86 resultados para EMI, EMC, LISN, emissioni, condotte, irradiate

em AMS Tesi di Dottorato - Alm@DL - Università di Bologna


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The aim of this research is to estimate the impact of violent film excerpts on university students (30 f, 30 m) in two different sequences, a “justified” violent scene followed by an “unjustified” one, or vice versa, as follows: 1) before-after sequences, using Aggressive behaviour I-R Questionnaire, Self Depression Scale and ASQ-IPAT Anxiety SCALE; 2) after every excerpt, using a self-report to evaluate the intensity and hedonic tone of emotions and the violence justification level. Emotion regulation processes (suppression, reappraisal, self-efficacy) were considered. In contrast with the “unjustified” violent scene, during the “justified” one, the justification level was higher; intensity and unpleasantness of negative emotions were lower. Anxiety (total and latent) and rumination diminished after both types of sequences. Rumination decreases less after the JV-UV sequence than after the UV-JV sequence. Self-efficacy in controlling negative emotions reduced rumination, whereas suppression reduced irritability. Reappraisal, self-efficacy in positive emotion expression and perceived emphatic selfefficacy did not have any effects.

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Lo scopo di questa tesi è quello di analizzare dapprima l’impatto ambientale di tali impianti e poi analizzare il contributo effettivo che oggi la tecnologia innovativa dei cicli Rankine organici può dare nella valorizzazione elettrica del calore di scarto di processi industriali, focalizzando l’obiettivo principalmente sulle turbine a gas ed eseguendo un caso di studio in un settore ancora poco esplorato da questa tecnologia, quello Oil&Gas. Dopo aver effettuato il censimento degli impianti a fonti fossili e rinnovabili, cogenerativi e non, presenti in Emilia-Romagna, è stato sviluppato un software chiamato MiniBref che permette di simulare il funzionamento di una qualsiasi centrale termoelettrica grazie alla possibilità di combinare la tecnologia dell’impianto con il tipo di combustibile consentendo la valutazione delle emissioni inquinanti ed i potenziali di inquinamento. Successivamente verranno illustrati gli ORC, partendo dalle caratteristiche impiantistiche e termodinamiche fino ad arrivare alla scelta del fluido organico, fondamentale per le performance del ciclo. Dopo aver effettuato una ricognizione dello stato dell’arte delle applicazioni industriali degli ORC nel recupero termico, verranno eseguite simulazioni numeriche per ricostruire gli ORC ed avere una panoramica il più completa ed attendibile delle prestazioni effettive di questi sistemi. In ultimo verranno illustrati i risultati di un caso di studio che vede l’adozione di recupero mediante ciclo organico in un’installazione esistente del settore Oil&Gas. Si effettuerà uno studio delle prestazione dell’impianto al variare delle pressioni massime e minime del ciclo ed al variare del fluido impiegato al fine di mostrare come questi parametri influenzino non solo le performance ma anche le caratteristiche impiantistiche da adottare. A conclusione del lavoro si riporteranno i risultati relativi all’analisi condotte considerando l’impianto ai carichi parziali ed in assetto cogenerativo.

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La letteratura scientifica degli ultimi anni si è arricchita di un numero sempre crescente di studi volti a chiarire i meccanismi che presiedono ai processi di homing di cellule staminali emopoietiche e del loro attecchimento a lungo termine nel midollo osseo. Tali fenomeni sembrano coinvolgere da un lato, l’interazione delle cellule staminali emopoietiche con la complessa architettura e componente cellulare midollare, e dall’altro la riposta ad un’ampia gamma di molecole regolatrici, tra le quali chemochine, citochine, molecole di adesione, enzimi proteolitici e mediatori non peptidici. Fanno parte di quest’ultimo gruppo anche i nucleotidi extracellulari, un gruppo di molecole-segnale recentemente caratterizzate come mediatori di numerose risposte biologiche, tra le quali l’allestimento di fenomeni flogistici e chemiotattici. Nel presente studio è stata investigata la capacità dei nucleotidi extracellulari ATP ed UTP di promuovere, in associazione alla chemochina CXCL12, la migrazione di cellule staminali umane CD34+. E’ così emerso che la stimolazione con UTP è in grado di incrementare significativamente la migrazione dei progenitori emopoietici in risposta al gradiente chemioattrattivo di CXCL12, nonché la loro capacità adesiva. Le analisi citofluorimetriche condotte su cellule migranti sembrano inoltre suggerire che l’UTP agisca interferendo con le dinamiche di internalizzazione del recettore CXCR4, rendendo così le cellule CD34+ maggiormente responsive, e per tempi più lunghi, al gradiente attrattivo del CXCL12. Saggi di homing competitivo in vivo hanno parallelamente mostrato, in topi NOD/SCID, che la stimolazione con UTP aumenta significativamente la capacità dei progenitori emopoeitci umani di localizzarsi a livello midollare. Sono state inoltre indagate alcune possibili vie di trasduzione del segnale attivate dalla stimolazione di recettori P2Y con UTP. Esperimenti di inibizione in presenza della tossina della Pertosse hanno evidenziato il coinvolgimento di proteine Gαi nella migrazione dipendente da CXCL12 ed UTP. Ulteriori indicazioni sono provenute dall’analisi del profilo trascrizionale di cellule staminali CD34+ stimolate con UTP, con CXCL12 o con entrambi i fattori contemporaneamente. Da questa analisi è emerso il ruolo di proteine della famiglia delle Rho GTPasi e di loro effettori a valle (ROCK 1 e ROCK 2) nel promuovere la migrazione UTP-dipendente. Questi dati sono stati confermati successivamente in vitro mediante esperimenti con Tossina B di C. Difficile (un inibitore delle Rho GTPasi) e con Y27632 (in grado di inibire specificatamente le cinasi ROCK). Nel complesso, i dati emersi in questo studio dimostrano la capacità del nucleotide extracellulare UTP di modulare la migrazione in vitro di progenitori emopoietici umani, nonché il loro homing midollare in vivo. L’effetto dell’UTP su questi fenomeni si esplica in concerto con la chemochina CXCL12, attraverso l’attivazione concertata di vie di trasduzione del segnale almeno parzialmente condivise da CXCR4 e recettori P2Y e attraverso il reclutamento comune di proteine ad attività GTPasica, tra le quali le proteine Gαi e i membri della famiglia delle Rho GTPasi.

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Il lavoro è incentrato sull’applicazione ed integrazione di differenti tecniche di indagine geofisica in campo ambientale e ingegneristico/archeologico. Alcuni esempi sono stati descritti al fine di dimostrare l’utilità delle metodologie geofisiche nella risoluzione di svariate problematiche. Nello specifico l’attenzione è stata rivolta all’utilizzo delle tecniche del Ground Penetrating Radar e del Time Domain Reflectometry in misure condotte su un corpo sabbioso simulante una Zona Insatura. L’esperimento è stato realizzato all’interno di un’area test costruita presso l’azienda agricola dell’Università La Tuscia di Viterbo. Hanno partecipato al progetto le Università di Roma Tre, Roma La Sapienza, La Tuscia, con il supporto tecnico della Sensore&Software. Nello studio è stato condotto un approccio definito idrogeofisico al fine di ottenere informazioni da misure dei parametri fisici relativi alla Zona Insatura simulata nell’area test. Il confronto e l’integrazione delle due differenti tecniche di indagine ha offerto la possibilità di estendere la profondità di indagine all’interno del corpo sabbioso e di verificare l’utilità della tecnica GPR nello studio degli effetti legati alle variazioni del contenuto d’acqua nel suolo, oltre a determinare la posizione della superficie piezometrica per i differenti scenari di saturazione. Uno specifico studio è stato realizzato sul segnale radar al fine di stabilire i fattori di influenza sulla sua propagazione all’interno del suolo. Il comportamento dei parametri dielettrici nelle condizioni di drenaggio e di imbibizione del corpo sabbioso è stato riprodotto attraverso una modellizzazione delle proprietà dielettriche ed idrologiche sulla base della dimensione, forma e distribuzione dei granuli di roccia e pori, nonché sulla base della storia relativa alla distribuzione dei fluidi di saturazione all’interno del mezzo. La modellizzazione è stata operata sulle basi concettuali del Differential Effective Medium Approximation.

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Nel presente lavoro di tesi sono state messe a confronto le ATP sintasi wild-type e γM23-K in cromatofori del batterio fotosintetico Rhodobacter capsulatus sotto gli aspetti funzionale e regolatorio. Si pensava inizialmente che la mutazione, in base a studi riportati in letteratura condotti sull’omologa mutazione in E. coli, avrebbe indotto disaccoppiamento intrinseco nell’enzima. Il presente lavoro ha chiarito che il principale effetto della mutazione è un significativo aumento dell’affinità dell’enzima per l’ADP inibitorio, che ne determina il ridotto livello di ATP idrolisi e la rapidissima reinattivazione in seguito ad attivazione da forza protonmotiva. Il residuo 23 della subunità γ si trova posizionato in prossimità della regione conservata DEELSED carica negativamente della subunità β, e l’introduzione nel mutante di una ulteriore carica positiva potrebbe determinare una maggiore richiesta di energia per indurre l’apertura del sito catalitico. Un’analisi quantitativa dei dati di proton pumping condotta mediante inibizione parziale dell’idrolisi del wildtype ha inoltre mostrato come il grado di accoppiamento del mutante in condizioni standard non differisca sostanzialmente da quello del wild-type. D’altro canto, è stato recentemente osservato come un disaccoppiamento intrinseco possa venire osservato in condizioni opportune anche nel wild-type, e cioè a basse concentrazioni di ADP e Pi. Nel presente lavoro di tesi si è dimostrato come nel mutante l’osservazione del fenomeno del disaccoppiamento intrinseco sia facilitata rispetto al wild-type. È stato proprio nell’ambito delle misure condotte sul mutante che è stato possibile dimostrare per la prima volta il ruolo fondamentale della componente elettrica della forza protonmotiva nel mantenere lo stato enzimatico ad elevato accoppiamento. Tale ruolo è stato successivamente messo in luce anche nel wild-type, in parte anche grazie all’uso di inibitori specifici di F1 e di FO. Il disaccoppiamento intrinseco nel wild-type è stato ulteriormente esaminato anche nella sua dipendenza dalla rimozione di ADP e Pi; in particolare, oltre all’amina fluorescente ACMA, è stata utilizzata come sonda di ΔpH anche la 9-aminoacridina e come sonda di Δψ l’Oxonolo VI. In entrambi i casi il ruolo accoppiante di questi due ligandi è stato confermato, inoltre utilizzando la 9-aminoacridina è stato possibile calibrare il segnale di fluorescenza con salti acido-base, dando quindi una base quantitativa ai dati ottenuti. Noi riteniamo che il più probabile candidato strutturale coinvolto in questi cambiamenti di stato enzimatici sia la subunità ε, di cui è noto il coinvolgimento in processi di regolazione e in cambiamenti strutturali indotti da nucleotidi e dalla forza protonmotiva. In collaborazione con il Dipartimento di Chimica Fisica dell’Università di Friburgo è in atto un progetto per studiare i cambiamenti strutturali presumibilmente associati al disaccoppiamento intrinseco tramite FRET in singola molecola di complessi ATP-sintasici marcati con fluorofori sia sulla subunità ε che sulla subunità γ. Nell’ambito di questa tesi sono stati creati a questo fine alcuni doppi mutanti cisteinici ed è stato messo a punto un protocollo per la loro marcatura con sonde fluorescenti.

