22 resultados para Bibliografia

em AMS Tesi di Dottorato - Alm@DL - Università di Bologna


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Se il lavoro dello storico è capire il passato come è stato compreso dalla gente che lo ha vissuto, allora forse non è azzardato pensare che sia anche necessario comunicare i risultati delle ricerche con strumenti propri che appartengono a un'epoca e che influenzano la mentalità di chi in quell'epoca vive. Emergenti tecnologie, specialmente nell’area della multimedialità come la realtà virtuale, permettono agli storici di comunicare l’esperienza del passato in più sensi. In che modo la storia collabora con le tecnologie informatiche soffermandosi sulla possibilità di fare ricostruzioni storiche virtuali, con relativi esempi e recensioni? Quello che maggiormente preoccupa gli storici è se una ricostruzione di un fatto passato vissuto attraverso la sua ricreazione in pixels sia un metodo di conoscenza della storia che possa essere considerato valido. Ovvero l'emozione che la navigazione in una realtà 3D può suscitare, è un mezzo in grado di trasmettere conoscenza? O forse l'idea che abbiamo del passato e del suo studio viene sottilmente cambiato nel momento in cui lo si divulga attraverso la grafica 3D? Da tempo però la disciplina ha cominciato a fare i conti con questa situazione, costretta soprattutto dall'invasività di questo tipo di media, dalla spettacolarizzazione del passato e da una divulgazione del passato parziale e antiscientifica. In un mondo post letterario bisogna cominciare a pensare che la cultura visuale nella quale siamo immersi sta cambiando il nostro rapporto con il passato: non per questo le conoscenze maturate fino ad oggi sono false, ma è necessario riconoscere che esiste più di una verità storica, a volte scritta a volte visuale. Il computer è diventato una piattaforma onnipresente per la rappresentazione e diffusione dell’informazione. I metodi di interazione e rappresentazione stanno evolvendo di continuo. Ed è su questi due binari che è si muove l’offerta delle tecnologie informatiche al servizio della storia. Lo scopo di questa tesi è proprio quello di esplorare, attraverso l’utilizzo e la sperimentazione di diversi strumenti e tecnologie informatiche, come si può raccontare efficacemente il passato attraverso oggetti tridimensionali e gli ambienti virtuali, e come, nel loro essere elementi caratterizzanti di comunicazione, in che modo possono collaborare, in questo caso particolare, con la disciplina storica. La presente ricerca ricostruisce alcune linee di storia delle principali fabbriche attive a Torino durante la seconda guerra mondiale, ricordando stretta relazione che esiste tra strutture ed individui e in questa città in particolare tra fabbrica e movimento operaio, è inevitabile addentrarsi nelle vicende del movimento operaio torinese che nel periodo della lotta di Liberazione in città fu un soggetto politico e sociale di primo rilievo. Nella città, intesa come entità biologica coinvolta nella guerra, la fabbrica (o le fabbriche) diventa il nucleo concettuale attraverso il quale leggere la città: sono le fabbriche gli obiettivi principali dei bombardamenti ed è nelle fabbriche che si combatte una guerra di liberazione tra classe operaia e autorità, di fabbrica e cittadine. La fabbrica diventa il luogo di "usurpazione del potere" di cui parla Weber, il palcoscenico in cui si tengono i diversi episodi della guerra: scioperi, deportazioni, occupazioni .... Il modello della città qui rappresentata non è una semplice visualizzazione ma un sistema informativo dove la realtà modellata è rappresentata da oggetti, che fanno da teatro allo svolgimento di avvenimenti con una precisa collocazione cronologica, al cui interno è possibile effettuare operazioni di selezione di render statici (immagini), di filmati precalcolati (animazioni) e di scenari navigabili interattivamente oltre ad attività di ricerca di fonti bibliografiche e commenti di studiosi segnatamente legati all'evento in oggetto. Obiettivo di questo lavoro è far interagire, attraverso diversi progetti, le discipline storiche e l’informatica, nelle diverse opportunità tecnologiche che questa presenta. Le possibilità di ricostruzione offerte dal 3D vengono così messe a servizio della ricerca, offrendo una visione integrale in grado di avvicinarci alla realtà dell’epoca presa in considerazione e convogliando in un’unica piattaforma espositiva tutti i risultati. Divulgazione Progetto Mappa Informativa Multimediale Torino 1945 Sul piano pratico il progetto prevede una interfaccia navigabile (tecnologia Flash) che rappresenti la pianta della città dell’epoca, attraverso la quale sia possibile avere una visione dei luoghi e dei tempi in cui la Liberazione prese forma, sia a livello concettuale, sia a livello pratico. Questo intreccio di coordinate nello spazio e nel tempo non solo migliora la comprensione dei fenomeni, ma crea un maggiore interesse sull’argomento attraverso l’utilizzo di strumenti divulgativi di grande efficacia (e appeal) senza perdere di vista la necessità di valicare le tesi storiche proponendosi come piattaforma didattica. Un tale contesto richiede uno studio approfondito degli eventi storici al fine di ricostruire con chiarezza una mappa della città che sia precisa sia topograficamente sia a livello di navigazione multimediale. La preparazione della cartina deve seguire gli standard del momento, perciò le soluzioni informatiche utilizzate sono quelle fornite da Adobe Illustrator per la realizzazione della topografia, e da Macromedia Flash per la creazione di un’interfaccia di navigazione. La base dei dati descrittivi è ovviamente consultabile essendo contenuta nel supporto media e totalmente annotata nella bibliografia. È il continuo evolvere delle tecnologie d'informazione e la massiccia diffusione dell’uso dei computer che ci porta a un cambiamento sostanziale nello studio e nell’apprendimento storico; le strutture accademiche e gli operatori economici hanno fatto propria la richiesta che giunge dall'utenza (insegnanti, studenti, operatori dei Beni Culturali) di una maggiore diffusione della conoscenza storica attraverso la sua rappresentazione informatizzata. Sul fronte didattico la ricostruzione di una realtà storica attraverso strumenti informatici consente anche ai non-storici di toccare con mano quelle che sono le problematiche della ricerca quali fonti mancanti, buchi della cronologia e valutazione della veridicità dei