21 resultados para Medioevo

em AMS Tesi di Dottorato - Alm@DL - Università di Bologna


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La finalità della tesi è stata quella d'improntare una riflessione sulle società legate all'edilizia nel momento di apice politico ed economico di una città, attiva e importante nel basso Medioevo, come Bologna. Questo tipo di studio, già intrapreso per alcune città dell'Italia centro settentrionale, risulta necessario per comprendere alcune dinamiche politiche, economiche e produttive della realtà cittadina. In particolare, gli obiettivi sono stati quelli di coniugare la vita corporativa dell'arte all'organizzazione lavorativa, individuando gli aspetti legati all'ambito produttivo e valutando, l'evoluzione della società nel passaggio dal Duecento al Trecento. Gli statuti e le matricole, principali fonti compilate dalle due società delle arti e giunte ai nostri giorni, salvo rare eccezioni, completamente inedite sono stati il principale punto di partenza dello studio. Il risultato è la sintesi di alcuni spunti di riflessione emersi dai documenti, quali la mentalità degli uomini che si approcciavano alle arti, le gerarchie nate all'interno delle stesse società, il loro cambiamento e quello legato alla percezione di comunità nel corso dei secoli oltre agli aspetti più prettamente lavorativi e artigianali.

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Lo scopo di questa ricerca è la ricostruzione dei Lungarni di Pisa nel Tardo Medioevo (XIV-XV secolo); lo studio intende sottolineare le trasformazioni urbanistiche che hanno cambiato il volto di Pisa nel corso del tempo e ricordare che l’area fluviale ebbe un ruolo di primo piano come baricentro commerciale ed economico della città, vocazione che si è in gran parte persa con l’età moderna e contemporanea. La metodologia seguita, affinata e perfezionata durante la partecipazione al progetto Nu.M.E. (Nuovo Museo Elettronico della Città di Bologna), si basa sull’analisi e il confronto di fonti eterogenee ma complementari, che includono precedenti studi di storia dell’urbanistica, un corpus di documentazione di epoca medievale (provvedimenti amministrativi come gli Statuti del Comune di Pisa, ma anche descrizioni di cronisti e viaggiatori), fonti iconografiche, tra cui vedute e mappe cinquecentesche o successive, e fonti materiali, come le persistenze medievali ancora osservabili all’interno degli edifici ed i reperti rinvenuti durante alcune campagne di scavo archeologiche. Il modello 3D non è concepito come statico e “chiuso”, ma è liberamente esplorabile all’interno di un engine tridimensionale; tale prodotto può essere destinato a livelli di utenza diversi, che includono sia studiosi e specialisti interessati a conoscere un maggior numero di informazioni e ad approfondire la ricerca, sia semplici cittadini appassionati di storia o utenti più giovani, come studenti di scuole medie superiori e inferiori.

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Attraverso l’indagine di fonti altomedievali come le Leges dei barbari si è potuto valutare, da un punto di vista pragmatico e fattuale, l’intenzione umana – a volte incidentale e pure difficoltosa – di inquadrare e definire il rapporto con un animale domestico come il cane, che continua e si evolve tra Antichità ed Alto Medioevo e senza una cesura netta. Per completare il quadro culturale e storico-sociale della ricerca, oltre alla trattatistica antica e alla letteratura medievale sugli animali, si è passato in rassegna espressioni documentarie come i capitularia mundana ed ecclasiastica, che hanno destato ulteriore interesse in quanto in esse sussiste il riflesso di un’attenzione tutta “altomedievale” per il cane e per quell’attività che da millenni lega l’uomo a questo animale: la caccia. L’argomento venatorio presuppone l’associazione con il cane nella quasi totalità dei provvedimenti sulla caccia, trasmettendo testimonianze stimabili del connubio homo cum canibus. Ne risulta ora un’amicitia, ora un legame impedito come nelle continue interdizioni venatorie rivolte agli ecclesiastici, uomini – e donne – di Chiesa che andavano a caccia. Pur non fornendo le stesse informazioni minuziose sui cani delle Leggi dei barbari, i capitularia propongono suggestivi scorci di un mondo in cui la caccia, forse la sola attività attraverso cui uomo e cane condividono le medesime trepidazioni primordiali, non era violenza gratuita ma un fondamento della cultura, soprattutto, ma non solo, di ambito aristocratico.