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Il traffico veicolare è la principale fonte antropogenica di NOx, idrocarburi (HC) e CO e, dato che la sostituzione dei motori a combustione interna con sistemi alternativi appare ancora lontana nel tempo, lo sviluppo di sistemi in grado di limitare al massimo le emissioni di questi mezzi di trasporto riveste un’importanza fondamentale. Sfortunatamente non esiste un rapporto ottimale aria/combustibile che permetta di avere basse emissioni, mentre la massima potenza ottenibile dal motore corrisponde alle condizioni di elevata formazione di CO e HC. Gli attuali sistemi di abbattimento permettono il controllo delle emissioni da sorgenti mobili tramite una centralina che collega il sistema di iniezione del motore e la concentrazione di ossigeno del sistema catalitico (posto nella marmitta) in modo da controllare il rapporto aria/combustibile (Fig. 1). Le marmitte catalitiche per motori a benzina utilizzano catalizzatori “three way” a base di Pt/Rh supportati su ossidi (allumina, zirconia e ceria), che, dovendo operare con un rapporto quasi stechiometrico combustibile/comburente, comportano una minore efficienza del motore e consumi maggiori del 20-30% rispetto alla combustione in eccesso di ossigeno. Inoltre, questa tecnologia non può essere utilizzata nei motori diesel, che lavorano in eccesso di ossigeno ed utilizzano carburanti con un tenore di zolfo relativamente elevato. In questi ultimi anni è cresciuto l’interesse per il controllo delle emissioni di NOx da fonti veicolari, con particolare attenzione alla riduzione catalitica in presenza di un eccesso di ossigeno, cioè in condizioni di combustione magra. Uno sviluppo recente è rappresentato dai catalizzatori tipo “Toyota” che sono basati sul concetto di accumulo e riduzione (storage/reduction), nei quali l’NO viene ossidato ed accumulato sul catalizzatore come nitrato in condizioni di eccesso di ossigeno. Modificando poi per brevi periodi di tempo le condizioni di alimentazione da ossidanti (aria/combustibile > 14,7 p/p) a riducenti (aria/combustibile < 14,7 p/p) il nitrato immagazzinato viene ridotto a N2 e H2O. Questi catalizzatori sono però molto sensibili alla presenza di zolfo e non possono essere utilizzati con i carburanti diesel attualmente in commercio. Obiettivo di questo lavoro di tesi è stato quello di ottimizzare e migliorare la comprensione del meccanismo di reazione dei catalizzatori “storage-reduction” per l’abbattimento degli NOx nelle emissioni di autoveicoli in presenza di un eccesso di ossigeno. In particolare lo studio è stato focalizzato dapprima sulle proprietà del Pt, fase attiva nei processi di storage-reduction, in funzione del tipo di precursore e sulle proprietà e composizione della fase di accumulo (Ba, Mg ed una loro miscela equimolare) e del supporto (γ-Al2O3 o Mg(Al)O). Lo studio è stato inizialmente focalizzato sulle proprietà dei precursori del Pt, fase attiva nei processi di storage-reduction, sulla composizione della fase di accumulo (Ba, Mg ed una loro miscela equimolare) e del supporto (γ-Al2O3 o Mg(Al)O). E’ stata effettuata una dettagliata caratterizzazione chimico-fisica dei materiali preparati tramite analisi a raggi X (XRD), area superficiale, porosimetria, analisi di dispersione metallica, analisi in riduzione e/o ossidazione in programmata di temperatura (TPR-O), che ha permesso una migliore comprensione delle proprietà dei catalizzatori. Vista la complessità delle miscele gassose reali, sono state utilizzate, nelle prove catalitiche di laboratorio, alcune miscele più semplici, che tuttavia potessero rappresentare in maniera significativa le condizioni reali di esercizio. Il comportamento dei catalizzatori è stato studiato utilizzando differenti miscele sintetiche, con composizioni che permettessero di comprendere meglio il meccanismo. L’intervallo di temperatura in cui si è operato è compreso tra 200-450°C. Al fine di migliorare i catalizzatori, per aumentarne la resistenza alla disattivazione da zolfo, sono state effettuate prove alimentando in continuo SO2 per verificare la resistenza alla disattivazione in funzione della composizione del catalizzatore. I principali risultati conseguiti possono essere così riassunti: A. Caratteristiche Fisiche. Dall’analisi XRD si osserva che l’impregnazione con Pt(NH3)2(NO2)2 o con la sospensione nanoparticellare in DEG, non modifica le proprietà chimico-fisiche del supporto, con l’eccezione del campione con sospensione nanoparticellare impregnata su ossido misto per il quale si è osservata sia la segregazione del Pt, sia la presenza di composti carboniosi sulla superficie. Viceversa l’impregnazione con Ba porta ad una significativa diminuzione dell’area superficiale e della porosità. B. Caratteristiche Chimiche. L’analisi di dispersione metallica, tramite il chemiassorbimento di H2, mostra per i catalizzatori impregnati con Pt nanoparticellare, una bassa dispersione metallica e di conseguenza elevate dimensioni delle particelle di Pt. I campioni impregnati con Pt(NH3)2(NO2)2 presentano una migliore dispersione. Infine dalle analisi TPR-O si è osservato che: Maggiore è la dispersione del metallo nobile maggiore è la sua interazione con il supporto, L’aumento della temperatura di riduzione del PtOx è proporzionale alla quantità dei metalli alcalino terrosi, C. Precursore Metallo Nobile. Nelle prove di attività catalitica, con cicli ossidanti e riducenti continui in presenza ed in assenza di CO2, i catalizzatori con Pt nanoparticellare mostrano una minore attività catalitica, specie in presenza di un competitore come la CO2. Al contrario i catalizzatori ottenuti per impregnazione con la soluzione acquosa di Pt(NH3)2(NO2)2 presentano un’ottima attività catalitica, stabile nel tempo, e sono meno influenzabili dalla presenza di CO2. D. Resistenza all’avvelenamento da SO2. Il catalizzatore di riferimento, 17Ba1Pt/γAl2O3, mostra un effetto di avvelenamento con formazione di solfati più stabili che sul sistema Ba-Mg; difatti il campione non recupera i valori iniziali di attività se non dopo molti cicli di rigenerazione e temperature superiori ai 300°C. Per questi catalizzatori l’avvelenamento da SO2 sembra essere di tipo reversibile, anche se a temperature e condizioni più favorevoli per il 1.5Mg8.5Ba-1Pt/γAl2O3. E. Capacità di Accumulo e Rigenerabilità. Tramite questo tipo di prova è stato possibile ipotizzare e verificare il meccanismo della riduzione. I catalizzatori ottenuti per impregnazione con la soluzione acquosa di Pt(NH3)2(NO2)2 hanno mostrato un’elevata capacità di accumulo. Questa è maggiore per il campione bimetallico (Ba-Mg) a T < 300°C, mentre per il riferimento è maggiore per T > 300°C. Per ambedue i catalizzatori è evidente la formazione di ammoniaca, che potrebbe essere utilizzata come un indice che la riduzione dei nitrati accumulati è arrivata al termine e che il tempo ottimale per la riduzione è stato raggiunto o superato. Per evitare la formazione di NH3, sul catalizzatore di riferimento, è stata variata la concentrazione del riducente e la temperatura in modo da permettere alle specie adsorbite sulla superficie e nel bulk di poter raggiungere il Pt prima che l’ambiente diventi troppo riducente e quindi meno selettivo. La presenza di CO2 riduce fortemente la formazione di NH3; probabilmente perché la CO2, occupando i siti degli elementi alcalino-terrosi lontani dal Pt, impedisce ai nitriti/nitrati o all’H2 attivato di percorrere “elevate” distanze prima di reagire, aumentando così le possibilità di una riduzione più breve e più selettiva. F. Tempo di Riduzione. Si è migliorata la comprensione del ruolo svolto dalla concentrazione dell’agente riducente e dell’effetto della durata della fase riducente. Una durata troppo breve porta, nel lungo periodo, alla saturazione dei siti attivi, un eccesso alla formazione di NH3 Attraverso queste ultime prove è stato possibile formulare un meccanismo di reazione, in particolare della fase riducente. G. Meccanismo di Riduzione. La mobilità dei reagenti, nitriti/nitrati o H2 attivato è un elemento fondamentale nel meccanismo della riduzione. La vicinanza tra i siti di accumulo e quelli redox è determinante per il tipo di prodotti che si possono ottenere. La diminuzione della concentrazione del riducente o l’aumento della temperatura concede maggiore tempo o energia alle specie adsorbite sulla superficie o nel bulk per migrare e reagire prima che l’ambiente diventi troppo riducente e quindi meno selettivo.