fatti attraverso prove. Le tecnologie informatiche permettono una visione completa, unitaria ed esauriente del passato, convogliando tutte le informazioni su un'unica piattaforma, permettendo anche a chi non è specializzato di comprendere immediatamente di cosa si parla. Il miglior libro di storia, per sua natura, non può farlo in quanto divide e organizza le notizie in modo diverso. In questo modo agli studenti viene data l'opportunità di apprendere tramite una rappresentazione diversa rispetto a quelle a cui sono abituati. La premessa centrale del progetto è che i risultati nell'apprendimento degli studenti possono essere migliorati se un concetto o un contenuto viene comunicato attraverso più canali di espressione, nel nostro caso attraverso un testo, immagini e un oggetto multimediale. Didattica La Conceria Fiorio è uno dei luoghi-simbolo della Resistenza torinese. Il progetto è una ricostruzione in realtà virtuale della Conceria Fiorio di Torino. La ricostruzione serve a arricchire la cultura storica sia a chi la produce, attraverso una ricerca accurata delle fonti, sia a chi può poi usufruirne, soprattutto i giovani, che, attratti dall’aspetto ludico della ricostruzione, apprendono con più facilità. La costruzione di un manufatto in 3D fornisce agli studenti le basi per riconoscere ed esprimere la giusta relazione fra il modello e l’oggetto storico. Le fasi di lavoro attraverso cui si è giunti alla ricostruzione in 3D della Conceria: . una ricerca storica approfondita, basata sulle fonti, che possono essere documenti degli archivi o scavi archeologici, fonti iconografiche, cartografiche, ecc.; . La modellazione degli edifici sulla base delle ricerche storiche, per fornire la struttura geometrica poligonale che permetta la navigazione tridimensionale; . La realizzazione, attraverso gli strumenti della computer graphic della navigazione in 3D. Unreal Technology è il nome dato al motore grafico utilizzato in numerosi videogiochi commerciali. Una delle caratteristiche fondamentali di tale prodotto è quella di avere uno strumento chiamato Unreal editor con cui è possibile costruire mondi virtuali, e che è quello utilizzato per questo progetto. UnrealEd (Ued) è il software per creare livelli per Unreal e i giochi basati sul motore di Unreal. E’ stata utilizzata la versione gratuita dell’editor. Il risultato finale del progetto è un ambiente virtuale navigabile raffigurante una ricostruzione accurata della Conceria Fiorio ai tempi della Resistenza. L’utente può visitare l’edificio e visualizzare informazioni specifiche su alcuni punti di interesse. La navigazione viene effettuata in prima persona, un processo di “spettacolarizzazione” degli ambienti visitati attraverso un arredamento consono permette all'utente una maggiore immersività rendendo l’ambiente più credibile e immediatamente codificabile. L’architettura Unreal Technology ha permesso di ottenere un buon risultato in un tempo brevissimo, senza che fossero necessari interventi di programmazione. Questo motore è, quindi, particolarmente adatto alla realizzazione rapida di prototipi di una discreta qualità, La presenza di un certo numero di bug lo rende, però, in parte inaffidabile. Utilizzare un editor da videogame per questa ricostruzione auspica la possibilità di un suo impiego nella didattica, quello che le simulazioni in 3D permettono nel caso specifico è di permettere agli studenti di sperimentare il lavoro della ricostruzione storica, con tutti i problemi che lo storico deve affrontare nel ricreare il passato. Questo lavoro vuole essere per gli storici una esperienza nella direzione della creazione di un repertorio espressivo più ampio, che includa gli ambienti tridimensionali. Il rischio di impiegare del tempo per imparare come funziona questa tecnologia per generare spazi virtuali rende scettici quanti si impegnano nell'insegnamento, ma le esperienze di progetti sviluppati, soprattutto all’estero, servono a capire che sono un buon investimento. Il fatto che una software house, che crea un videogame di grande successo di pubblico, includa nel suo prodotto, una serie di strumenti che consentano all'utente la creazione di mondi propri in cui giocare, è sintomatico che l'alfabetizzazione informatica degli utenti medi sta crescendo sempre più rapidamente e che l'utilizzo di un editor come Unreal Engine sarà in futuro una attività alla portata di un pubblico sempre più vasto. Questo ci mette nelle condizioni di progettare moduli di insegnamento più immersivi, in cui l'esperienza della ricerca e della ricostruzione del passato si intreccino con lo studio più tradizionale degli avvenimenti di una certa epoca. I mondi virtuali interattivi vengono spesso definiti come la forma culturale chiave del XXI secolo, come il cinema lo è stato per il XX. Lo scopo di questo lavoro è stato quello di suggerire che vi sono grosse opportunità per gli storici impiegando gli oggetti e le ambientazioni in 3D, e che essi devono coglierle. Si consideri il fatto che l’estetica abbia un effetto sull’epistemologia. O almeno sulla forma che i risultati delle ricerche storiche assumono nel momento in cui devono essere diffuse. Un’analisi storica fatta in maniera superficiale o con presupposti errati può comunque essere diffusa e avere credito in numerosi ambienti se diffusa con mezzi accattivanti e moderni. Ecco perchè non conviene seppellire un buon lavoro in qualche biblioteca, in attesa che qualcuno lo scopra. Ecco perchè gli storici non devono ignorare il 3D. La nostra capacità, come studiosi e studenti, di percepire idee ed orientamenti importanti dipende spesso dai metodi che impieghiamo per rappresentare i dati e l’evidenza. Perché gli storici possano ottenere il beneficio che il 3D porta con sè, tuttavia, devono sviluppare un’agenda di ricerca volta ad accertarsi che il 3D sostenga i loro obiettivi di ricercatori e insegnanti. Una ricostruzione storica può essere molto utile dal punto di vista educativo non sono da chi la visita ma, anche da chi la realizza. La fase di ricerca necessaria per la ricostruzione non può fare altro che aumentare il background culturale dello sviluppatore. Conclusioni La cosa più importante è stata la possibilità di fare esperienze nell’uso di mezzi di comunicazione di questo genere per raccontare e far conoscere il passato. Rovesciando il paradigma conoscitivo che avevo appreso negli studi umanistici, ho cercato di desumere quelle che potremo chiamare “leggi universali” dai dati oggettivi emersi da questi