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Il lavoro di Elisa Tosi Brandi riguarda il mestiere del sarto nel basso Medioevo e si sviluppa utilizzando due prospettive differenti. Da un lato, infatti, si è deciso di seguire una tradizione di studi oramai consolidata, che privilegia l’indagine degli aspetti economici e politici, dall’altro si è scelto di non trascurare la storia dei prodotti degli artigiani. L’approccio utilizzato in questa tesi tiene insieme entrambe le prospettive di ricerca, tentando dunque di indagare i produttori e i prodotti così come le fasi e i metodi di lavoro. Ciò senza ignorare, da un lato, indagini di tipo politico, economico e sociale, poiché tali oggetti sono lo specchio della società che li ha ideati e creati e da cui non si può prescindere e, dall’altro, indagini di tipo tecnico, poiché gli oggetti sono rivelatori del complesso patrimonio di conoscenze artigianali. Partendo dal caso di studio della Società dei sarti della città di Bologna, la tesi di Elisa Tosi Brandi ricostruisce questo mestiere confrontando tra loro fonti inedite (statuti corporativi, matricole, estimi) e studi effettuati su altre aree italiane. La ricca documentazione conservata ha consentito di mettere in luce l’organizzazione di questo lavoro, di collocare abitazioni e botteghe nell’area del mercato e nel più ampio tessuto cittadino, di individuare i percorsi commerciali e di approvvigionamento. L’ultima parte della tesi offre l’analisi di alcune fonti materiali al fine di ricostruire le tecniche sartoriali medievali intrecciando tutte le fonti consultate: dai documenti scritti si passa pertanto agli abiti che offrono informazioni dirette sulle tecniche di taglio ed assemblaggio.

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La ricerca ha preso in esame l’analisi archeologica di un territorio medievale e la sperimentazione di strumenti informatici per la gestione e l’analisi dei dati prodotti dalla ricerca stessa. Il Montalbano, oggetto della ricerca, è una microregione caratterizzata da elementi che la rendono molto interessante. Si tratta di una catena submontana che divide la piana di Firenze-Prato-Pistoia dal Valdarno inferiore. Questa posizione di frontiera ne ha fatto l’oggetto di mire espansionistiche da parte delle principali famiglie signorili prima, dei comuni poi. In una prima fase sono stati censiti i siti attestati dalle fonti documentarie e materiali per capire le dinamiche insediative del popolamento medievale e le strategie di controllo di un territorio caratterizzato dall’assenza di un’egemonia da parte di un solo potere (almeno fino a metà ‘300). L’analisi stratigrafica si è poi concentrata sulle strutture architettoniche religiose, in quanto offrono la maggior quantità di dati dal punto di vista documentario e archeologico. È stato così possibile ottenere un quadro delle tecniche costruttive medievali e delle influenze culturali che lo hanno prodotto. I dati archeologici sono stati gestiti attraverso una piattaforma gis sviluppata all’interno del Laboratorio di Archeologia Medievale dell’Università di Firenze in collaborazione con il laboratorio LSIS del CNRS di Marsiglia. Questa è stata appositamente strutturata secondo le procedure di raccolta e organizzazione dati utilizzate durante l’analisi archeologica. Le singole strutture indagate sono inoltre state oggetto di un rilievo 3d fotogrammetrico che in alcuni casi studio è stato anche utilizzato come base di accesso ai dati derivanti dall’analisi stratigrafica, all’interno di un’applicazione gis 3d (Arpenteur). Questo ha permesso di connettere all’interno di un’unica piattaforma i dati geometrici ed archeometrici con quelli archeologici, utilizzando i primi come interfaccia di accesso ai secondi.