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E’ stato in primo luogo definito il criterio di efficienza dal punto di vista economico (con una accenno anche ai parametri elaborati dagli studiosi di discipline aziendali), nelle sue varie accezioni, ponendo altresì ciascuna di queste in relazione alle condizioni di concorrenza perfetta. Le nozioni di efficienza che sono state definite a tal fine sono quelle di efficienza allocativa, efficienza tecnica, efficienza dinamica ed efficienza distributiva. Ciascuna di esse é stata inquadrata a livello teorico secondo le definizioni fornite dalla letteratura, esaminandone le ipotesi sottostanti. E’ stata altresì descritta, contestualizzandola temporalmente, l’evoluzione della nozione, e ne sono state evidenziate le implicazioni ai fini della ricerca della forma di mercato più “efficiente”. Sotto quest’ultimo aspetto l’attenzione dello scrivente si é incentrata sul rapporto tra le diverse accezioni di efficienza economica oggetto di analisi e la desiderabilità o meno di un regime di concorrenza perfetta. Il capitolo si conclude con una breve panoramica sulle metodologie di misurazione finalizzata ad individuare i principali parametri utilizzati per determinare il livello di efficienza, di un mercato, di un’attività produttiva o di un’impresa, posto che, come verrà specificato nel prosieguo della tesi, la valutazione di efficienza in ambito antitrust deve essere verificata, ove possibile, anche basandosi sull’evidenza empirica delle singole imprese esaminate, come richiede il criterio della rule of reason. Capitolo 2 Presupposto per avere una regolazione che persegua l’obiettivo di avere una regolazione efficiente ed efficace, è, a parere di chi scrive, anche l’esistenza di autorità pubbliche deputate a esercitare la funzione regolatoria che rispettino al proprio interno e nel proprio agire la condizione di efficienza definita rispetto ai pubblici poteri. Lo sviluppo di questa affermazione ha richiesto in via preliminare, di definire il criterio di efficienza in ambito pubblicistico individuandone in particolare l’ambito di applicazione, il suo rapporto con gli altri principi che reggono l’azione amministrativa (con particolare riferimento al criterio di efficacia). Successivamente é stato collocato nel nostro ordinamento nazionale, ponendolo in relazione con il principio di buon andamnento della Pubblica Amministrazione, benchè l’ordinamento italiano, per la sua specificità non costituisca un esempio estendibile ad ordinamenti. Anche con riferimento al criterio di efficienza pubblica, un paragrafo é stato dedicato alle metodologie di misurazione di questa, e, nello specifico sull’Analisi Costi-Benefici e sull’Analisi di Impatto della Regolazione Una volta inquadrata la definizione di efficienza pubblica, questa é stata analizzata con specifico riferimento all’attività di regolazione dell’economia svolta dai soggetti pubblici, ambito nella quale rientra la funzione antitrust. Si é provato in particolare ad evidenziare, a livello generale, quali sono i requisiti necessari ad un’autorità amministrativa antitrust, costituita e dotata di poteri ad hoc, affinché essa agisca, nella sua attività di regolazione, secondo il principio di efficienza, Il capitolo si chiude allargando l’orizzonte della ricerca verso una possibile alternativa metodologica al criterio di efficienza precedentemente definito: vi si é infatti brevemente interrogati circa lo schema interpretativo nel quale ci muoviamo, affrontando la questione definitoria del criterio di efficienza, ponendolo in relazione con l’unico modello alternativo esistente, quello sviluppatosi nella cultura cinese. Non certo per elaborare un’applicazione in “salsa cinese” del criterio di efficienza alla tutela della concorrenza, compito al quale lo scrivente non sarebbe stato in grado di ottemperare, bensì, più semplicemente per dare conto di un diverso approccio alla questione che il futuro ruolo di superpotenza economica della Cina imporrà di prendere in considerazione. Capitolo 3 Nel terzo capitolo si passa a definire il concetto di concorrenza come istituto oggetto di tutela da parte della legge antitrust, per poi descrivere la nascita e l’evoluzione di tale legislazione negli Stati Uniti e della sua applicazione, posto che il diritto antitrust statunitense ancora oggi costituisce il necessario punto di riferimento per lo studioso di questa materia. L’evoluzione del diritto antitrust statunitense é stata analizzata parallelamente allo sviluppo delle principali teorie di law and economics che hanno interpretato il diritto della concorrenza quale possibile strumento per conseguire l’obiettivo dell’efficienza economica: la Scuola di Harvard e il paradigma strutturalista, la teoria evoluzionista della Scuola Austriaca, la Scuola di Chicago; le c.d. teorie “Post-Chicago”. Nel terzo capitolo, in altri termini, si é dato conto dell’evoluzione del pensiero economico con riferimento alla sua applicazione al diritto antitrust, focalizzando l’attenzione su quanto avvenuto negli Stati Uniti, paese nel quale sono nati sia l’istituto giuridico della tutela della concorrenza sia l’analisi economica del diritto. A conclusione di questa ricostruzione dottrinale ho brevemente esaminato quelle che sono le nuove tendenze dell’analisi economica del diritto, e specificatamente la teoria del comportamento irrazionale, benché esse non abbiano ancora ricevuto applicazione al diritto antitrust. Chi scrive ritiene infatti che queste teorie avranno ricadute anche in questa materia poiché essa costituisce uno dei principali ambiti applicativi della law and economics. Capitolo 4 Nel quarto capitolo é stata effettuata una disanima della disciplina comunitaria antitrust sottolineando come l’Unione Europea si proponga attraverso la sua applicazione, soprattutto in materia di intese, di perseguire fini eterogenei, sia economici che non economici, tra loro diversi e non di rado contrastanti, e analizzando come questa eterogeneità di obiettivi abbia influito sull’applicazione del criterio di efficienza. Attenendomi in questo capitolo al dato normativo, ho innanzitutto evidenziato l’ampiezza dell’ambito di applicazione della disciplina comunitaria antitrust sia dal punto di vista soggettivo che territoriale (dottrina dell’effetto utile), sottolineando come la norma giustifichi esplicitamente il ricorso al criterio di efficienza solo nella valutazione delle intese: il comma 3 dell’art. 81 del Trattato include, infatti, tra i requisiti di una possibile esenzione dall’applicazione del divieto per le intese qualificate come restrittive della concorrenza, la possibilità di ottenere incrementi di efficienza tecnica e/o dinamica attraverso l’implementazione delle intese in questione. Tuttavia la previsione da parte dello stesso art. 81 (3) di altri requisiti che devono contemporaneamente essere soddisfatti affinché un intesa restrittiva della concorrenza possa beneficiare dell’esenzione, nonché la possibile diversa interpretazione della locuzione “progresso tecnico ed economico”, impone, o comunque ammette, il perseguimento di altri obiettivi, contestualmente a quello dell’efficienza, giustificando così quell’eterogeneità dei fini che contraddistingue la politica della concorrenza dell’Unione Europea. Se la disciplina delle intese aiuta a comprendere il ruolo del criterio di efficienza nell’applicazione dei precetti antitrust da parte degli organi comunitari, l’art. 82 del Trattato non contiene invece alcun riferimento alla possibilità di utilizzare il criterio di efficienza nella valutazione delle condotte unilaterali poste in essere da imprese in posizione dominante sul mercato rilevante. Si è peraltro dato conto della consultazione recentemente avviata dalla Commissione Europea finalizzata all’elaborazione di Linee Guida che definiscano i criteri di interpretazione che l’organo comunitario dovrà seguire nella valutazione dei comportamenti unilaterali. A parere dello scrivente, anzi, l’assenza di un preciso schema cui subordinare la possibilità di ricorrere al criterio di efficienza nella valutazione della fattispecie, attribuisce alle autorità competenti un più ampio margine di discrezionalità nell’utilizzo del suddetto criterio poiché manca il vincolo della contestuale sussistenza delle altre condizioni di cui all’art. 81(3). Per quanto concerne infine la disciplina delle concentrazioni, essa, come abbiamo visto, prevede un riferimento ai possibili incrementi di efficienza (tecnica e dinamica) derivanti da operazioni di fusione, utilizzando la nozione utilizzata per le intese, così come nel precedente Regolamento 4064/89. Si é infine analizzato il nuovo Regolamento in materia di concentrazioni che avrebbe potuto costituire l’occasione per recepire nella disciplina comunitaria l’attribuzione della facoltà di ricorrere all’efficiency defense in presenza di una fattispecie, quella della fusione tra imprese, suscettibile più di altre di essere valutata secondo il criterio di efficienza, ma che si é invece limitato a riprendere la medesima locuzione presente nell’art. 81(3). Il capitolo attesta anche l’attenzione verso l’istanza di efficienza che ha riguardato il meccanismo di applicazione della norma antitrust e non il contenuto della norma stessa; a questo profilo attiene, infatti, l’innovazione apportata dal Regolamento 1/2003 che ha permesso, a parere dello scrivente, un’attribuzione più razionale della competenza nella valutazione dei casi tra la Commissione e le autorità nazionali degli Stati membri; tuttavia pone alcune questioni che investono direttamente il tema dei criteri di valutazione utilizzati dalle autorità competenti. Capitolo 5 L’analisi del quarto capitolo é stata condotta, sebbene in forma più sintetica, con riferimento alle normative antitrust dei principali Stati membri della Comunità Europea (Germania, Gran Bretagna, Spagna, Francia e Italia), rapportando anche queste al criterio di efficienza, ove possibile. Particolare attenzione é stata dedicata ai poteri e alle competenze attribuite alle autorità nazionali antitrust oggetto di studio dall’ordinamento giuridico cui appartengono e al contesto, in termini di sistema giuridico, nel quale esse operano. Capitolo 6 Si é provato ad effettuare una valutazione del livello di efficienza delle autorità prese in esame, la Commissione e le diverse autorità nazionali e ciò con particolare riferimento alla idoneità di queste a svolgere i compiti istituzionali loro affidati (criterio di efficienza dal punto di vista giuridico): affinchè un’autorità si possa ispirare al criterio di efficienza economica nell’adozione delle decisioni, infatti, è preliminarmente necessario che essa sia idonea a svolgere il compito che le è stato affidato dall’ordinamento. In questo senso si é osservata la difficoltà dei paesi di civil law a inquadrare le autorità indipendenti all’interno di un modello, quello appunto di civil law, ispirato a una rigida tripartizione dei poteri. Da qui la difficile collocazione di queste autorità che, al contrario, costituiscono un potere “ibrido” che esercita una funzione di vigilanza e garanzia non attribuibile integralmente né al potere esecutivo né a quello giurisdizionale. Si rileva inoltre una certa sovrapposizione delle competenze e dei poteri tra autorità antitrust e organi ministeriali, in particolare nel campo delle concentrazioni che ingenera un rischio di confusione e bassa efficienza del sistema. Mantenendo, infatti, un parziale controllo politico si rischia, oltre all’introduzione di criteri di valutazione politica che prescindono dagli effetti delle fattispecie concrete sul livello di concorrenza ed efficienza del mercato, anche di dare luogo a conflitti tra le diverse autorità del sistema che impediscano l’adozione e l’implementazione di decisioni definitive, incrementando altresì i costi dell’intervento pubblico. Un giudizio a parte è stato infine formulato con riguardo alla Commissione Europea, istituzione, in quanto avente caratteristiche e poteri peculiari. Da un lato l’assenza di vincolo di mandato dei Commissari e l’elevata preparazione tecnica dei funzionari costituiscono aspetti che avvicinano la Commissione al modello dell’autorità indipendenti, e l’ampiezza dei poteri in capo ad essa le permette di operare efficientemente grazie anche alla possibilità di valersi dell’assistenza delle autorità nazionali. Dall’altra parte, tuttavia la Commissione si caratterizza sempre di più come un organo politico svolgente funzioni esecutive, di indirizzo e di coordinamento che possono influenzare gli obiettivi che essa persegue attraverso l’attività antitrust, deviandola dal rispetto del criterio di efficienza. Capitolo 7 Una volta definito il contesto istituzionale di riferimento e la sua idoneità a svolgere la funzione affidatagli dall’ordinamento comunitario, nonché da quelli nazionali, si è proceduto quindi all’analisi delle decisioni adottate da alcune delle principali autorità nazionali europee competenti ad applicare la disciplina della concorrenza dal punto di vista dell’efficienza. A tal fine le fattispecie rilevanti a fini antitrust dal punto di vista giuridico sono state classificate utilizzando un criterio economico, individuando e definendo quelle condotte che presentano elementi comuni sotto il profilo economico e per ciascuna di esse sono state inquadrate le problematiche rilevanti ai fini dell’efficienza economica sulla scorta dei contributi teorici e delle analisi empiriche svolte dalla letteratura. 6 Con riferimento a ciascuna condotta rilevante ho esaminato il contenuto di alcune delle decisioni antitrust più significative e le ho interpretate in base al criterio di efficienza. verificando se e in quale misura le autorità antitrust prese in esame utilizzano tale criterio, cercando altresì di valutare l’evoluzione dei parametri di valutazione occorsa nel corso degli anni. Le decisioni analizzate sono soprattutto quelle adottate dalla Commissione e le eventuali relative sentenze della Corte di Giustizia Europea; ciò sia per la maggior rilevanza dei casi trattati a livello comunitario, sia in quanto le autorità nazionali, con qualche rara eccezione, si conformano generalmente ai criteri interpretativi della Commissione. Riferimenti a decisioni adottate dalle autorità nazionali sono stati collocati allorquando i loro criteri interpretativi si discostino da quelli utilizzati dagli organi comunitari. Ne è emerso un crescente, anche se ancora sporadico e incostante, ricorso al criterio di efficienza da parte degli organi europei preposti alla tutela della concorrenza. Il tuttora scarso utilizzo del criterio di efficienza nello svolgimento dell’attività antitrust è motivato, a parere di chi scrive, in parte dall’eterogeneità degli obiettivi che l’Unione Europea persegue attraverso la politica della concorrenza comunitaria (completamento del mercato unico, tutela del consumatore, politica industriale, sviluppo delle aree svantaggiate), in parte dall’incapacità (o dall’impossibilità) delle autorità di effettuare coerenti analisi economiche delle singole fattispecie concrete. Anche le principali autorità nazionali mostrano una crescente propensione a tendere conto dell’efficienza nella valutazione dei casi, soprattutto con riferimento agli accordi verticali e alle concentrazioni, sulla scia della prassi comunitaria. Più innovativa nell’applicazione del criterio di efficienza economica così come nella ricerca di uso ottimale delle risorse si è finora dimostrato l’OFT, come vedremo anche nel prossimo capitolo. Al contrario sembra più lenta l’evoluzione in questo senso dell’Ufficio dei Cartelli tedesco sia a causa delle già citate caratteristiche della legge antitrust tedesca, sia a causa del persistente principio ordoliberale della prevalenza del criterio della rule of law sulla rule of reason. Peraltro, anche nei casi in cui le Autorità siano propense ad utilizzare il criterio di efficienza nelle loro valutazioni, esse si limitano generalmente ad un’analisi teorica dell’esistenza di precondizioni che consentano alle imprese in questione di ottenere guadagni di efficienza. La sussistenza di tali pre-condizioni viene infatti rilevata sulla base della capacità potenziale della condotta dell’impresa (o delle imprese) di avere un effetto positivo in termini di efficienza, nonché sulla base delle caratteristiche del mercato rilevante. Raramente, invece, si tiene conto della capacità reale dei soggetti che pongono in essere la pratica suscettibile di essere restrittiva della concorrenza di cogliere effettivamente queste opportunità, ovvero se la struttura e l’organizzazione interna dell’impresa (o delle imprese) non è in grado di mettere in pratica ciò che la teoria suggerisce a causa di sue carenza interne o comunque in ragione delle strategie che persegue. Capitolo 8 Poiché l’approccio ispirato al criterio di efficienza economica non può prescindere dalle caratteristiche del settore e del mercato in cui operano l’impresa o le imprese che hanno posto in essere la condotta sotto esame, e poiché una valutazione approfondita di tutti i settori non era effettuabile per quantità di decisioni adottate dalle autorità, ho infine ritenuto di svolgere un’analisi dettagliata dell’attività delle autorità con riferimento ad uno specifico settore. La scelta è caduta sul settore dei trasporti in quanto esso presenta alcune problematiche che intrecciano l’esigenza di efficienza con la tutela della concorrenza, nonché per la sua importanza ai fini dello sviluppo economico. Tanto più alla luce del fenomeno della crescente apertura dei mercati che ha enfatizzato la triplice funzione dei trasporti di merci, di livellamento nello spazio dei prezzi di produzione, di redistribuzione nello spazio dell’impiego dei fattori della produzione, e soprattutto di sollecitazione al miglioramento delle tecnologie utilizzate nella produzione stessa in quanto contribuiscono alla divisione territoriale del lavoro e alla specializzazione produttiva. A loro volta, d’altra parte, i miglioramenti tecnici e organizzativi intervenuti nel settore negli ultimi trenta anni hanno reso possibile il fenomeno della globalizzazione nella misura in cui lo conosciamo. Così come le riduzioni di costo e di tempo conseguite nel trasporto di persone hanno consentito massicci spostamenti di lavoratori e più in generale di capitale umano da una parte all’altra del globo, e favorito altresì la spettacolare crescita del settore turistico. Ho quindi condotto un’analisi delle decisioni antitrust relative al settore dei trasporti, suddividendo la casistica in base al comparto al quale esse si riferivano, cercando sempre di non perdere di vista i crescenti legami che esistono tra i vari comparti alla luce dell’ormai affermato fenomeno del trasporto multimodale. Dall’analisi svolta emerge innanzitutto come l’assoggettamento del settore dei trasporti alla disciplina di tutela della concorrenza sia un fenomeno relativamente recente rispetto alle altre attività economiche, laddove la ragione di tale ritardo risiede nel fatto che tradizionalmente questo settore era caratterizzato da un intervento pubblico diretto e da una pervasiva regolamentazione, a sua volta giustificata da vari fattori economici: le caratteristiche di monopolio naturale delle infrastrutture; le esigenze di servizio pubblico connesse all’erogazione di molti servizi di trasporto; il ruolo strategico svolto dal trasporto sia di persone che di merci ai fini della crescita economica di un sistema. Si concretizza, inoltre, con riferimento ai trasporti marittimi e aerei, l’inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che spesso hanno effetti letteralmente globali. Le imprese marittime e aeree coinvolte nelle fattispecie da noi esaminate, infatti, in molti casi predisponevano, direttamente o mediatamente, tramite “alleanze”, collegamenti tra tutte le aree del mondo, individuando nell’Europa solo un nodo di un network ben più ampio Da questa constatazione discende, a parere dello scrivente, l’impossibilità per l’autorità comunitaria e ancor più per quella nazionale di individuare tutti gli effetti in termini di efficienza che la fattispecie concreta può provocare, non includendo pertanto solo quelli evidenti sul mercato comunitario. Conseguentemente una reale applicazione del criterio di efficienza all’attività antitrust nel settore dei trasporti non può prescindere da una collaborazione tra autorità a livello mondiale sia a fini di indagine che a fini di individuazione di alcuni principi fondamentali cui ispirarsi nello svolgimento della loro missione istituzionale. Capitolo 9. Conclusioni L’opera si chiude con l’individuazione delle evidenze e degli elementi emersi dalla trattazione considerati dallo scrivente maggiormente rilevanti nell’ambito dell’attuale dibattito di economia positiva circa le principali problematiche che affiggono l’intervento antitrust con particolare riferimento al suo rispetto del criterio di efficienza. Sono state altresì proposte alcune soluzioni a quelle che sono, a parere dello scrivente, le principali carenze dell’attuale configurazione dell’intervento antitrust a livello europeo, sempre in una prospettiva di efficienza sia delle autorità competenti sia dei mercati in cui le autorità stesse cercano di mantenere o ripristinare condizioni di concorrenza effettiva. Da un lato il modello costituito dalla Commissione Europea, l’autorità antitrust comunitaria, non replicabile né esente da critiche: la Commissione, infatti, rappresenta il Governo dell’Unione Europea e come tale non può ovviamente costituire un esempio di autorità indipendente e neutrale recepibile da parte degli Stati membri. Ciò anche a prescindere dalla questione della sua legittimazione, che in questa sede non affrontiamo. Dall’altro in una prospettiva di efficienza dei mercati la crescente applicazione delle teorie economiche da parte delle autorità esaminate è rimasta a un livello astratto, senza porre la dovuta attenzione alle specificità dei mercati rilevanti né tantomeno alle dinamiche interne alle singole imprese, con particolare riferimento alla loro capacità di rendere effettivi i guadagni di efficienza individuabili a livello potenziale, così come prescrive la più recente teoria economica applicata al diritto antitrust. Sotto il profilo dell’applicazione del criterio di efficienza si può comunque affermare che l’evoluzione che ha avuto la prassi decisionale e la giurisprudenza, comunitaria e degli Stati membri, in materia antitrust è stata caratterizzata dal loro progressivo avvicinamento alle tendenze sviluppatesi nelle agencies e nella giurisprudenza statunitense a partire dagli anni’70, caratterizzate dalla valutazione degli effetti, piuttosto che della forma giuridica, dal riconoscimento del criterio di efficienza e dalla rule of reason quale approccio metodologico. L’effetto è stato quello di determinare una significativa riduzione delle differenze inizialmente emerse tra le due esperienze, nate inizialmente sotto diverse prospettive politiche. Per quanto concerne specificatamente i trasporti sono emersi sotto il profilo economico due aspetti rilevanti, oltre al perdurante ritardo con cui il processo di liberalizzazione del trasporto ferroviario che limita fortemente l’intervento antitrust nel comparto, ma che esula dalla competenza delle stesse autorità antitrust. Il primo consiste nella spesso troppo rigida separazione tra comparti adottata dalle autorità. Il secondo è l’estensivo ricorso all’essential facility doctrine nelle fattispecie riguardanti infrastrutture portuali e aeroportuali: la massimizzazione dell’efficienza dinamica consiglierebbe in questi casi una maggiore cautela, in quanto si tratta di un paradigma che, una volta applicato, disincentiva la duplicazione e l’ampliamento di tali infrastrutture autoalimentandone il carattere di essenzialità. Ciò soprattutto laddove queste infrastrutture possono essere sostituite o duplicate piuttosto facilmente da un punto di vista tecnico (meno da un punto di vista economico e giuridico), essendo esse nodi e non reti. E’stata infine sottolineata l’inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che con riferimento ai trasporti marittimi ed aerei hanno effetti letteralmente globali. E’ di tutta evidenza che le autorità comunitarie e tantomeno quelle nazionali non sono da sole in grado di condurre le analisi quantitative necessarie ad una valutazione di tali condotte ispirata a un criterio di efficienza che tenga conto degli effetti di lungo periodo della fattispecie concreta. Né tali autorità sono sufficientemente neutre rispetto alla nazionalità delle imprese indagate per poter giudicare sulla liceità o meno della condotta in questione senza considerare gli effetti della loro decisione sull’economia interna, rendendo così ancora più improbabile un corretto utilizzo del criterio di efficienza. Da ultimo ho constatato come l’applicazione del concetto di efficienza giuridica imporrebbe di concepire autorità antitrust del tutto nuove, sganciate quanto più possibile dall’elemento territoriale, in grado di elaborare regole e standards minimi comuni e di permettere il controllo dei comportamenti di impresa in un contesto ampliato rispetto al tradizionale mercato unico, nonchè ai singoli mercati nazionali. Il processo di armonizzazione a livello globale è difficile e il quadro che attualmente viene formato è ancora confuso e incompleto. Vi sono tuttavia sparsi segnali attraverso i quali é possibile intravedere i lineamenti di una futura global governance della concorrenza che permetterà, sperabilmente, di incrementare l’efficienza di un sistema, quello antitrust, che tanto più piccolo è l’ambito in cui opera quanto più si sta dimostrando inadeguato a svolgere il compito affidatogli. Solo il futuro, peraltro, ci consentirà di verificare la direzione di sviluppo di questi segnali.