esperimenti. Da punto di vista epistemologico l’informatica, con la sua capacità di gestire masse impressionanti di dati, dà agli studiosi la possibilità di formulare delle ipotesi e poi accertarle o smentirle tramite ricostruzioni e simulazioni. Il mio lavoro è andato in questa direzione, cercando conoscere e usare strumenti attuali che nel futuro avranno sempre maggiore presenza nella comunicazione (anche scientifica) e che sono i mezzi di comunicazione d’eccellenza per determinate fasce d’età (adolescenti). Volendo spingere all’estremo i termini possiamo dire che la sfida che oggi la cultura visuale pone ai metodi tradizionali del fare storia è la stessa che Erodoto e Tucidide contrapposero ai narratori di miti e leggende. Prima di Erodoto esisteva il mito, che era un mezzo perfettamente adeguato per raccontare e dare significato al passato di una tribù o di una città. In un mondo post letterario la nostra conoscenza del passato sta sottilmente mutando nel momento in cui lo vediamo rappresentato da pixel o quando le informazioni scaturiscono non da sole, ma grazie all’interattività con il mezzo. La nostra capacità come studiosi e studenti di percepire idee ed orientamenti importanti dipende spesso dai metodi che impieghiamo per rappresentare i dati e l’evidenza. Perché gli storici possano ottenere il beneficio sottinteso al 3D, tuttavia, devono sviluppare un’agenda di ricerca volta ad accertarsi che il 3D sostenga i loro obiettivi di ricercatori e insegnanti. Le esperienze raccolte nelle pagine precedenti ci portano a pensare che in un futuro non troppo lontano uno strumento come il computer sarà l’unico mezzo attraverso cui trasmettere conoscenze, e dal punto di vista didattico la sua interattività consente coinvolgimento negli studenti come nessun altro mezzo di comunicazione moderno.

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INTRODUZIONE. Presentazione della ricerca e del metedo seguito per realizzarla. CAPITOLO PRIMO. Il contesto storico, politico e sociale di riferimento. - Storia della Siria, - La Siria politica e il conflitto israelo-palestinese - La società siriana: multiculturalismo, tradizione, islam. - Teatro e letteratura in Siria, e nel Bilad AlSham. CAPITOLO SECONDO. I testi. Traduzione integrale di due opere teatrali di Sa’d Allah Wannus. Breve presentazione. - “ Riti di segni e trasformazioni.”, (tukus al-isharat wa-l-tahawwulat), 1994. Il dramma si svolge nella Damasco del XIX secolo, dove un affare di morale e buon costume è il punto di partenza per la metamorfosi dei suoi protagonisti, mettendo a nudo le riflessioni, i desideri più intimi, le contraddizioni e le angosce di una società in crisi. Interessante l’analisi delle figure femminili di questa piece, le loro scelte, il loro ruolo nella società e soprattutto la presa di coscienza delle loro posizioni. - “ I giorni ubriachi.” , (Alayyam Almakhmura), 1997. Il ritratto di una famiglia siriana degli anni trenta. Due genitori, quattro figli, e un nipote che a distanza di anni decide di ripercorrere e raccontarci le loro storie.Una madre che vive tormentata dal suo spettro e che decide di abbandonare la propria famiglia e i propri figli per seguire un altro uomo. Un padre che tiene con violenza le redini delle proprie relazioni, e che rifiuta l’occidente in tutte le sue forme per restare aggrappato alle proprie tradizioni. Un figlio che sceglie l’ordine e la carriera militare, e che, incapace di risolvere il suo rapporto di dipendenza dalla madre, e di risolvere il conflitto tra la legge e un affetto quasi morboso, sceglie di suicidarsi. Un figlio che sceglie la via della perdizione, delle droghe, del furto e degli affari illegali, e che va incontro al successo e alla ricchezza... CAPITOLO TERZO. Biografia di Sa’d Allah Wannus, presentazione delle sue opere principali. Sa’d Allah Wannus (1941 – 1997) è sicuramente uno dei principali protagonisti nell’ambito del teatro arabo contemporaneo. Scrittore, critico, drammaturgo, riformatore, uomo impegnato politicamente, e infine essere umano nella lotta tra la vita e la morte (muore a 56 anni per tumore, dopo un lungo periodo di degenza). Mio intento è quello di analizzare l’opera di quest’autore, attraverso i suoi numerosi scritti e piece teatrali (purtroppo al giorno d’oggi ancora quasi interamente non tradotte dall’arabo), fino ad arrivare, attraverso queste, ad una lettura della società araba contemporanea, e al ruolo che il teatro assume al suo interno. Vita e opere di Sa’ad Allah Wannus. Nasce in Siria nel 1941 in un piccolo villaggio vicino alla città di Tartous, sulla costa mediterranea. Dopo aver terminato gli studi superiori, nel 1959, parte per Il Cairo (Egitto), per studiare giornalismo e letteratura. Rientra a Damasco nel 1964, lavorando al tempo stesso come funzionario al ministero della cultura e come redattore o giornalista in alcune riviste e quotidiani siriani. Nel 1966 parte per Parigi, dove studierà con Jean-Louis Barrault, e dove farà la conoscenza delle tendenze del teatro contemporaneo. Ha l’occasione di incontrare scrittori e critici importanti come Jean Genet e Bernard Dort, nonché di conoscere le teorie sul teatro di Brech e di Piscator, dai quali sarà chiaramente influenzato. In questi anni, e soprattutto in seguito agli avvenimenti del Maggio 1968, si sviluppa in modo determinante la sua coscienza politica, e sono questi gli anni in cui compone alcune tra le sue piece più importanti, come: Serata di gala per il 5 giugno (haflat samar min ajl khamsa huzayran) nel 1968, L’elefante, oh re del tempo! (al-fil, ya malik al-zaman!) 