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Il presente lavoro mette in luce i diversi aspetti che ruotano intorno all’istituzione del rogo, cioè la condanna di un eretico alle fiamme e la conseguente morte per vivicombustione, che arrivò a imporsi nella procedura inquisitoriale come punizione ultima e unica nei casi di eresia. La prima parte del lavoro è dedicata ai fondamenti giuridici che caratterizzano questa pena. L’attenzione è rivolta poi alla letteratura controversistica di parte cattolica, usata dalla Chiesa a difesa della legittima occisio degli eretici. La parte centrale dello studio riguarda l’aspetto storico con una recensio dei principali roghi avvenuti prima e dopo la nascita dell’Inquisizione. Infine la riflessione si sposta sulla scelta e il significato di tale pena da un punto di vista antropologico.

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La ricognizione delle opere composte da Filippo Tommaso Marinetti tra il 1909 e il 1912 è sostenuta da una tesi paradossale: il futurismo di Marinetti non sarebbe un'espressione della modernità, bensì una reazione anti-moderna, che dietro a una superficiale ed entusiastica adesione ad alcune parole d'ordine della seconda rivoluzione industriale nasconderebbe un pessimismo di fondo nei confronti dell'uomo e della storia. In questo senso il futurismo diventa un emblema del ritardo culturale e del gattopardismo italiano, e anticipa l’analoga operazione svolta in politica da Mussolini: dietro un’adesione formale ad alcune istanze della modernità, la preservazione dello Status Quo. Marinetti è descritto come un corpo estraneo rispetto alla cultura scientifica del Novecento: un futurista senza futuro (rarissime in Marinetti sono le proiezioni fantascientifiche). Questo aspetto è particolarmente evidente nelle opere prodotte del triennio 1908-1911, che non solo sono molto diverse dalle opere futuriste successive, ma per alcuni aspetti rappresentano una vera e propria antitesi di ciò che diventerà il futurismo letterario a partire dal 1912, con la pubblicazione del Manifesto tecnico della letteratura futurista e l'invenzione delle parole in libertà. Nelle opere precedenti, a un sostanziale disinteresse per il progressismo tecnologico corrispondeva un'attenzione ossessiva per la corporeità e un ricorso continuo all'allegoria, con effetti particolarmente grotteschi (soprattutto nel romanzo Mafarka le futuriste) nei quali si rilevano tracce di una concezione del mondo di sapore ancora medioevo-rinascimentale. Questa componente regressiva del futurismo marinettiano viene platealmente abbandonata a partire dal 1912, con Zang Tumb Tumb, salvo riaffiorare ciclicamente, come una corrente sotterranea, in altre fasi della sua carriera: nel 1922, ad esempio, con la pubblicazione de Gli indomabili (un’altra opera allegorica, ricca di reminiscenze letterarie). Quella del 1912 è una vera e propria frattura, che nel primo capitolo è indagata sia da un punto di vista storico (attraverso la documentazione epistolare e giornalistica vengono portate alla luce le tensioni che portarono gran parte dei poeti futuristi ad abbandonare il movimento proprio in quell'anno) che da un punto di vista linguistico: sono sottolineate le differenze sostanziali tra la produzione parolibera e quella precedente, e si arrischia anche una spiegazione psicologica della brusca svolta impressa da Marinetti al suo movimento. Nel secondo capitolo viene proposta un'analisi formale e contenutistica della ‘funzione grottesca’ nelle opere di Marinetti. Nel terzo capitolo un'analisi comparata delle incarnazioni della macchine ritratte nelle opere di Marinetti ci svela che quasi sempre in questo autore la macchina è associata al pensiero della morte e a una pulsione masochistica (dominante, quest'ultima, ne Gli indomabili); il che porta ad arrischiare l'ipotesi che l'esperienza futurista, e in particolare il futurismo parolibero posteriore al 1912, sia la rielaborazione di un trauma. Esso può essere interpretato metaforicamente come lo choc del giovane Marinetti, balzato in pochi anni dalle sabbie d'Alessandria d'Egitto alle brume industriali di Milano, ma anche come una reale esperienza traumatica (l'incidente automobilistico del 1908, “mitologizzato” nel primo manifesto, ma che in realtà fu vissuto dall'autore come esperienza realmente perturbante).