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La definizione di “benessere animale” e le modalità di determinazione di tale parametro sono ancora ampiamente dibattute. C’è, però, una generale concordanza sul fatto che una condizione di malessere dia origine a variazioni fisiologiche e comportamentali che possono essere rilevate e misurate. Tra i parametri endocrini, il più studiato è, senza dubbio, il cortisolo, in quanto connesso con l’attivazione dell’asse ipotalamico-pituitario-surrenale in condizioni di stress e quindi ritenuto indicatore ideale di benessere, benché debba essere utilizzato con cautela in quanto un aumento dei livelli di questo ormone non si verifica con ogni tipo di stressor. Inoltre, si deve considerare che la raccolta del campione per effettuare le analisi, spesso implica il confinamento ed il contenimento degli animali e può essere, quindi, essa stessa un fattore stressante andando ad alterare i risultati. Alla luce delle suddette conoscenze gli obiettivi scientifici di questa ricerca, condotta sul gatto e sul cane, sono stati innanzitutto validare il metodo di dosaggio di cortisolo dal pelo e stabilire se tale dosaggio può rappresentare un indicatore, non invasivo, di benessere dell’animale (indice di “stress cronico”). In seguito, abbiamo voluto individuare i fattori di stress psico-sociale in gatti che vivono in gattile, in condizioni di alta densità, analizzando i correlati comportamentali ed ormonali dello stress e del benessere in questa condizione socio-ecologica, ricercando, in particolare, l’evidenza ormonale di uno stato di stress prolungato e la messa in atto di strategie comportamentali di contenimento dello stesso e il ruolo della marcatura visivo-feromonale, inoltre abbiamo effettuato un confronto tra oasi feline di diversa estensione spaziale per valutare come varia lo stress in rapporto allo spazio disponibile. Invece, nel cane abbiamo voluto evidenziare eventuali differenze dei livelli ormonali tra cani di proprietà e cani di canili, tra cani ospitati in diversi canili e tra cani che vivono in diverse realtà familiari; abbiamo voluto valutare gli effetti di alcuni arricchimenti sui cani di canile ed, infine, abbiamo analizzato cani sottoposti a specifici programmi si addestramento. Il primo importante ed originale risultato raggiunto, che risponde al primo obiettivo della ricerca, è stato la validazione del dosaggio radioimmunologico di cortisolo in campioni di pelo. Questo risultato, a nostro avviso, apre una nuova finestra sul campo della diagnostica endocrinologica metabolica. Attualmente, infatti, il monitoraggio ormonale viene effettuato su campioni ematici la cui raccolta prevede un elevato stress (stress da prelievo) per l’animale data l'invasività dell'operazione che modifica l’attività di ipotalamo-ipofisi-surrene e, dunque, provoca repentine alterazioni delle concentrazioni ormonali. Questa metodica offre, quindi, il vantaggio dell’estrema semplicità di raccolta del campione e, in più, il bassissimo costo del materiale utilizzato. Dalle ricerche condotte sui gatti di gattile sono scaturite preziose indicazioni per future indagini sullo stress e sul comportamento sociale felino. I risultati dell’analisi congiunta del comportamento e delle concentrazioni ormonali hanno evidenziato che la disponibilità di postazioni di marcatura visivo-feromonale ha un effetto positivo sia sugli indicatori comportamentali, sia su quelli ormonali di stress. I risultati dell’analisi delle concentrazioni di cortisolo, derivanti dal confronto tra sette oasi feline di diversa estensione spaziale hanno permesso di evidenziare un aumento dei livelli dell’ormone inversamente proporzionale allo spazio disponibile. Lo spazio disponibile, però, non è l’unico fattore da prendere in considerazione al fine di assicurare il benessere dell’animale infatti, nelle colonie che presentavano instabilità sociale e variabilità territoriale il cortisolo aveva valori elevati nonostante le notevoli disponibilità di spazio. Infine, si è potuto costatare come anche lo stare appartati, aumenti proporzionalmente con l’aumentare dello spazio. Questo comportamento risulta essere molto importante in quanto mitiga lo stress ed è da prendere in considerazione nell’allestimento di colonie feline. Infatti, nelle colonie di dimensioni ridotte dove lo stress è già alto, l’impossibilità dei soggetti di appartarsi può contribuire a peggiorare la situazione; ecco perché si dovrebbero creare luoghi artificiali per fornire ai gatti la possibilità di appartarsi, magari sfruttando gli spazi sopraelevati (tetti, alberi, ecc.). Per quanto riguarda il confronto tra cani di proprietà e cani di canile non sono state evidenziate differenze significative nei livelli di cortisolo nel pelo mentre abbiamo rilevato che quest’ultimi sono influenzati dalla disponibilità di spazio: infatti sia i cani di proprietà che vivevano in giardino, sia i cani dei canili che praticavano lo sgambamento presentavano livelli di cortisolo nel pelo più bassi rispetto, rispettivamente, ai cani di proprietà che vivevano in appartamento o appartamento/giardino e a quelli di canile che non praticavano lo sgambamento. L’arricchimento ambientale fornito ai cani di canile ha esercitato un’influenza positiva riducendo i livelli di cortisolo e migliorando la docilità dei soggetti, favorendone un’eventuale adozione. Si è inoltre messo in luce che i programmi di addestramento, eseguiti con tecniche “gentili”, non comportano situazioni stressanti per l’animale e aiutano i cani ad esprimere doti di equilibrio che rimarrebbero altrimenti celate dagli aspetti più istintivi del carattere. D’altra parte, l’impegno agonistico prima di una competizione e il livello di addestramento raggiunto dai cani, influenzano le concentrazioni di cortisolo a riposo e durante l’esercizio fisico. Questi risultati possono sicuramente dare utili suggerimenti per la gestione e la cura di gatti e cani al fine di migliorarne le condizioni di benessere.