1969, Le avventure della testa del Mamelucco Jaber (Meghamarat ra’s al-mamluk Jabiir) 1970, Una serata con Abu-Khalil al- Qabbani (Sahra ma’a Abi Khalil Al-Qabbani) 1972, Il re è il re (al-malik uwa al-malik) 1977. Parallelamente porta avanti una intensa attività artistica e intellettuale. Soggiorna di nuovo in Francia e a Weimar, per portare a termine la sua formazione teatrale, fonda il Festival di teatro di Damasco, traduce e mette in scena numerosi spettacoli, scrive e pubblica numerosi articoli e una importante serie di studi sul teatro, intitolata: Manifesto per un nuovo teatro arabo (bayanat limasrah ‘arabi jadid) (1970). Scrive in numerose riviste e giornali e fonda la rivista La vita teatrale (al-hayyat al-masrahiyya), del quale sarà capo redattore. La visita del presidente egiziano Anouar Sadat a Gerusalemme nel 1977 e gli accordi di Camp David l’anno seguente, lo gettano in una profonda depressione. E’ l’inizio di un lungo periodo di silenzio e di smarrimento. Ritornerà a scrivere solamente nel 1989, con l’inizio della prima Intifada palestinese, scrive allora una piece teatrale intitolata Lo stupro (al-ightisab), dove presenta un’analisi della struttura dell’elite al potere in Israele. Questo testo apre una nuova epoca creativa, durante la quale Wannus compone alcuni testi molto importanti, nonostante la malattia e il cancro che gli viene diagnosticato nel 1992. Tra questi le pieces Miniature storiche (munamnamat tarakhiyya), nel 1993, e Rituali per una metamorfosi (tukus al-isharat wa-l-tahawwulat), nel 1994 e A proposito della memoria e della morte (‘an al-dhakira wa-l-mawt) nel 1996, una sua ultima opera in cui sono raccolti dei racconti, drammi brevi e una lunga meditazione sulla malattia e la morte. Nel 1997 l’UNESCO gli chiede di redigere il messaggio per la Giornata Mondiale del Teatro, che si tiene ogni anno il 27 marzo. Nel 1997, poche settimane prima della sua scomparsa, realizza insieme ad Omar Almiralay il film documentario Il y a tant de choses a reconter, una intervista in cui Wannus parla della sua opera, e del conflitto Israelo-Palestinese. Muore a 56 anni, il 15 maggio 1997, per un’amara coincidenza proprio il giorno anniversario della creazione di Israele. Wannus drammaturgo engagè: l’importanza del conflitto israelo palestinese nella sua opera. Un’analisi dell’influenza e dell’importanza che le opere di Wannus hanno avuto nel seno della società araba, e soprattutto il suo impegno costante nell’uso del teatro come mezzo per la presa di coscienza del pubblico dei problemi della società contemporanea. Punto cardine dell’opera di Wannus, il conflitto israelo palestinese, e il tentativo costante in alcune sue opere di analizzarne le cause, le strutture, le parti, i giochi di potere. E’ il simbolo di tutta la generazione di Wannus, e delle successive. Analisi delle illusioni e dei miti che la società araba ripropone e che Wannus ha cercato più volte di mettere a nudo. La lotta contro le ipocrisie dei governi, e il tentativo di far prendere coscienza alla società araba del suo ruolo, e delle conseguenze delle sue azioni. L’individuo, la famiglia, la società ... il teatro. Distruggere le apparenze per mettere a nudo l’essere umano nella sua fragilità. CONCLUSIONI. APPENDICE: Intervista con Marie Elias BIBLIOGRAFIA.

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Questa tesi di dottorato di ricerca ha come oggetto la nozione di fatto urbano elaborata e presentata da Aldo Rossi nel libro L’architettura della città edito nel 1966. Ne L’architettura della città sono molteplici le definizioni e le forme con cui è enunciata la nozione di fatto urbano. Nel corso della tesi si è indagato come la costruzione nel tempo di questo concetto è stata preceduta da diversi studi giovanili intrapresi dal 1953, poi riorganizzati e sintetizzati a partire dal 1963 in un quaderno manoscritto dal titolo “Manuale di urbanistica”, in diversi appunti e in due quaderni manoscritti. Il lavoro di ricerca ha ricostruito la formulazione della nozione di fatto urbano attraverso gli scritti di Rossi. In questa direzione la rilevazione della partecipazione di Rossi a dibattiti, seminari, riviste, corsi universitari o ricerche accademiche è apparsa di fondamentale importanza, per comprendere la complessità di un lavoro non riconducibile a dei concetti disciplinari, ma alla formazione di una teoria trasmissibile. Il tentativo di comprendere e spiegare la nozione di fatto urbano ha condotto ad esaminare l’accezione con cui Rossi compone L’architettura della città, che egli stesso assimila ad un trattato. L’analisi ha identificato come la composizione del libro non è direttamente riferibile ad un uso classico della stesura editoriale del trattato, la quale ha tra i riferimenti più noti nel passato la promozione di una pratica corretta come nel caso vitruviano o un’impalcatura instauratrice di una nuova categoria come nel caso dell’Alberti. La mancanza di un sistema globale e prescrittivo a differenza dei due libri fondativi e il rimando non immediato alla stesura di un trattato classico è evidente ne L’architettura della città. Tuttavia la possibilità di condurre la ricerca su una serie di documenti inediti ha permesso di rilevare come negli scritti a partire dal 1953, sia maturata una trattazione delle questioni centrali alla nozione di fatto urbano ricca di intuizioni, che aspirano ad un’autonomia, sintetizzate, seppure in modo non sistematico, nella stesura del celebre libro. Si è così cercato di mettere in luce la precisazione nel tempo della nozione di fatto urbano e della sua elaborazione nei molteplici scritti antecedenti la pubblicazione de L’architettura della città, precisando come Rossi, pur costruendo su basi teoriche la nozione di fatto urbano, ne indichi una visione progressiva, ossia un uso operativo sulla città. La ricerca si è proposta come obiettivo di comprendere le radici culturali della nozione di fatto urbano sia tramite un’esplorazione degli interessi di Rossi nel suo percorso formativo sia rispetto alla definizione della struttura materiale del fatto urbano che Rossi individua nelle permanenze e che alimenta nella sua definizione con differenti apporti derivanti da altre discipline. Compito di questa ricerca è stato rileggere criticamente il percorso formativo compiuto da Rossi, a partire dal 1953, sottolinearne gli ambiti innovativi e precisarne i limiti descrittivi che non vedranno mai la determinazione di una nozione esatta, ma piuttosto la strutturazione di una sintesi complessa e ricca di riferimenti ad altri studi. In sintesi la tesi si compone di tre parti: 1. la prima parte, dal titolo “La teoria dei fatti urbani ne L’architettura della città”, analizza il concetto di fatto urbano inserendolo all’interno del più generale contesto teorico contenuto nel libro L’architettura della città. Questo avviene tramite la scomposizione del libro, la concatenazione delle sue argomentazioni e la molteplicità delle fonti esplicitamente citate da Rossi. In questo ambito si precisa la struttura del libro attraverso la rilettura dei riferimenti serviti a Rossi per comporre il suo progetto teorico. Inoltre si ripercorre la sua vita attraverso le varie edizioni, le ristampe, le introduzioni e le illustrazioni. Infine si analizza il ruolo del concetto di fatto urbano nel libro rilevando come sia posto in un rapporto paritetico con il titolo del libro, conseguendone un’accezione di «fatto da osservare» assimilabile all’uso proposto dalla geografia urbana francese dei primi del Novecento. 