù e le manifestazioni che essa assume all'interno della “necrocultura”, appare chiaro che il paradigma pornografico risulta ormai inefficace a delineare compiutamente le emersioni della morte nei media, soggetta a opacità e interdizioni variabili, e necessita dunque di prospettive analitiche più articolate. Il fulcro dell'analisi è dunque la produzione e il consumo di precisi filoni quali snuff, cannibal e mondo movie e quelle declinazioni del gore che hanno ibridato reale e fittizio: il tentativo è tracciare un percorso che, a partire dal cinema muto, giunga al panorama contemporaneo e alle pratiche di remix rese possibili dai media digitali, toccando episodi controversi come i Video Nasties, le dinamiche di moral panic scatenate dagli snuff film e quelle di contagio derivanti dalla manipolazione e diffusione delle immagini di morte.

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La Tesi Materiale epigrafico per la ricostruzione dei contatti nel Mediterraneo tra il 1200 a.C. e il 500 a.C. si propone di illustrare i complessi rapporti instauratisi tra i vari popoli che si affacciarono sulle rive del Mediterraneo e nelle sue vicinanze, tra il 1200 e il 500 a.C. circa, quali emergono dalle iscrizioni disponibili, principalmente greche e semitiche (soprattutto fenicie, ebraiche, aramaiche e assire), prendendo tuttavia in esame anche iscrizioni ittite, egiziane, frigie, etrusche e celtiche. Le date suddette riguardano due eventi cruciali, che sconvolsero il Mediterraneo: gli attacchi dei Popoli del Mare, che distrussero l'Impero Ittita e indebolirono l'Egitto, e le guerre Persiane. Le iscrizioni riportate sono 1546, quasi sempre traslitterate, tradotte, e accompagnate da un'immagine, da riferimenti bibliografici essenziali e da una breve motivazione del collegamento proposto. Il quadro che si delinea ben testimonia la complessità dei rapporti che si intrecciarono in quel periodo: si pensi alle centinaia di graffiti greci trovati a Naucrati, in Egitto, o alle decine di iscrizioni greche trovate a Gravisca. Anche le iscrizioni aramaiche e assire attestano gli stretti rapporti che si formarono tra Siria e Mesopotamia; ugualmente Iran e Arabia sono, direttamente o indirettamente, collegati a Etruria e Grecia; così troviamo un'iscrizione greca nel cuore dell'Impero Persiano, e un cratere laconico nel centro della Gallia. In realtà lo scopo di questo lavoro è anche quello di mettere in contatto due mondi sostanzialmente separati, ossia quello dei Semitisti e quello dei Grecisti, che solo apparentemente si conoscono e collaborano. Inoltre vorrei soavemente insinuare l'idea che la tesi di Joseph Naveh, che ipotizzò che gli alfabeti greci abbiano tratto origine in prima istanza dalle iscrizioni protocananaiche, nel XII sec. a.C., è valida, e che solo in un secondo tempo i Fenici abbiano dato il loro apporto.

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Il progetto di ricerca si è posto l'obiettivo di analizzare una serie di manufatti egizî e di tradizione egizia della Sicilia preromana e di evidenziare le eventuali sopravvivenze della cultura egittizzante sull’isola fino all'età tardoantica. La realizzazione di un corpus, aggiornato sulla scorta di nuovi rinvenimenti, di recenti riletture e di studi su materiali inediti custoditi nei musei siciliani, ha contribuito a tracciare una mappa distributiva delle aree di rinvenimento e di attestazione, con particolare riferimento alle diverse etnie che recepiscono tali prodotti e alla possibilità di ricostruire l’ambientazione storica della domanda diretta o indiretta. Si è scelto di privilegiare lo studio tipologico, iconografico e iconologico di alcune “categorie” di materiali maggiormente documentati sull’isola, quali amuleti, scarabei e scaraboidi, cretule, ushabti, gioielli, bronzi figurati, gemme, con l’individuazione di riscontri in ambito mediterraneo. La documentazione delle testimonianze antiquarie contenenti notizie su reperti oggi non più reperibili ha permesso, infine, non solo l’acquisizione d’informazioni spesso ritenute perse, ma anche una comprensione storicizzata delle dinamiche del collezionismo siciliano e del suo ruolo nel più vasto ambito europeo dal XVII al XIX secolo. È stato importante, infatti, chiarire anche alcuni aspetti della cultura egittologica del periodo, legata in genere alla circolazione di stereotipi e alla mancanza di una conoscenza diretta della realtà faraonica.

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Con le "Imagini degli dei degli antichi", pubblicate a Venezia nel 1556 e poi in più edizioni arricchite e illustrate, l’impegnato gentiluomo estense Vincenzo Cartari realizza il primo, fortunatissimo manuale mitografico italiano in lingua volgare, diffuso e tradotto in tutta l’Europa moderna. Cartari rimodula, secondo accenti divulgativi ma fedeli, fonti latine tradizionali: come le ricche "Genealogie deorum gentilium" di Giovanni Boccaccio, l’appena precedente "De deis gentium varia et multiplex historia" di Lilio Gregorio Giraldi, i curiosi "Fasti" ovidiani, da lui stesso commentati e tradotti. Soprattutto, però, introduce il patrimonio millenario di favole ed esegesi classiche, di aperture egiziane, mediorientali, sassoni, a una chiave di lettura inedita, agile e vitalissima: l’ecfrasi. Le divinità e i loro cortei di creature minori, aneddoti leggendari e attributi identificativi si susseguono secondo un taglio iconico e selettivo. Sfilano, in trionfi intrisi di raffinato petrarchismo neoplatonico e di emblematica picta poesis rinascimentale, soltanto gli aspetti figurabili e distintivi dei personaggi mitici: perché siano «raccontate interamente» tutte le cose attinenti alle figure antiche, «con le imagini quasi di tutti i dei, e le ragioni perché fossero così dipinti». Così, le "Imagini" incontrano il favore di lettori colti e cortigiani eleganti, di pittori e ceramisti, di poeti e artigiani. Allestiscono una sorta di «manuale d’uso» pronto all’inchiostro del poeta o al pennello dell’artista, una suggestiva raccolta di «libretti figurativi» ripresi tanto dalla maniera di Paolo Veronese o di Giorgio Vasari, quanto dal classicismo dei Carracci e di Nicolas Poussin. Si rivelano, infine, summa erudita capace di attirare appunti e revisioni: l’antiquario padovano Lorenzo Pignoria, nel 1615 e di nuovo nel 1626, vi aggiunge appendici archeologiche e comparatistiche, interessate al remoto regno dei faraoni quanto agli esotici idoli orientali e dei Nuovi Mondi.

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Gli Atti di Andrea e Bartolomeo sono un testo cristiano apocrifo, probabilmente ascrivibile al V secolo d.C. e collocabile in àmbito egizio. Tale testo è tramandato in greco, copto, arabo ed etiopico e il presente lavoro consiste nell’edizione critica della versione greca, sinora inedita. La storia narra l’evangelizzazione della Partia per opera degli apostoli Andrea e Bartolomeo e di un antropofago dalle sembianze mostruose (Cristomeo/ Cristiano), convertito al cristianesimo e divenuto instrumentum fidei.