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I libretti che Pascoli scrisse in forma di abbozzi e che sognò potessero calcare il palcoscenico di un teatro furono davvero un “melodramma senza musica”. In primo luogo, perché non giunsero mai ad essere vestiti di note e ad arrivare in scena; ma anche perché il tentativo di scrivere per il teatro si tinse per Pascoli di toni davvero melodrammatici, nel senso musicale di sconfitta ed annullamento, tanto da fare di quella pagina della sua vita una piccola tragedia lirica, in cui c’erano tante parole e, purtroppo, nessuna musica. Gli abbozzi dei drammi sono abbastanza numerosi; parte di essi è stata pubblicata postuma da Maria Pascoli.1 Il lavoro di pubblicazione è stato poi completato da Antonio De Lorenzi.2 Ho deciso di analizzare solo quattro di questi abbozzi, che io reputo particolarmente significativi per poter cogliere lo sviluppo del pensiero drammatico e della poetica di Pascoli. I drammi che analizzo sono Nell’Anno Mille (con il rifacimento Il ritorno del giullare), Gretchen’s Tochter (con il rifacimento La figlia di Ghita), Elena Azenor la Morta e Aasvero o Caino nel trivio o l’Ebreo Errante. La prima ragione della scelta risiede nel fatto che questi abbozzi presentano una lunghezza più consistente dell’appunto di uno scheletro di dramma registrato su un foglietto e, quindi, si può seguire attraverso di essi il percorso della vicenda, delle dinamiche dei personaggi e dei significati dell’opera. Inoltre, questi drammi mostrano cosa Pascoli intendesse comporre per sollevare le vesti del libretto d’opera e sono funzionali all’esemplificazione delle sue concezioni teoriche sulla musica e il melodramma, idee che egli aveva espresso nelle lettere ad amici e compositori. In questi quattro drammi è possibile cogliere bene le motivazioni della scelta dei soggetti, il loro significato entro la concezione melodrammatica del poeta, il sistema simbolico che soggiace alla creazione delle vicende e dei personaggi e i legami con la poetica pascoliana. Compiere un’analisi di questo tipo significa per me, innanzitutto, risalire alle concezioni melodrammatiche di Pascoli e capire esattamente cosa egli intendesse per dramma musicale e per rinnovamento dello stesso. Pascoli parla di musica e dei suoi tentativi di scrivere per il teatro lirico nelle lettere ai compositori e, sporadicamente, ad alcuni amici (Emma Corcos, Luigi Rasi, Alfredo Caselli). La ricostruzione del pensiero e dell’estetica musicale di Pascoli ha dovuto quindi legarsi a ricerche d’archivio e di materiali inediti o editi solo in parte e, nella maggioranza dei casi, in pubblicazioni locali o piuttosto datate (i primi anni del Novecento). Quindi, anche in presenza della pubblicazione di parte del materiale necessario, quest’ultimo non è certo facilmente e velocemente consultabile e molto spesso è semi sconosciuto. Le lettere di Pascoli a molti compositori sono edite solo parzialmente; spesso, dopo quei primi anni del Novecento, in cui chi le pubblicò poté vederle presso i diretti possessori, se ne sono perse le tracce. Ho cercato di ricostruire il percorso delle lettere di Pascoli a Giacomo Puccini, Riccardo Zandonai, Giovanni Zagari, Alfredo Cuscinà e Guglielmo Felice Damiani. Si tratta sempre di contatti che Pascoli tenne per motivi musicali, legati alla realizzazione dei suoi drammi. O per le perdite prodotte dalla storia (è il 1 Giovanni Pascoli, Nell’Anno Mille. Sue notizie e schemi da altri drammi, a c. di Maria Pascoli, Bologna, Zanichelli, 1924. 