2. la seconda parte, dal titolo “La formazione della nozione di fatto urbano 1953-66”, è dedicata alla presentazione dell’elaborazione teorica negli scritti di Rossi prima de L’architettura della città, ossia dal 1953 al 1966. Questa parte cerca di descrivere le radici culturali di Rossi, le sue collaborazioni e i suoi interessi ripercorrendo la progressiva definizione della concezione di città nel tempo. Si è analizzato il percorso maturato da Rossi e i documenti scritti fin dagli anni in cui era studente alla Facoltà di Architettura Politecnico di Milano. Emerge un quadro complesso in cui i primi saggi, gli articoli e gli appunti testimoniano una ricerca intellettuale tesa alla costruzione di un sapere sullo sfondo del realismo degli anni Cinquanta. Rossi matura infatti un impegno culturale che lo porta dopo la laurea ad affrontare discorsi più generali sulla città. In particolare la sua importante collaborazione con la rivista Casabella-continuità, con il suo direttore Ernesto Nathan Rogers e tutto il gruppo redazionale segnano il periodo successivo in cui compare l’interesse per la letteratura urbanistica, l’arte, la sociologia, la geografia, l’economia e la filosofia. Seguono poi dal 1963 gli anni di lavoro insieme al gruppo diretto da Carlo Aymonino all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, e in particolare le ricerche sulla tipologia edilizia e la morfologia urbana, che portano Rossi a compiere una sintesi analitica per la fondazione di una teoria della città. Dall’indagine si rileva infatti come gli scritti antecedenti L’architettura della città sviluppano lo studio dei fatti urbani fino ad andare a costituire il nucleo teorico di diversi capitoli del libro. Si racconta così la genesi del libro, la cui scrittura si è svolta nell’arco di due anni, e le aspirazioni che hanno portato quello che era stato concepito come un “manuale d’urbanistica” a divenire quello che Rossi definirà “l’abbozzo di un trattato” per la formulazione di una scienza urbana. 3. la terza parte, dal titolo “La struttura materiale dei fatti urbani: la teoria della permanenza”, indaga monograficamente lo studio della città come un fatto materiale, un manufatto, la cui costruzione è avvenuta nel tempo e del tempo mantiene le tracce. Sul tema della teoria della permanenza è stato importante impostare un confronto con il dibattito vivo negli anni della ricostruzione dopo la guerra intorno ai temi delle preesistenze ambientali nella ricostruzione negli ambienti storici. Sono emersi fin da subito importanti la relazione con Ernesto Nathan Rogers, le discussioni sulle pagine di Casabella-Continuità, la partecipazione ad alcuni dibatti e ricerche. Si è inoltre Rilevato l’uso di diversi termini mutuati dalle tesi filosofiche di alcune personalità come Antonio Banfi e Enzo Paci, poi elaborati dal nucleo redazionale di Casabella-Continuità, di cui faceva parte anche Rossi. Sono così emersi alcuni spostamenti di senso e la formulazione di un vocabolario di termini all’interno della complessa vicenda della cultura architettonica degli anni Cinquanta e Sessanta. 1. Si è poi affrontato questo tema analizzando le forme con cui Rossi presenta la definizione della teoria della permanenza e i contributi desunti da alcuni autori per la costruzione scientifica di una teoria dell’architettura, il cui fine è quello di essere trasmissibile e di offrire strumenti di indagine concreti. Questa ricerca ha permesso di ipotizzare come il lavoro dei geografi francesi della prima metà del XX secolo, e in particolare il contributo più rilevante di Marcel Poëte e di Pierre Lavedan, costituiscono le fonti principali e il campo d’indagine maggiormente esplorato da Rossi per definire la teoria della permanenza e i monumenti. Le permanenze non sono dunque presentate ne L’architettura della città come il “tutto”, ma emergono da un metodo che sceglie di isolare i fatti urbani permanenti, consentendo così di compiere un’ipotesi su “ciò che resta” dopo le trasformazioni continue che operano nella città. Le fonti su cui ho lavorato sono state quelle annunciate da Rossi ne L’architettura della città, e più precisamente i testi nelle edizioni da lui consultate. Anche questo lavoro ha permesso un confronto dei testi che ha fatto emergere ne L’architettura della città l’uso di termini mutuati da linguaggi appartenenti ad altre discipline e quale sia l’uso di concetti estrapolati nella loro interezza. Presupposti metodologici Della formulazione della nozione di fatto urbano si sono indagate l’originalità dell’espressione, le connessioni presunte o contenute negli studi di Rossi sulla città attraverso la raccolta di fonti dirette e indirette che sono andate a formare un notevole corpus di scritti. Le fonti dirette più rilevanti sono state trovare nelle collezioni speciali del Getty Research Institute di Los Angeles in cui sono conservati gli Aldo Rossi Papers, questo archivio comprende materiali inediti dal 1954 al 1988. La natura dei materiali si presenta sotto forma di manoscritti, dattiloscritti, quaderni, documenti ciclostilati, appunti sparsi e una notevole quantità di corrispondenza. Negli Aldo Rossi Papers si trovano anche 32 dei 47 Quaderni Azzurri, le bozze de L’architettura della città e dell’ Autobiografia Scientifica. Per quanto riguarda in particolare L’architettura della città negli Aldo Rossi Papers sono conservati: un quaderno con il titolo “Manuale d’urbanistica, giugno 1963”, chiara prima bozza del libro, degli “Appunti per libro urbanistica estate/inverno 1963”, un quaderno con la copertina rossa datato 20 settembre 1964-8 agosto 1965 e un quaderno con la copertina blu datato 30 agosto 1965-15 dicembre 1965. La possibilità di accedere a questo archivio ha permesso di incrementare la bibliografia relativa agli studi giovanili consentendo di rileggere il percorso culturale in cui Rossi si è formato. E’ così apparsa fondamentale la rivalutazione di alcune questioni relative al realismo socialista che hanno portato a formare un più preciso quadro dei primi scritti di Rossi sullo sfondo di un complesso scenario intellettuale. A questi testi si è affiancata la raccolta delle ricerche universitarie, degli articoli pubblicati su riviste specializzate e degli interventi a dibattiti e seminari. A proposito de L’architettura della città si è raccolta un’ampia letteratura critica riferita sia