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SCOPO DELLA RICERCA Aedes albopictus è diventata in pochi anni dalla sua introduzione in Italia la specie di zanzara più nociva e più importante sotto il profilo sanitario. Essendo una zanzara tipicamente urbana e ad attività diurna, limita fortemente la fruizione degli spazi aperti ed incide negativamente su alcune attività economiche. Il recente episodio epidemico di Chikungunya, che ha colpito il nostro Paese, ha allarmato le autorità sanitarie nazionali ed europee che stanno attivando misure di prevenzione e contrasto per fronteggiare il rischio che il virus diventi endemico o che altri virus possano essere introdotti nelle nostre aree. Le misure di lotta contro Aedes albopictus attualmente in essere (lotta larvicida, rimozione dei microfocolai, informazione e coinvolgimento dei cittadini) non danno risultati sufficienti in termini di capacità di contenimento delle densità del vettore. Per questo è stato avviato un progetto di ricerca centrato sull'applicazione del metodo dell'autocidio a questa specie. L’attività di ricerca svolta ha avuto come scopo la messa a punto delle metodiche di allevamento massale e di sterilizzazione in grado di permettere la produzione di maschi di qualità sufficiente a garantire una buona fitness nelle condizioni di campo e competitività coi maschi selvatici nella fase di accoppiamento. Le prove condotte possono essere raggruppate sotto tre principali campi di indagine: Prove di allevamento, Prove di Irraggiamento e Prove di Competizione. 1. Prove di allevamento In questo ambito sono state esaminate nuove diete larvali al fine di ottenere una più elevata produttività in termini di pupe con tempi di impupamento e dimensioni delle pupe più omogenei. È stata inoltre valutata la possibile reazione fagostimolante dell’ATP addizionato al pasto di sangue delle femmine adulte con lo scopo di incrementare la produttività di uova prodotte dai ceppi di Ae.albopictus in allevamento. 2. Prove di irraggiamento Attraverso prove di laboratorio sono stati investigati in gabbia gli effetti sterilizzanti di diverse dosi radianti (20 - 85 Gy) sulle pupe maschio di Ae. albopictus per la valutazione dei livelli di sterilità, fertilità e fecondità indotti sulle femmine. Si sono compiute inoltre indagini per valutare eventuali alterazioni dello stato fisiologico dei maschi irraggiati e dei livelli di sterilità indotti su femmine, in funzione dell’età pupale alla quale venivano sottoposti a radiazioni. Analisi degli effetti delle radiazioni sui tempi di rotazione genitale, sulla velocità ed efficacia degli accoppiamenti e sui tempi di sfarfallamento degli adulti sono state condotte su maschi irraggiati a diverse dosi. Infine su femmine di Ae. albopictus si sono realizzate prove in gabbia per lo studio dei tempi di recettività all'accoppiamento. Prove di competizione L'effetto negativo della colonizzazione in condizioni artificiali e l'irraggiamento sono riconosciuti come i fattori principali che incidono sulla competitività dei maschi sterilizzati nei confronti di quelli fertili. Per la verifica della variazione di fitness dovuta a imbreeding ed eterosi, prove di competizione in serra (7,5 x 5 x 2,80 m) sono state realizzate impiegando ceppi allevati in laboratorio, ceppi selvatici raccolti in campo e ceppi ibridi ottenuti incrociando diversi ceppi di laboratorio. RISULTATI 1. Prove di allevamento Sono state confrontate la dieta standard (DS = 2,5 mg/larva Friskies Adult ® + 0,5 mg/larva lievito di birra) e la nuova dieta integrata addizionata di Tetramin ® (DI = DS + 0,2 mg/larva Tetramin ®) per l’alimentazione delle larve in allevamento. Le prove condotte hanno evidenziato una buona risposta nelle percentuali di impupamento e di produttività in termini di pupe per la nuova dieta senza però evidenziare miglioramenti significativi con la DS. Con la dieta integrata si ottiene un impupamento a 7 giorni del 66,6% delle larve allevate (65% con la DS) e il setacciamento a 1400 μm delle pupe ottenute produce in media il 98,3% di maschi nel setacciato (98,5% con la DS). Con la dieta standard la percentuale di maschi ottenuti sulle larve iniziali è pari a 27,2% (20-25% con la DS). Come riportato da Timmermann e Briegel (1999) la dieta delle larve va strutturata con l’obiettivo di garantire un ampio range di elementi nutritivi evitando così il rischio di carenze o sub-carenze che possano influire negativamente sulla produttività dell’allevamento e sulle condizioni di vigore dei maschi. Secondo Reisen (1980, 1982), l’influenza negativa dell’allevamento sulla competitività dei maschi nella fase di accoppiamento potrebbe essere di maggiore peso rispetto all’influenza dell’irraggiamento dei maschi. Infine le prove di laboratorio condotte per la verifica dell’efficacia fagostimolante di ATP nel pasto di sangue offerto alle femmine dell’allevamento non hanno evidenziato differenze significative in nessuno dei parametri considerati tra il campione nutrito con ATP e il testimone. Nella realizzazione di allevamenti massali per la produzione di maschi da irraggiare, si ritiene quindi opportuno mantenere la nuova dieta testata che garantisce una spettro nutritivo più ampio e completo alle larve in allevamento. L’aggiunta di ATP nel pasto di sangue delle femmine adulte non sarà impiegato in quanto troppo costoso e significativamente poco produttivo nel garantire un aumento del numero di uova prodotte. 2. Prove di irraggiamento Oltre alla sopravvivenza e alla sterilità, la scelta dello stadio di sviluppo più conveniente da irraggiare in un programma SIT dipende dalla possibilità di maneggiare in sicurezza grandi quantità di insetti senza danneggiarli durante tutte le fasi che intercorrono tra l’allevamento massale, l’irraggiamento e il lancio in campo. La fase pupale risulta sicuramente più vantaggiosa per il maggior numero di pupe irraggiabili per unità di volume e per il minimo danneggiamento arrecabile all'insetto che viene mantenuto in acqua durante tutte le procedure. La possibilità di lavorare con la minima dose radiante efficace, significa ridurre lo stress provocato inevitabilmente alle pupe maschio, che si manifesta nell’adulto con una ridotta longevità, una diminuita capacità di accoppiamento o di ricerca del partner e attraverso possibili alterazioni comportamentali che possono rendere il maschio inattivo o inefficace una volta introdotto in campo. I risultati ottenuti sottoponendo pupe maschili a irraggiamento a differenti ore dall’impupamento evidenziano come la maturità del campione influisca sia sulla mortalità delle pupe che sull’efficacia sterilizzante dell’irraggiamento. Come riportato anche da Wijeyaratne (1977) le pupe più vecchie mostrano una minore mortalità e una maggiore sensibilità alle radiazioni rispetto a quelle più giovani. In particolare si è osservato come pupe maschili di età superiore 24h fossero maggiormente sensibili all’irraggiamento riportando minore perdita di competitività rispetto alle pupe irraggiate precocemente. La minore dose impiegata per il raggiungimento della sterilità con minimi effetti sulla longevità dei maschi trattati e con livelli di fecondità e fertilità indotti sulle femmine non differenti dal testimone, corrisponde a 40Gy (Cs 137 - 2,3 Gy/min). Analizzando la sopravvivenza dei maschi, si osserva una tendenza all'aumento della mortalità in funzione dell’aumento della dose fornita per tutte le età pupali di irraggiamento testate. Per trattamenti condotti su pupe di età > 30h la longevità dei maschi non risente dell’irraggiamento fino a dosi di 40Gy. La fecondità delle femmine accoppiatesi con maschi irraggiati con dosi superiori a 40Gy mostra una tendenza alla riduzione del numero di uova prodotte con l’aumentare della dose ricevuta dal maschio. L’irraggiamento delle pupe non determina variazioni significative nei tempi di sfarfallamento degli adulti per le diverse dosi radianti fornite e per le differenti età pupali testate in rapporto al testimone. L’irraggiamento influenza al contrario i tempi di rotazione dei genitali esterni dei maschi evidenziando un ritardo proporzionale alla dose ricevuta. Resta da definire sui maschi irraggiati l’effetto combinato dei due effetti sui tempi di sfarfallamento degli adulti anche se appare chiara l’assenza di variazioni significative per la dose di irraggiamento 40Gy scelta come radiazione utile per la sterilizzazione dei maschi da lanciare in campo. Per quanto riguarda l’analisi dei tempi di accoppiamento dei maschi irraggiati si osserva in generale una minore reattività rispetto ai maschi fertili particolarmente marcata nei maschi irraggiati a dosi superiori i 40 Gy. Gli studi condotti sui tempi di accoppiamento delle femmine evidenziano una buona recettività (>80%) all’accoppiamento solo per femmine di età superiore a 42 - 48 h femmine. Prima di tale periodo la femmina realizza accoppiamenti con normale appaiamento dei due sessi ma non riceve il trasferimento degli spermi. 3. Prove di competizione Prove preliminari di competizione in tunnel svolte nel 2006 su ceppi selvatici e di allevamento avevano mostrato risultati di competitività dei maschi sterili (50 Gy) segnati da forte variabilità. Nel 2007 dopo aver condotto analisi per la verifica dei tempi di sfarfallamento, di accoppiamento e di rotazione genitale nei maschi sterilizzati, e di recettività nelle femmine, sono state realizzate nuove prove. In queste prove maschi adulti di Ae. albopictus irraggiati a 40Gy sono stati posizionati in campo, in ambiente naturale ombreggiato ed isolato, all’interno di serre (8x5x2,8 m) insieme a maschi adulti fertili e femmine vergini di Ae. albopictus con rapporto 1:1:1. Le prove preliminari 2006 erano condotte con le medesime condizioni sperimentali del 2007 ad eccezione dei tempi di inserimento delle femmine vergini passati da 1 giorno nel 2006, a 3 giorni nel 2007 dall’immissione dei maschi in tunnel. Sono state effettuate prove testando la competizione tra esemplari provenienti da ceppi di allevamento (cicli di allevamento in gabbia > 15), ceppi selvatici (da materiale raccolto in campo e con cicli di allevamento in gabbia < 5) e ceppi ibridi (ottenuti dall’incrocio di ceppi italiani di diversa provenienza geografica). I risultati ottenuti mostrano indici di competizioni medi accettabili senza evidenziare differenza fra i ceppi impiegati. L’allevamento massale quindi non deprime i ceppi allevati e gli ibridi realizzati non mostrano una vigoria superiore ne rispetto ai ceppi selvatici ne rispetto agli allevati in laboratorio.