2 Giovanni Pascoli, Testi teatrali inediti, a c. di Antonio De Lorenzi, Ravenna, Longo, 1979. caso delle lettere di Pascoli a Zandonai, che andarono disperse durante la seconda guerra mondiale, come ha ricordato la prof.ssa Tarquinia Zandonai, figlia del compositore) o per l’impossibilità di stabilire contatti quando i possessori dei materiali sono privati e, spesso, collezionisti, questa parte delle mie ricerche è stata vana. Mi è stato possibile, però, ritrovare gli interi carteggi di Pascoli e i due Bossi, Marco Enrico e Renzo. Le lettere di Pascoli ai Bossi, di cui do notizie dettagliate nelle pagine relative ai rapporti con i compositori e all’analisi dell’Anno Mille, hanno permesso di cogliere aspetti ulteriori circa il legame forte e meditato che univa il poeta alla musica e al melodramma. Da queste riflessioni è scaturita la prima parte della tesi, Giovanni Pascoli, i musicisti e la musica. I rapporti tra Pascoli e i musicisti sono già noti grazie soprattutto agli studi di De Lorenzi. Ho sentito il bisogno di ripercorrerli e di darne un aggiornamento alla luce proprio dei nuovi materiali emersi, che, quando non sono gli inediti delle lettere di Pascoli ai Bossi, possono essere testi a stampa di scarsa diffusione e quindi poco conosciuti. Il quadro, vista la vastità numerica e la dispersione delle lettere di Pascoli, può subire naturalmente ancora molti aggiornamenti e modifiche. Quello che ho qui voluto fare è stato dare una trattazione storico-biografica, il più possibile completa ed aggiornata, che vedesse i rapporti tra Pascoli e i musicisti nella loro organica articolazione, come premessa per valutare le posizioni del poeta in campo musicale. Le lettere su cui ho lavorato rientrano tutte nel rapporto culturale e professionale di Pascoli con i musicisti e non toccano aspetti privati e puramente biografici della vita del poeta: sono legate al progetto dei drammi teatrali e, per questo, degne di interesse. A volte, nel passato, alcune di queste pagine sono state lette, soprattutto da giornalisti e non da critici letterari, come un breve aneddoto cronachistico da inserire esclusivamente nel quadro dell’insuccesso del Pascoli teatrale o come un piccolo ragguaglio cronologico, utile alla datazione dei drammi. Ricostruire i rapporti con i musicisti equivale nel presente lavoro a capire quanto tenace e meditato fu l’avvicinarsi di Pascoli al mondo del teatro d’opera, quali furono i mezzi da lui perseguiti e le proposte avanzate; sempre ho voluto e cercato di parlare in termini di materiale documentario e archivistico. Da qui il passo ad analizzare le concezioni musicali di Pascoli è stato breve, dato che queste ultime emergono proprio dalle lettere ai musicisti. L’analisi dei rapporti con i compositori e la trattazione del pensiero di Pascoli in materia di musica e melodramma hanno in comune anche il fatto di avvalersi di ricerche collaterali allo studio della letteratura italiana; ricerche che sconfinano, per forza di cose, nella filosofia, estetica e storia della musica. Non sono una musicologa e non è stata mia intenzione affrontare problematiche per le quali non sono provvista di conoscenze approfonditamente adeguate. Comprendere il panorama musicale di quegli anni e i fermenti che si agitavano nel teatro lirico, con esiti vari e contrapposti, era però imprescindibile per procedere in questo cammino. Non sono pertanto entrata negli anfratti della storia della musica e della musicologia, ma ho compiuto un volo in deltaplano sopra quella terra meravigliosa e sconfinata che è l’opera lirica tra Ottocento e Novecento. Molti consigli, per non smarrirmi in questo volo, mi sono venuti da valenti musicologi ed esperti conoscitori della materia, che ho citato nei ringraziamenti e che sempre ricordo con viva gratitudine. Utile per gli studi e fondamentale per questo mio lavoro è stato riunire tutte le dichiarazioni, da me conosciute finora, fornite da Pascoli sulla musica e il melodramma. Ne emerge quella che è la filosofia pascoliana