4 resultados para Layva, Antonio de.

em AMS Tesi di Dottorato - Alm@DL - Università di Bologna


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Questa tesi di dottorato ha per suo oggetto la ricognizione degli elementi teorici, di linguaggio politico e di influenza concettuale che le scienze sociali tra Ottocento e Novecento hanno avuto nell’opera di Antonio Gramsci. La ricerca si articola in cinque capitoli, ciascuno dei quali intende ricostruire, da una parte, la ricezione gramsciana dei testi classici della sociologia e della scienza politica del suo tempo, dall’altra, far emergere quelle filiazioni concettuali che permettano di valutare la portata dell’influenza delle scienze sociali sugli scritti gramsciani. Il lungo processo di sedimentazione concettuale del lessico delle scienze sociali inizia in Gramsci già negli anni della formazione politica, sullo sfondo di una Torino positivista che esprime le punte più avanzate del “progetto grande borghese” per lo studio scientifico della società e per la sua “organizzazione disciplinata”; di questa tradizione culturale Gramsci incrocia a più riprese il percorso. La sua formazione più propriamente politica si svolge però all’interno del Partito socialista, ancora imbevuto del lessico positivista ed evoluzionista. Questi due grandi filoni culturali costituiscono il brodo di coltura, rifiutato politicamente ma al tempo stesso assunto concettualmente, per quelle suggestioni sociologiche che Gramsci metterà a frutto in modo più organico nei Quaderni. La ricerca e la fissazione di una specifica antropologia politica implicita al discorso gramsciano è il secondo stadio della ricerca, nella direzione di un’articolazione complessiva delle suggestioni sociologiche che i Quaderni assumono come elementi di analisi politica. L’analisi si sposta sulla storia intellettuale della Francia della Terza Repubblica, più precisamente sulla nascita del paradigma sociologico durkheimiano come espressione diretta delle necessità di integrazione sociale. Vengono così messe in risalto alcune assonanze lessicali e concettuali tra il discorso di Durkheim, di Sorel e quello di Gramsci. Con il terzo capitolo si entra più in profondità nella struttura concettuale che caratterizza il laboratorio dei Quaderni. Si ricostruisce la genesi di concetti come «blocco storico», «ideologia» ed «egemonia» per farne risaltare quelle componenti che rimandano direttamente alle funzioni di integrazione di un sistema sociale. La declinazione gramsciana di questo problema prende le forme di un discorso sull’«organicità» che rende più che mai esplicito il suo debito teorico nei confronti dell’orizzonte concettuale delle scienze sociali. Il nucleo di problemi connessi a questa trattazione fa anche emergere l’assunzione di un vero e proprio lessico sociologico, come per i concetti di «conformismo» e «coercizione», comunque molto distante dallo spazio semantico proprio del marxismo contemporaneo a Gramsci. Nel quarto capitolo si affronta un caso paradigmatico per quanto riguarda l’assunzione non solo del lessico e dei concetti delle scienze sociali, ma anche dei temi e delle modalità della ricerca sociale. Il quaderno 22 intitolato Americanismo e fordismo è il termine di paragone rispetto alla realtà che Gramsci si prefigge di indagare. Le consonanze delle analisi gramsciane con quelle weberiane dei saggi su Selezione e adattamento forniscono poi gli spunti necessari per valutare le novità emerse negli Stati Uniti con la razionalizzazione produttiva taylorista, specialmente in quella sua parte che riguarda la pervasività delle tecniche di controllo della vita extra-lavorativa degli operai. L’ultimo capitolo affronta direttamente la questione delle aporie che la ricezione della teoria sociologica di Weber e la scienza politica italiana rappresentata dagli elitisti Mosca, Pareto e Michels, sollevano per la riformulazione dei concetti politici gramsciani. L’orizzonte problematico in cui si inserisce questa ricerca è l’individuazione di una possibile “sociologia del politico” gramsciana che metta a tema quel rapporto, che è sempre stato di difficile composizione, tra marxismo e scienze sociali.

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L’attività nel teatro della Villa medicea di Pratolino, presso Firenze, giunse al culmine nel primo decennio del ’700, quando il principe Ferdinando de Medici commissionò e vi fece rappresentare, una per anno, opere in musica di Alessandro Scarlatti e di Giacomo Antonio Perti. Benché le partiture siano perdute, sopravvive un’ingente quantità di materiale documentario, in massima parte inedito, il quale dà un eccezionale resoconto sul mecenatismo del Principe e sul funzionamento della macchina teatrale. La dissertazione si concentra sulle sei opere poste in musica da Perti ("Lucio Vero", 1700, in collaborazione con Martino Bitti; "Astianatte", 1701; "Dionisio re di Portogallo", 1707; "Ginevra principessa di Scozia", 1708; "Berenice regina d’Egitto", 1709; "Rodelinda regina de Longobardi", 1710), sui rapporti del compositore col Principe, col librettista Antonio Salvi, col rivale Scarlatti, coi cantanti e con la corte medicea, sullo stile da lui perseguito e – per quanto è dato sapere o lecito ipotizzare – sulla fisionomia dei suoi lavori (strutture e risorse letterarie, teatrali e musicali).