al testo in specifico che ad una sua collocazione nella storia dell’architettura, mettendo in discussione alcune osservazioni che pongono L’architettura della città come un libro risolutivo e definitivo. Per quanto riguarda il capitolo sulla teoria della permanenza l’analisi è stata svolta a partire dai testi che Rossi stesso indicava ne L’architettura della città rivelando i diversi apporti della letteratura urbanistica francese, e permettendo alla ricerca di precisare le relazioni con alcuni scritti centrali e al contempo colti da Rossi come opportunità per intraprendere l’elaborazione dell’idea di tipo. Per quest’ultima parte si può precisare come Rossi formuli la sua idea di tipo in un contesto culturale dove l’interesse per questo tema era fondamentale. Dunque le fonti che hanno assunto maggior rilievo in quest’ultima fase emergono da un ricco panorama in cui Rossi compie diverse ricerche sia con il gruppo redazionale di Casabella-continuità, sia all’interno della scuola veneziana negli anni Sessanta, ma anche negli studi per l’ILSES e per l’Istituto Nazionale d’Urbanistica. RESEARCH ON THE NOTION OF URBAN ARTIFACT IN THE ARCHITECTURE OF THE CITY BY ALDO ROSSI. Doctoral candidate: Letizia Biondi Tutor: Valter Balducci The present doctoral dissertation deals with the notion of urban artifact that was formulated and presented by Aldo Rossi in his book The Architecture of the City, published in 1966. In The Architecture of the City, the notion of urban artifact is enunciated through a wide range of definitions and forms. In this thesis, a research was done on how the construction of this concept over time was preceded by various studies started in 1953 during the author’s youth, then re-organized and synthesized since 1963 in a manuscript titled “Manual of urban planning” and in two more manuscripts later on. The work of research re-constructed the formulation of the notion of urban artifact through Rossi’s writings. In this sense, the examination of Rossi’s participation in debates, seminars, reviews, university courses or academic researches was of fundamental importance to understand the complexity of a work which is not to be attributed to disciplinary concepts, but to the formulation of a communicable theory. The effort to understand and to explain the notion of urban artifact led to an examination of the meaning used by Rossi to compose The Architecture of the City, which he defines as similar to a treatise. Through this analysis, it emerged that the composition of the book is not directly ascribable to the classical use of editorial writing of a treatise, whose most famous references in the past are the promotion of a correct practice as in the case of Vitruvio’s treatise, or the use of a structure that introduces a new category as in the Alberti case. Contrary to the two founding books, the lack of a global and prescriptive system and the not immediate reference to the writing of a classical treatise are evident in The Architecture of the City. However, the possibility of researching on some unpublished documents allowed to discover that in the writings starting from 1953 the analysis of the questions that are at the core of the notion of urban artifact is rich of intuitions, that aim to autonomy and that would be synthesized, even though not in a systematic way, in his famous book. The attempt was that of highlighting the specification over time of the notion of urban artifact and its elaboration in the various writings preceding the publication of The Architecture of the City. It was also specified that, despite building on theoretical grounds, Rossi indicates a progressive version of the notion of urban artifact, that is a performing use in the city. The present research aims to understand the cultural roots of the notion of urban artifact in two main directions: analyzing, firstly, Rossi’s interests along his formation path and, secondly, the definition of material structure of an urban artifact identified by Rossi in the permanences and enriched by various contributions from other disciplines. The purpose of the present research is to revise the formation path made by Rossi in a critical way, starting by 1953, underlining its innovative aspects and identifying its describing limits, which will never lead to the formulation of an exact notion, but rather to the elaboration of a complex synthesis, enriched by references to other studies. In brief, the thesis is composed of three parts: 1. The first part, titled “The Theory of urban artifacts in The Architecture of the City”, analyzes the concept of urban artifact in the more general theoretical context of the book The Architecture of the City. Such analysis is done by “disassembling” the book, and by linking together the argumentations and the multiplicity of the sources which are explicitly quoted by Rossi. In this context, the book’s structure is defined more precisely through the revision of the references used by Rossi to compose his theoretical project. Moreover, the author’s life is traced back through the various editions, re-printings, introductions and illustrations. Finally, it is specified which role the concept of urban artifact has in the book, pointing out that it is placed in an equal relation with the book’s title; by so doing, the concept of urban artifact gets the new meaning of “fact to be observed”, similar to the use that was suggested by the French urban geography at the beginning of the 20th century. 2. The second part, titled “The formation of the notion of urban artifact 1953-66”, introduces the theoretical elaboration in Rossi’s writings before The Architecture of the City, that is from 1953 to 1966. This part tries to describe Rossi’s cultural roots, his collaborations and his interests, tracing back the progressive definition of his conception of city over time. The analysis focuses on the path followed by Rossi and on the documents that he wrote since the years as a student at the Department of Architecture at the Politecnico in Milan. This leads to a complex scenario of first essays, articles and notes that bear witness to the intellectual research aiming to the construction of a knowledge on the background of the Realism of the 1950s. Rossi develops, in fact, a cultural engagement that leads him after his studies to deal with more general issues about the city. In particular, his important collaboration with the architecture magazine “Casabella-continuità”, with the director