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Numerosi parassitoidi localizzano i propri ospiti sfruttando le miscele di composti volatili rilasciate dalle piante infestate, che sono segnali più facilmente reperibili nell’ambiente rispetto agli odori emessi dai soli fitofagi. Anche Diglyphus isaea (Walker), un ectoparassitoide paleartico impiegato nella lotta biologica contro vari fillominatori, localizza l’ospite Liriomyza trifolii (Burgess) (Diptera Agromyzidae) sfruttando gli odori emessi dal complesso pianta (Phaseolus vulgaris L.) – minatore (L. trifolii). L’obbiettivo di questa ricerca è stato di mettere a punto una procedura che consentisse di estrarre in vivo, da piante di fagiolo infestate da larve di L. trifolii, i composti volatili responsabili dell’attrazione del parassitoide D. isaea e permettesse di individuare i composti biologicamente attivi presenti nella miscela. A tal fine sono state messe a confronto due metodologie, ovvero la tecnica statica dell’SPME e quella dinamica dell’Air Entrainment, impiegate in ecologia chimica per identificare e quantificare i composti organici volatili da numerose matrici biologiche. Le miscele estratte dai campioni sono state sia analizzate al gascromatografo/spettrometro di massa, che saggiate all’olfattometro a Y. Alla luce dei risultati ottenuti, si può affermare che la tecnica dell’Air Entrainment si è rivelata più adatta al raggiungimento degli obbiettivi di questo studio. Grazie a questa metodologia infatti è stato possibile verificare l’attività biologica delle miscele estratte nei confronti di D. isaea e identificare i composti volatili imputabili, con buona probabilità, unicamente all’attività trofica del fillominatore. Si tratta principalmente di terpenoidi volatili, sostanze spesso indicate come importanti segnali utilizzati da predatori e parassitoidi per localizzare le proprie prede o i propri ospiti. Questi composti sono stati diluiti in etere e saggiati a tre diverse concentrazioni (1 ng; 10 ng; 100 ng) contro l’etere (controllo). L’analisi statistica delle differenze registrate nelle scelte definitive compiute da D. isaea, nel corso delle prove condotte con i composti puri (indolo; α-copaene; β-cariofillene; α-cariofillene; α-farnesene), ha messo in luce come questo parassitoide risulti attratto solo dall’α-cariofillene, mentre l’α-farnesene sembra avere nei confronti dell’eulofide un effetto repellente.