della musica e la base teorica della scrittura dei suoi drammi. Da questo si comprende bene perché Pascoli desiderasse tanto scrivere per il teatro musicale: egli riteneva che questo fosse il genere perfetto, in cui musica e parola si compenetravano. Così, egli era convinto che la sua arte potesse parlare ed arrivare a un pubblico più vasto. Inoltre e soprattutto, egli intese dare, in questo modo, una precisa risposta a un dibattito europeo sul rinnovamento del melodramma, da lui molto sentito. La scrittura teatrale di Pascoli non è tanto un modo per trovare nuove forme espressive, quanto soprattutto un tentativo di dare il suo contributo personale a un nuovo teatro musicale, di cui, a suo dire, l’umanità aveva bisogno. Era quasi un’urgenza impellente. Le risposte che egli trovò sono in linea con svariate concezioni di quegli anni, sviluppate in particolare dalla Scapigliatura. Il fatto poi che il poeta non riuscisse a trovare un compositore disposto a rischiare fino in fondo, seguendolo nelle sue creazioni di drammi tutti interiori, con scarso peso dato all’azione, non significa che egli fosse una voce isolata o bizzarra nel contesto culturale a lui contemporaneo. Si potranno, anche in futuro, affrontare studi sugli elementi di vicinanza tra Pascoli e alcuni compositori o possibili influenze tra sue poesie e libretti d’opera, ma penso non si potrà mai prescindere da cosa egli effettivamente avesse ascoltato e avesse visto rappresentato. Il che, documenti alla mano, non è molto. Solo ciò a cui possiamo effettivamente risalire come dato certo e provato è valido per dire che Pascoli subì il fascino di questa o di quell’opera. Per questo motivo, si trova qui (al termine del secondo capitolo), per la prima volta, un elenco di quali opere siamo certi Pascoli avesse ascoltato o visto: lo studio è stato possibile grazie ai rulli di cartone perforato per il pianoforte Racca di Pascoli, alle testimonianze della sorella Maria circa le opere liriche che il poeta aveva ascoltato a teatro e alle lettere del poeta. Tutto questo è stato utile per l’interpretazione del pensiero musicale di Pascoli e dei suoi drammi. I quattro abbozzi che ho scelto di analizzare mostrano nel concreto come Pascoli pensasse di attuare la sua idea di dramma e sono quindi interpretati attraverso le sue dichiarazioni di carattere musicale. Mi sono inoltre avvalsa degli autografi dei drammi, conservati a Castelvecchio. In questi abbozzi hanno un ruolo rilevante i modelli che Pascoli stesso aveva citato nelle sue lettere ai compositori: Wagner, Dante, Debussy. Soprattutto, Nell’Anno Mille, il dramma medievale sull’ultima notte del Mille, vede la significativa presenza del dantismo pascoliano, come emerge dai lavori di esegesi della Commedia. Da questo non è immune nemmeno Aasvero o Caino nel trivio o l’Ebreo Errante, che è il compimento della figura di Asvero, già apparsa nella poesia di Pascoli e portatrice di un messaggio di rinascita sociale. I due drammi presentano anche una specifica simbologia, connessa alla figura e al ruolo del poeta. Predominano, invece, in Gretchen’s Tochter e in Elena Azenor la Morta le tematiche legate all’archetipo femminile, elemento ambiguo, materno e infero, ma sempre incaricato di tenere vivo il legame con l’aldilà e con quanto non è direttamente visibile e tangibile. Per Gretchen’s Tochter la visione pascoliana del femminile si innesta sulle fonti del dramma: il Faust di Marlowe, il Faust di Goethe e il Mefistofele di Boito. I quattro abbozzi qui analizzati sono la prova di come Pascoli volesse personificare nel teatro musicale i concetti cardine e i temi dominanti della sua poesia, che sarebbero così giunti al grande pubblico e avrebbero avuto il merito di traghettare l’opera italiana verso le novità