Ernesto Nathan Rogers and with the whole redaction staff mark the following period when he starts getting interested in city planning literature, art, sociology, geography, economics and philosophy. Since 1963, Rossi has worked with the group directed by Carlo Aymonino at the “Istituto Universitario di Architettura” (University Institute of Architecture) in Venice, especially researching on building typologies and urban morphology. During these years, Rossi elaborates an analytical synthesis for the formulation of a theory about the city. From the present research, it is evident that the writings preceding The Architecture of the City develop the studies on urban artifacts, which will become theoretical core of different chapters of the book. In conclusion, the genesis of the book is described; written in two years, what was conceived to be an “urban planning manual” became a “treatise draft” for the formulation of an urban science, as Rossi defines it. 3. The third part is titled “The material structure of urban artifacts: the theory of permanence”. This research is made on the study of the city as a material fact, a manufacture, whose construction was made over time, bearing the traces of time. As far as the topic of permanence is concerned, it was also important to draw a comparison with the debate about the issues of environmental pre-existence of re-construction in historical areas, which was very lively during the years of the Reconstruction. Right from the beginning, of fundamental importance were the relationship with Ernesto Nathan Rogers, the discussions on the pages of Casabella-Continuità and the participation to some debates and researches. It is to note that various terms were taken by the philosophical thesis by some personalities such as Antonio Banfi and Enzo Paci, and then re-elaborated by the redaction staff at Casabella-Continuità, which Rossi took part in as well. Through this analysis, it emerged that there were some shifts in meaning and the formulation of a vocabulary of terms within the complex area of the architectonic culture in the 1950s and 1960s. Then, I examined the shapes in which Rossi introduces the definition of the theory of permanence and the references by some authors for the scientific construction of an architecture theory whose aim is being communicable and offering concrete research tools. Such analysis allowed making a hypothesis about the significance for Rossi of the French geographers of the first half of the 20th century: in particular, the work by Marcel Poëte and by Pierre Lavedan is the main source and the research area which Rossi mostly explored to define the theory of permanence and monuments. Therefore, in The Architecture of the City, permanencies are not presented as the “whole”, but they emerge from a method which isolates permanent urban artifacts, in this way allowing making a hypothesis on “what remains” after the continuous transformations made in the city. The sources examined were quoted by Rossi in The Architecture of the City; in particular I analyzed them in the same edition which Rossi referred to. Through such an analysis, it was possible to make a comparison of the texts with one another, which let emerge the use of terms taken by languages belonging to other disciplines in The Architecture of the City and which the use of wholly extrapolated concepts is. Methodological premises As far as the formulation of the notion of urban artifact is concerned, the analysis focuses on the originality of the expression, the connections that are assumed or contained in Rossi’s writings about the city, by collecting direct and indirect sources which formed a significant corpus of writings. The most relevant direct sources were found in the special collections of the Getty Research Institute in Los Angeles, where the “Aldo Rossi Papers” are conserved. This archive contains unpublished material from 1954 to 1988, such as manuscripts, typescripts, notebooks, cyclostyled documents, scraps and notes, and several letters. In the Aldo Rossi Papers there are also 32 out of the 47 Light Blue Notebooks (Quaderni Azzurri), the rough drafts of The Architecture of the City and of the “A Scientific Autobiography”. As regards The Architecture of the City in particular, the Aldo Rossi Papers preserve: a notebook by the title of “Urban planning manual, June, 1963”, which is an explicit first draft of the book; “Notes for urban planning book summer/winter 1963”; a notebook with a red cover dated September 20th, 1964 – August 8th, 1965; and a notebook with a blue cover dated August 30th, 1965 – December 15th, 1965. The possibility of accessing this archive allowed to increase the bibliography related to the youth studies, enabling a revision of the cultural path followed by Rossi’s education. To that end, it was fundamental to re-evaluate some issues linked to the socialist realism which led to a more precise picture of the first writings by Rossi against the background of the intellectual scenario where he formed. In addition to these texts, the collection of university researches, the articles published on specialized reviews and the speeches at debates and seminars were also examined. About The Architecture of the City, a wide-ranging critical literature was collected, related both to the text specifics and to its collocation in the story of architecture, questioning some observations which define The Architecture of the City as a conclusive and definite book. As far as the chapter on the permanence theory is concerned, the analysis started by the texts that Rossi indicated in The Architecture of the City, revealing the different contributions from the French literature on urban planning. This allowed to the present research a more specific definition of the connections to some central writings which, at the same time, were seen by Rossi as an opportunity to start up the elaboration of the idea of type. For this last part, it can be specified that Rossi formulates his idea of type in a cultural context where the interest in this topic was fundamental. Therefore, the sources which played a central role in this final phase emerge from an extensive panorama in which Rossi researched not only with the redaction staff at Casablanca-continuità and within the School of Venice in the 1960s, but also in his studies for the ILSES (Institute of the Region Lombardia for Economics and Social Studies) and for the National Institute of Urban Planning.