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L’analisi condotta nella tesi mira ad indagare le determinanti del debito delle piccole e medie imprese italiane: la domanda di ricerca è indirizzata a capire se la struttura finanziaria di queste ultime segue i modelli teorici sviluppati nell’ambito della letteratura di Corporate Finance o se, d’altro canto, non sia possibile prescindere dalle peculiarità delle piccole e medie imprese per spiegare il ricorso alle diverse fonti di finanziamento. La ricerca empirica effettuata nella dissertazione vuole essere un tentativo di coniugare le teorie di riferimento e le evidenze empiriche relative alle piccole e medie imprese italiane, analizzandone il comportamento attraverso lo studio del campione di dati fornito da Capitalia, relativo alla Nona Indagine per il periodo 2001-2003. Il campione in oggetto fa riferimento a circa 4000 imprese con più di 10 addetti, prevalentemente del settore manifatturiero. Per indagare le determinanti del debito nelle sue componenti più tradizionali, si sono prese in considerazione il debito commerciale e il debito bancario a breve termine come forme di finanziamento correnti mentre, tra le forme di finanziamento di medio-lungo periodo, le variabili usate sono state il ricorso al debito bancario a lungo termine e a strumenti obbligazionari. Inoltre, si è ricorso anche a misure più tradizionali di leva finanziaria, quali il rapporto di indebitamento, la proporzione tra debiti bancari, sia di breve che di lungo periodo, e l’ammontare dei finanziamenti esterni rispetto al valore dell’impresa, distinguendo anche qui, tra finanziamenti a breve e a lungo termine. L’analisi descrittiva ha mostrato il massiccio ricorso al debito bancario e, in generale, alle forme di indebitamento a breve. Le imprese di dimensioni minori, più giovani e opache tendono a ricorrere alle fonti interne e a forme di indebitamento a breve, mentre le imprese maggiormente dimensionate mostrano una struttura del debito più articolata. Questo ha suggerito la definizione di una diversa misura di debito, che tiene conto della complessità della sua struttura all’interno delle imprese, in base ad un ricorso di tipo gerarchico alle fonti di finanziamento: il grado di complessità dipende dalle tipologie e dalla quantità dei contratti di debito conclusi dall’impresa . E’ plausibile pensare che le imprese ricorrano prima alle fonti interne di finanziamento, perché prive di costi, e poi all’indebitamento nei confronti di diversi stakeholders: rispetto alla prossimità e alla facilità dell’ottenimento del finanziamento, è sembrato naturale pensare che un’impresa ricorra dapprima al debito commerciale, poi al debito bancario e solo infine all’emissione di obbligazioni, in un ordine gerarchico. Ne consegue che se un’impresa (non) ha contratto debiti con fornitori, banche e mercato, la complessità della struttura del suo debito è massima (nulla). L’analisi econometrica successiva è stata indirizzata in tre direzioni. In primis, l’analisi longitudinale dei dati è stata volta ad evidenziare se la struttura finanziaria delle PMI risponde ad un particolare modello teorico, in accordo con le teoria tradizionali di riferimento. In secondo luogo, l’analisi delle determinanti si è allargata allo studio degli aspetti peculiari delle imprese medio-piccole. Infine, si è indagato se, nell’ambito delle imprese di dimensioni minori, si osservano comportamenti omogenei oppure se determinate scelte nelle fonti di finanziamento sono da ricondurre all’esistenza di alcuni vincoli. Quindi, partendo dalla rassegna dei principali riferimenti nella letteratura, costituiti dalla Trade-off theory (Modigliani e Miller, 1963, De Angelo e Masulis, 1980, Miller, 1977), dalla Pecking order theory (Myers 1984, Myers e Majluf, 1984) e dalla Financial growth cycle theory (Berger e Udell, 1998), una prima serie di analisi econometriche è stata rivolta alla verifica empirica delle teorie suddette. Una seconda analisi mira, invece, a capire se il comportamento delle imprese possa essere spiegato anche da altri fattori: il modello del ciclo di vita dell’impresa, mutuato dalle discipline manageriali, così come il contesto italiano e la particolarità del rapporto bancaimpresa, hanno suggerito l’analisi di altre determinanti al ricorso delle diverse fonti di debito. Di conseguenza, si sono usate delle opportune analisi econometriche per evidenziare se la struttura proprietaria e di controllo dell’impresa, il suo livello di complessità organizzativa possano incidere sulla struttura del debito delle imprese. Poi, si è indagato se il massiccio ricorso al debito bancario è spiegato dalle peculiarità del rapporto banca-impresa nel nostro Paese, rintracciabili nei fenomeni tipici del relationship lending e del multiaffidamento. Ancora, si sono verificati i possibili effetti di tale rapporto sulla complessità della struttura del debito delle imprese. Infine, l’analisi della letteratura recente sulla capital structure delle imprese, l’approccio sviluppato da Fazzari Hubbard e Petersen (1988) e Almeida e Campello (2006 , 2007) ha suggerito un ultimo livello di analisi. La presenza di vincoli nelle decisioni di finanziamento, legati essenzialmente alla profittabilità, alla dimensione delle imprese, alle sue opportunità di crescita, e alla reputazione verso l’esterno, secondo la letteratura recente, è cruciale nell’analisi delle differenze sistematiche di comportamento delle imprese. Per di più, all’interno del lavoro di tesi, così come in Almeida e Campello (2007), si è ipotizzato che la propensione agli investimenti possa essere considerata un fattore endogeno rispetto alla struttura del debito delle imprese, non esogeno come la letteratura tradizionale vuole. Per questo motivo, si è proceduto ad un ultimo tipo di analisi econometrica, volta a rilevare possibili differenze significative nel comportamento delle imprese rispetto al ricorso alle fonti di finanziamento a titolo di debito: nel caso in cui esse presentino una dimensione contenuta, una bassa redditività e una scarsa reputazione all’esterno infatti, vi dovrebbe essere un effetto di complementarietà tra fonti interne ed esterne. L’effetto sarebbe tale per cui non sussisterebbe, o per lo meno non sarebbe significativa, una relazione negativa tra fonti interne ed esterne. Complessivamente, i risultati delle analisi empiriche condotte, supportano sia le teorie classiche di riferimento nell’ambito della disciplina della Corporate finance, sia la teoria proposta da Berger e Udell (1998): le variabili che risultano significative nella spiegazione della struttura del debito sono principalmente quelle relative alla dimensione, all’età, al livello e alla qualità delle informazioni disponibili. Inoltre, il ricorso a fonti interne risulta essere la primaria fonte di finanziamento, seguita dal debito. Il ricorso a fonti esterne, in particolare al debito bancario, aumenta quanto più l’impresa cresce, ha una struttura solida e la capacità di fornire delle garanzie, e ha una reputazione forte. La struttura del debito, peraltro, diventa più complessa all’aumentare della dimensione, dell’età e del livello di informazioni disponibili. L’analisi della struttura proprietaria e della componente organizzativa all’interno delle imprese ha evidenziato principalmente che la struttura del debito aumenta di complessità con maggiore probabilità se la proprietà è diffusa, se vi è un management indipendente e se la piramide organizzativa è ben definita. Relativamente al rapporto banca-impresa, i principali risultati mostrano che l’indebitamento bancario sembra essere favorito dai fenomeni di relationship lending e dal multiaffidamento. Tali peculiarità assumono tratti diversi a seconda della fase del ciclo di vita delle imprese della Nona Indagine. Infine, per quanto attiene all’ultima tipologia di analisi condotta, le evidenze empiriche suggeriscono che le piccole e medie imprese possano essere soggette a delle restrizioni che si riflettono nell’ambito delle loro politiche di investimento. Tali vincoli, relativi alla dimensione, ai profitti conseguiti e alla reputazione all’esterno, aiutano a spiegare le scelte di finanziamento delle PMI del campione.

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Il lavoro persegue l’obiettivo generale di indagare sulle scelte di investimento dei fondi pensione italiani. Per giungere al suddetto obiettivo il lavoro si articola in quattro capitoli principali corredati da premessa e conclusioni. Il primo capitolo si preoccupa di analizzare in quale modo le scelte operate dal legislatore italiano abbiano influenzato e influenzino le politiche di investimento dei fondi pensione. E’ indubbio, infatti, che l’intervento del legislatore abbia un forte ascendente sull’operatività dei fondi e possa limitarne o, viceversa, agevolarne l’attività. Alla luce di queste considerazioni, il secondo capitolo mira ad analizzare nel concreto l’influenza delle scelte operate dal legislatore sullo sviluppo del mercato dei fondi pensione italiani. In sostanza, l’obiettivo è quello di fornire informazioni circa il mercato italiano dei fondi pensione sviluppatosi in conseguenza alla normativa testé presentata. Il successivo capitolo, il terzo, propone un’analisi della letteratura che, nel contesto nazionale ed internazionale, ha analizzato la tematica dei fondi pensione. Più nel dettaglio, si propone una disamina dei riferimenti letterari che, affrontando il problema della gestione finanziaria dei fondi pensione, trattano delle politiche e delle scelte di investimento operate da questi. Il quarto capitolo riguarda un’analisi empirica mirata ad analizzare le politiche di investimento dei fondi pensione, in particolare quelle relative agli investimenti alternativi e soprattutto, tra questi, quelli immobiliari. L’obiettivo generale perseguito è quello di analizzare la composizione del patrimonio dei fondi appartenenti al campione considerato e ricavarne indicazioni circa le scelte manageriali operate dai fondi, nonché trarre indicazioni circa lo spazio riservato e/o riservabile alle asset class alternative, soprattutto a quelle di tipo immobiliare. Si evidenzia, infatti, che la verifica presentata riguarda prevalentemente gli investimenti immobiliari che rappresentano nella realtà italiana l’alternative class maggiormente diffusa. L’analisi si concentra, anche se in modo inferiore e con un approccio quasi esclusivamente qualitativo, su altre asset class alternative (hedge fund e private equity). Si precisa, inoltre, che la volontà di focalizzare la verifica sugli alternative investment limita l’analisi ai soli fondi pensione preesistenti che, ad oggi, rappresentano l’unica categoria alla quale è consentito effettuare investimenti di tipo alternativo. A differenza dei fondi di nuova generazione, tali fondi, infatti, non sono sottoposti a limitazioni nell’attività di investimento e, almeno in linea teorica, essi possono optare senza alcuna restrizione per l’asset allocation ritenuta più appropriata Tre sono le domande di ricerca a cui l’analisi proposta mira a dare risposta: Quale è la dimensione e la composizione del portafoglio dei fondi pensione preesistenti? Quale è la dimensione e la tipologia di investimento immobiliare all’interno del portafoglio dei fondi pensione preesistenti? Esiste uno “spazio” ulteriore per gli investimenti immobiliari e/o per altri alternative investment nel portafoglio dei fondi pensione preesistenti? L’analisi è condotta su un campione di dieci fondi preesistenti, che rappresenta il 60% dell’universo di riferimento (dei 29 fondi pensione preesistenti che investono in immobiliare) e la metodologia utilizzata è quella della case study. Le dieci case study, una per ogni fondo preesistente analizzato, sono condotte e presentate secondo uno schema quanto più standard e si basano su varie tipologie di informazioni reperite da tre differenti fonti. 2 La prima fonte informativa utilizzata è rappresentata dai bilanci o rendiconti annuali dei fondi analizzati. A questi si aggiungono i risultati di un’intervista svolta nei mesi di gennaio e febbraio 2008, ai direttori generali o ai direttori dell’area investimento dei fondi. Le interviste aggiungono informazioni prevalentemente di tipo qualitativo, in grado di descrivere le scelte manageriali operate dai fondi in tema di politica di investimento. Infine, laddove presente, sono state reperite informazioni anche dai siti internet che in taluni casi i fondi possiedono. Dalle case study condotte è possibile estrapolare una serie di risultati, che consentono di dare risposta alle tre domande di ricerca poste in precedenza. Relativamente alla prima domanda, è stato possibile stabilire che il portafoglio dei fondi pensione preesistenti analizzati cresce nel tempo. Esso si compone per almeno un terzo di titoli di debito, prevalentemente titoli di stato, e per un altro terzo di investimenti immobiliari di vario tipo. Il restante terzo è composto da altre asset class, prevalentemente investimenti in quote di OICR. Per quanto riguarda la politica d’investimento, si rileva che mediamente essa è caratterizzata da un’alta avversione al rischio e pochissimi sono i casi in cui i fondi prevedono linee di investimento aggressive. Relativamente alla seconda domanda, si osserva che la dimensione dell’asset class immobiliare all’interno del portafoglio raggiunge una quota decrescente nell’arco di tempo considerato, seppur rilevante. Al suo interno prevalgono nettamente gli investimenti diretti in immobili. Seguono le partecipazioni in società immobiliari. L’analisi ha permesso, poi, di approfondire il tema degli investimenti immobiliari consentendo di trarre indicazioni circa le loro caratteristiche. Infine, relativamente all’ultima domanda di ricerca, i dati ottenuti, soprattutto per mezzo delle interviste, permettono di stabilire che, almeno con riferimento al campione analizzato, l’investimento immobiliare perde quota e in parte interesse. Questo risulta vero soprattutto relativamente agli investimenti immobiliari di tipo diretto. I fondi con patrimoni immobiliari rilevanti, infatti, sono per la totalità nel mezzo di processi di dismissione degli asset, mirati, non tanto all’eliminazione dell’asset class, ma piuttosto ad una riduzione della stessa, conformemente anche a quanto richiesto dalle recenti normative. Le interviste hanno messo in luce, tuttavia, che a fronte di un’esigenza generale di contentere la quota investita, l’asset immobiliare è considerato positivamente soprattutto in termini di opportunità di diversificazione di portafoglio e buoni rendimenti nel lungo periodo. I fondi appaiono interessati in modo particolare a diversificare il portafoglio immobiliare, dismettendo parte degli asset detenuti direttamente e aumentando al contrario le altre tipologie di investimento immobiliare, soprattutto quote di OICR immobiliari. Altrettanto positivi i giudizi relativi alle altre asset class alternative. Pur restando ancora limitato il totale delle risorse destinate, tali investimenti sono percepiti come una buona opportunità di diversificazione del portafoglio. In generale, si è rilevato che, anche laddove l’investimento non è presente o è molto ridotto, nel breve periodo è intenzione del management aumentare la quota impiegata.