già percorse da Wagner. Nel 1906 Pascoli aveva chiaramente compreso che i suoi drammi non sarebbero mai arrivati sulle scene. Molti studi e molti spunti poetici realizzati per gli abbozzi gli restavano inutilizzati tra le mani. Ecco, allora, che buona parte di essi veniva fatta confluire nel poema medievale, in cui si cantano la storia e la cultura italiane attraverso la celebrazione di Bologna, città in cui egli era appena rientrato come professore universitario, dopo avervi già trascorso gli anni della giovinezza da studente. Le Canzoni di Re Enzio possono quindi essere lette come il punto di approdo dell’elaborazione teatrale, come il “melodramma senza musica” che dà il titolo a questo lavoro sul pensiero e l’opera del Pascoli teatrale. Già Cesare Garboli aveva collegato il manierismo con cui sono scritte le Canzoni al teatro musicale europeo e soprattutto a Puccini. Alcuni precisi parallelismi testuali e metrici e l’uso di fonti comuni provano che il legame tra l’abbozzo dell’Anno Mille e le Canzoni di Re Enzio è realmente attivo. Le due opere sono avvicinate anche dalla presenza del sostrato dantesco, tenendo presente che Dante era per Pascoli uno dei modelli a cui guardare proprio per creare il nuovo e perfetto dramma musicale. Importantissimo, infine, è il piccolo schema di un dramma su Ruth, che egli tracciò in una lettera della fine del 1906, a Marco Enrico Bossi. La vicinanza di questo dramma e di alcuni degli episodi principali della Canzone del Paradiso è tanto forte ed evidente da rendere questo abbozzo quasi un cartone preparatorio della Canzone stessa. Il Medioevo bolognese, con il suo re prigioniero, la schiava affrancata e ancella del Sole e il giullare che sulla piazza intona la Chanson de Roland, costituisce il ritorno del dramma nella poesia e l’avvento della poesia nel dramma o, meglio, in quel continuo melodramma senza musica che fu il lungo cammino del Pascoli librettista.

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Il lavoro di tesi si è incentrato sull’analisi dei frammenti di manoscritti ebraici medievali rinvenuti in alcuni archivi e biblioteche dell’area emiliano-romagnola ossia, come è noto, la regione italiana che vanta il maggior numero di frammenti rinvenuti; ben 6.000 frammenti sui circa 10.000 censiti sino ad oggi in tutta l’Italia, vale a dire un numero pari al 60% del totale. Nello specifico è stato esaminato il materiale pergamenaceo ebraico conservato in Archivi e Biblioteche delle città di Cesena, Faenza ed Imola, per un totale di 230 frammenti ebraici. Ho, quindi, proceduto all’identificazione di tutti i frammenti che, se dal punto di vista testuale ci documentano parti delle principali opere ebraiche diffuse nel Medioevo, sotto l’aspetto paleografico ci attestano le tre principali tradizioni scrittorie ebraiche utilizzate in Occidente, ossia: quella italiana, la sefardita e quella ashkenazita, oltre che ad alcuni rari esempi di grafia sefardita di tipo provenzale, una tipologia rara, se si considera che fra i quasi 10.000 frammenti finora scoperti in Italia, il numero di quelli vergati in questa grafia è davvero piccolo. Successivamente ho preso in esame le caratteristiche codicologiche e paleografiche dei frammenti, in particolar modo quelle relative a rigatura, foratura, mise en page e alle varianti grafiche individuali dello scriba, fra cui abbreviazioni, segni grafici di riempimento e resa del tetragramma sacro del nome di Dio, elementi che mi hanno consentito di identificare i frammenti smembrati da uno stesso manoscritto. Ciò ha permesso di individuare ben 80 manoscritti dai quali furono smembrati i 230 frammenti ebraici rinvenuti. Infine, sulla base dei dati raccolti, è stato realizzato un catalogo di tutti i frammenti, all’interno del quale i frammenti sono stati ricomposti per manoscritto. A loro volta, i vari manoscritti, suddivisi per soggetto, sono stati ordinati per secolo, dal più antico al più recente, in base alla grafia in cui sono vergati, ossia: Italiana, Sefardita (Provenzale) o Ashkenazita e per stile: quadrata, semicorsiva e corsiva. A motivo, poi, di nuovi ritrovamenti in diverse località italiane, mi sono dedicata ad un aggiornamento della mia ricerca compiuta per la tesi di Laurea, pubblicata nel 2004, sui frammenti talmudici e midrashici scoperti negli archivi e nelle biblioteche italiani; un genere di letteratura i cui rinvenimenti, per vari motivi, sono estremamente rari. In quell’occasione furono catalogati 475 frammenti talmudici, appartenenti a 151 manoscritti diversi, databili su base paleografica tra i secc. X e XV, e 54 frammenti midrashici appartenenti ad 8 manoscritti databili tra i secc. XII e XV. Ad oggi, dopo 4 anni, sono stati scoperti 21 nuovi frammenti talmudici ed un nuovo frammento midrashico. Nello specifico di questi 21 frammenti: 17 contengono parti tratte dal Talmud babilonese e 4 dal Sefer ha-Halakot di Alfasi (un noto compendio talmudico); mentre il frammento midrashico, rinvenuto presso la Sezione di Archivio di Stato di Foligno, contiene una parte del Midrash haggadah a Deuteronomio, costituendo pertanto già di per se stesso un rinvenimento molto importante. Questo frammento, ad una prima analisi, sembrerebbe completare alcune lacune del Midrash Haggadah ai cinque libri della Torah pubblicato a Vienna nel 1894 da S. Buber sulla base del solo manoscritto esistente che, tuttavia, presentava delle lacune, come riferisce lo stesso autore nella prefazione all’opera.

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Le vesti e le insegne degli imperatori nonché degli alti dignitari, sono ornate e “appesantite” da pietre preziose, lì disposte non a caso. Esse spesso divengono emblemi dei personaggi che le portano e offrono loro virtù e qualità che spesso si ricollegano anche a caratteristiche di alto valore ideologico. Già dai tempi pre-biblici le pietre sono considerate creature vive, messe in corrispondenza con gli astri, secondo la dottrina della simpathia. Questa concezione perdura anche nel Medioevo: infatti, nei vari lapidari vi sono pietre capaci di generare, e pietre “incinte”; esistono pietre dalle virtù talismaniche e taumaturgiche; altre guariscono, allontanano i mali, ottengono il favore dei potenti, consentono di portare a felice compimento tutto quel che si intraprende; rendono eloquenti, simpatici, graditi. Tornando all’ambito imperiale, l’imperatore per governare deve manifestare qualità che vengono condivise anche da Dio, quali la filantrophia, l’eunomia; rispettare la taxis; essere capace di autocontrollo; mostrare pietà; essere filocristos, vittorioso, misericordioso; essere temperante e giusto. Alcune di queste qualità gli vengono offerte anche dall’uso delle pietre preziose; così ad esempio il diamante dà forza e coraggio: preserva l’integrità del carattere e la buona fede; il rubino allude alla fiamma della carità; lo zaffiro è simbolo della ricchezza e dei cieli, custode dell’innocenza e della verità; lo smeraldo è anche esso simbolo della fede e allude simbolicamente alla capacità di intuire e trasmettere il messaggio divino propria del personaggio che ne è adornato. Le fonti prese in esame anche se vengono separate da un’arco di tempo grande e non rispecchiano un limite cronologico fisso, neccessario per ogni ricerca, tuttavia permettono di delineare il percorso evolutivo delle virtù delle gemme attraverso i secoli; e quindi di avere un’ idea molto più chiara sulla concezione delle pietre stesse, e su come, col passare degli anni, queste virtù si evolvono o svaniscono.