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In Italia, il contesto legislativo e l’ambiente competitivo dei Confidi è profondamente mutato negli ultimi anni a seguito dell’emanazione di due nuove normative: la “Legge Quadro” sui Confidi e la nuova regolamentazione del capitale di vigilanza nelle banche (c.d. "Basilea 2"). la Legge Quadro impone ai Confidi di adottare uno dei seguenti status societari: i) ente iscritto all’albo di cui all’art. 106 del Testo Unico Bancario (TUB); ii) ente iscritto all’albo di cui all’art. 107 del Testo Unico Bancario; iii) banca cooperativa di garanzia collettiva dei fidi. Fermi restando i requisiti soggettivi sui garanti ammessi da Basilea 2, la modalità tecnica finora utilizzata dai Confidi non risponde ai requisiti oggettivi. Il pensiero strategico si enuclea nelle seguenti domande: A) qual è la missione del Confidi (perché esistono i Confidi)? B) Quali prodotti e servizi dovrebbero offrire per raggiungere la loro missione? C) Quale modello organizzativo e di governance si conforma meglio per l'offerta dei prodotti e servizi individuati come necessari per il raggiungimento della missione? Le riflessioni condotte nell’ambito di un quadro di riferimento delineato dal ruolo delle garanzie nel mercato del credito bancario, dalle “Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche”, dalla “Legge Quadro” sui e, infine, dall’assetto istituzionale ed operativo dei Confidi si riassumono nelle seguenti deduzioni: Proposizione I: segmentare la domanda prima di adeguare l’offerta; Proposizione II: le operazioni tranched cover sono un'alternativa relativamente efficiente per l'operatività dei Confidi, anche per quelli non vigilati; Proposizione III: solo i Confidi‐banca hanno la necessità di dotarsi di un rating esterno; Proposizione IV: le banche sono nuovi Clienti dei Confidi: offrire servizi di outsourcing (remunerati), ma non impieghi di capitale; Proposizione V: le aggregazioni inter settoriali nel medesimo territorio sono da preferirsi alle aggregazioni inter territoriali fra Confidi del medesimo settore. Alle future ricerche è affidato il compito di verificare: quali opzioni strategiche nel concreato siano state applicate; quali siano state le determinati di tali scelte; il grado di soddisfacimento dei bisogni degli stakeholder dei Confidi; misurare i benefici conseguiti nell'efficienza allocativa del credito.

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Lo studio “Lotta biologica a Fusarium solani f.sp. cucurbitae su zucchino” si colloca nell’ambito della difesa integrata delle colture orticole dalle fitopatie fungine, in particolare quelle causate da patogeni ad habitat terricolo nei confronti dei quali è sempre più frequente il ricorso a mezzi di lotta diversi dai prodotti chimici. Interessante e innovativa appare la prospettiva di utilizzare microrganismi adatti a svilupparsi nel suolo, competenti per la rizosfera delle piante e con spiccate caratteristiche d’antagonismo verso i patogeni tellurici e di stimolazione delle difese sistemiche della pianta. Il marciume del colletto delle cucurbitacee, causato da diversi patogeni tra cui Fusarium solani f.sp. cucurbitae, rappresenta la principale malattia fungina di tipo tellurica che colpisce lo zucchino ed il melone nella Pianura Padana e che può portare a consistenti perdite produttive. Indagini condotte dal 2004 da parte del Diproval nell’areale bolognese, hanno evidenziato un’elevata frequenza del patogeno su zucchino coltivato soprattutto in tunnel. Considerata la carenza di conoscenze locali di F. solani f.sp. cucurbitae e di mezzi chimici di lotta efficaci, la ricerca svolta ha inteso approfondire la diagnosi della malattia e le caratteristiche biologiche degli isolati locali, e valutare la possibilità di utilizzare metodi biologici di lotta contro questo patogeno, nonché di studiare alcune delle possibili modalità d’azione di microrganismi antagonisti. Sono state pertanto prelevate, da zone diverse del Bolognese, campioni di piante di zucchino che presentavano sintomi di marciume del colletto ed è stato isolato il patogeno, che in base alle caratteristiche morfologiche macro e microscopiche, alle prove di patogenicità su diversi ospiti e a saggi biomolecolari, è stato identificato come Fusarium solani f. sp. cucurbitae W.C. Snyder & H.N. Hansen razza 1. Dagli isolati di campo sono state realizzate un centinaio di colture monosporiche venti delle quali sono state utilizzate per la prosecuzione delle prove. I venti ceppi sono stati saggiati per la loro patogenicità inoculandoli in terriccio sterile e con trapianto di giovani piante di zucchino. E’ risultata un’elevata variabilità del livello di virulenza tra i ceppi, stimata da 39% a 83% riguardo la gravità della malattia e da 61 a 96% per la frequenza di malattia. Sono state condotte prove di accrescimento miceliare che hanno evidenziato differenze tra i ceppi e tra gli esperimenti condotti a tre diverse temperature (17, 23 e 28°C) alla luce ed al buio. La crescita maggiore complessivamente è stata ottenuta a 23°C. I venti ceppi hanno anche mostrato di produrre, in vitro, vari livelli di enzimi di patogenesi quali cellulasi, poligalatturonasi, pectin liasi e proteasi. E’ stata evidenziata unan correlazione significativa tra attività cellulasica e pectin liasica con frequenza e gravità della malattia dei venti ceppi del patogeno. Le prove relative al contenimento della malattia sono state condotte in cella climatica. Sono stati considerati prodotti commerciali (Remedier, Rootshield, Cedomon, Mycostop, Proradix, Clonotry) a base rispettivamente dei seguenti microrganismi: Trichoderma harzianum ICC012 + T. viride ICC080, T. harzianum T22, Pseudomonas chlororaphis MA342, Streptomyces griseoviridis K61, P. fluorescens proradix DSM13134 e T. harzianum + Clonostachys rosea). I prodotti sono stati somministrati sul seme, al terreno e su seme+terreno (esperimenti 1 e 2) e in vivaio, al trapianto e vivaio+trapianto (esperimenti 3 e 4), riproducendo situazioni di pratico impiego. L’inoculazione del patogeno (un ceppo ad elevata patogenicità, Fs7 ed uno a bassa patogenicità, Fs37) è stata effettuata nel terreno distribuendo uno sfarinato secco di semi di miglio e cereali colonizzati dal patogeno. La malattia è stata valutata come intensità e gravità. I prodotti sono stati impiegati in situazioni di particolare stress, avendo favorito particolarmente la crescita del patogeno. Complessivamente i risultati hanno evidenziato effetti di contenimento maggiore della malattia nel caso del ceppo Fs37, meno virulento. La malattia è stata ridotta quasi sempre da tutti i formulati e quello che l’ha ridotta maggiormente è stato Cedomon. Il contenimento della malattia somministrando i prodotti solo nel terreno di semina o di trapianto è stato in generale quello più basso. Il contenimento più elevato è stato ottenuto con la combinazione di due tipologie di trattamento, seme+terreno e vivaio+trapianto. Le differenze tra i prodotti sono risultate più evidenti nel caso del ceppo Fs7. Per quanto riguarda lo studio di alcune delle modalità d’azione dei microrganismi contenuti nei formulati più efficaci, è stato verificato che tutti sono stati in grado di inibire, se pur in vario modo, la crescita del patogeno in vitro. Gli antagonisti più efficaci sono stati S. griseoviridis K61 (Mycostop) e P. fluorescens proradix DSM13134). I ceppi di Trichoderma, ed in particolare T.harzianum T22 (Rootshield), sono risultati i più attivi colonizzatori del substrato. Riguardo il fenomeno dell’antibiosi, il batterio P. fluorescens proradix DSM13134 ha mostrato di produrre i metaboliti non volatili più efficaci nel ridurre lo sviluppo del patogeno. Nelle condizioni sperimentali adottate anche i due ceppi di T. viride ICC080 e T. harzianum ICC012 hanno dimostrato di produrre metaboliti efficaci. Tali risultati, anche se relativi a prove in vitro, possono contribuire alla comprensione dei meccanismi dei microrganismi sul contenimento dell’infezione relativamente al rapporto diretto sul patogeno. E’ stato inoltre verificato che tutti i microrganismi saggiati sono dotati di competenza rizosferica e solo i batteri di endofitismo. Si conclude che, nonostante l’elevata pressione infettiva del patogeno che ha certamente influito negativamente sull’efficacia dei microrganismi studiati, i microrganismi antagonisti possono avere un ruolo nel ridurre l’infezione di F. solani f.sp. cucurbitae razza 1.

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Electromagnetic spectrum can be identified as a resource for the designer, as well as for the manufacturer, from two complementary points of view: first, because it is a good in great demand by many different kind of applications; second, because despite its scarce availability, it may be advantageous to use more spectrum than necessary. This is the case of Spread-Spectrum Systems, those systems in which the transmitted signal is spread over a wide frequency band, much wider, in fact, than the minimum bandwidth required to transmit the information being sent. Part I of this dissertation deals with Spread-Spectrum Clock Generators (SSCG) aiming at reducing Electro Magnetic Interference (EMI) of clock signals in integrated circuits (IC) design. In particular, the modulation of the clock and the consequent spreading of its spectrum are obtained through a random modulating signal outputted by a chaotic map, i.e. a discrete-time dynamical system showing chaotic behavior. The advantages offered by this kind of modulation are highlighted. Three different prototypes of chaos-based SSCG are presented in all their aspects: design, simulation, and post-fabrication measurements. The third one, operating at a frequency equal to 3GHz, aims at being applied to Serial ATA, standard de facto for fast data transmission to and from Hard Disk Drives. The most extreme example of spread-spectrum signalling is the emerging ultra-wideband (UWB) technology, which proposes the use of large sections of the radio spectrum at low amplitudes to transmit high-bandwidth digital data. In part II of the dissertation, two UWB applications are presented, both dealing with the advantages as well as with the challenges of a wide-band system, namely: a chaos-based sequence generation method for reducing Multiple Access Interference (MAI) in Direct Sequence UWB Wireless-Sensor-Networks (WSNs), and design and simulations of a Low-Noise Amplifier (LNA) for impulse radio UWB. This latter topic was studied during a study-abroad period in collaboration with Delft University of Technology, Delft, Netherlands.