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L’idea che il bogomilismo sia “in una qualche maniera” da riconnettere al manicheismo è di per sè molto antica. Fin da quando giunsero le prime voci su questa nuova eresia che si era diffusa in terra bulgara, i bogomili vennero etichettati come manichei. Non necessariamente però chi è più vicino ad un fenomeno, sia nello spazio sia nel tempo, vede meglio i suoi contorni, le sue implicazioni e la sua essenza. Altri campi di studio ci insegnano che la natura umana tende a inquadrare ciò che non è noto all’interno degli schemi del “già conosciuto”: è così che spesso nomi di popoli si fissano al territorio divenendo concetti geografici anche quando i popoli cambiano; non a caso tutta la regione che si estendeva ad est della Germania veniva definita Sarmazia ed i numerosi popoli che si muovevano al seguito ed agli ordini del gran qan venivano chiamati Tartari; analogamente in semantica possiamo assistere al posizionamento di etichette consolidate e particolari su “oggetti” che ne condividono tratti pur essendo sotto molti aspetti del tutto estranei a quella che si potrebbe definire la matrice: il terrorista islamico che si fa esplodere viene chiamato sui giornali kamikaze e non casualmente lo tsunami porta questo nome: l’onda anomala che può sconvolgere coste distanti migliaia di chilometri dall’epicentro di un terremoto sottomarino ricorda la più familiare onda di porto. Se il continuo riconnettere il bogomilismo al manicheismo delle fonti antiche rappresenta un indizio, ma non necessariamente una prova di certa connessione, la situazione si è notevolmente complicata nel corso del XX secolo. Dobbiamo al principe Obolensky l’introduzione del termine neomanicheismo per indicare le eresie di carattere dualistico sviluppatesi dal X secolo in avanti sul territorio europeo con particolare riferimento al bogomilismo. Il termine dal 1948 in avanti è stato ripetutamente utilizzato più o meno a proposito in svariati lavori a volte pubblicati in sedi editoriali d’eccellenza apparsi in Europa occidentale e nell’est europeo. Il problema principale resta definire il valore da attribuire al termine “neomanicheismo”: indica un forte dualismo religioso in generale, ben diffuso e studiato da tempo ad esempio nei lavori del Bianchi dedicati ai popoli siberiani e mongoli, oppure presuppone una reale catena di connessioni che ci conducono fino al manicheismo vero e proprio? A fronte di chi sostiene che il bogomilismo, così come l’eresia catara, può essere spiegato semplicemente come fenomeno interno al cristianesimo sulla base di un’interpretazione contrastante da quella ufficiale dei testi sacri vi è chi ritiene che sia stato un contatto diretto con gli ambienti manichei a generare le caratteristiche proprie del bogomilismo. Da qui nasce la parte più affascinante della ricerca che porta all’individuazione di possibili contatti attraverso gli spostamenti delle popolazioni, alla circolazione delle idee all’interno di quello che fu il commonwealth bizantino ed all’individuazione di quanto sia rimasto di tutto ciò all’interno della dottrina bogomila. Il lavoro è suddiviso in tre capitoli, preceduti dalla bibliografia e seguiti da un indice analitico dei nomi di persona e luogo. Il primo capitolo prende in esame le fonti sul bogomilismo, il tempo ed il luogo in cui si è manifestato e la sua evoluzione. Il secondo analizza la dottrina bogomila, i suoi possibili contatti con le dottrine iraniche ed i possibili canali di trasmissione delle idee. Il terzo capitolo è costituito da una serie di racconti popoloari bulgari di matrice dualistica e da testi antico slavi usati dai bogomili. La maggior parte di questi testi viene presentata per la prima volta qui in traduzione italiana.

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Da 25 anni la letteratura scientifica internazionale riporta studi su varie specie di microcrostacei copepodi ciclopoidi dei generi Macrocyclops, Megacyclops e Mesocyclops predatori di larve di 1a e 2a età di culicidi. Si tratta di prove di predazione in laboratorio e in pieno campo, in diverse aree del pianeta nessuna delle quali riguarda l’Italia o il resto d’Europa, contro principalmente Aedes aegypti (L.), Ae. albopictus (Skuse) e altre specie del genere Anopheles e Culex. L’allevamento massale di copepodi ciclopoidi appare praticabile e questo, assieme alle buone prestazioni predatorie, rende tali ausiliari candidati assai interessanti contro le due principali specie di zanzare, Culex pipiens L. e Ae. albpopictus, che nelle aree urbane e periurbane italiane riescono a sfruttare raccolte d’acqua artificiali di volume variabile e a regime idrico periodico o permanente. Pertanto lo scopo dello studio è stato quello di arrivare a selezionare una o più specie di copepodi candidati per la lotta biologica e valutarne la possibilità applicativa nell’ambito dei programmi di controllo delle zanzare nocive dell’ambiente urbano. L’argomento del tutto nuovo per il nostro paese, è stato sviluppato attraverso varie fasi ciascuna delle quali propedeutica a quella successiva. •Indagine faunistica nell’area di pianura e costiera sulle specie di ciclopoidi associate a varie tipologie di raccolte d’acqua naturali e artificiali (fossi, scoline, canali, risaie e pozze temporanee). I campionamenti sono stati condotti con l’obiettivo di ottenere le specie di maggiori dimensioni (≥1 mm) in ristagni con diverse caratteristiche in termini di qualità dell’acqua e complessità biocenotica. •Prove preliminari di predazione in laboratorio con alcune specie rinvenute negli ambienti campionati, nei confronti delle larve di Ae. albopictus e Cx. pipiens. Le prestazioni di predazione sono state testate sottoponendo ai copepodi larve giovani di zanzare provenienti da allevamento e calcolato il numero giornaliero di larve attaccate. •Implementazione di un allevamento pilota della specie valutata più interessante, Macrocyclops albidus (Jurine) (Cyclopoida, Cyclopidae, Eucyclopinae), per i risultati ottenuti in laboratorio in termini di numero di larve predate/giorno e per le caratteristiche biologiche confacenti agli ambienti potenzialmente adatti ai lanci. Questa parte della ricerca è stata guidata dalla finalità di mettere a punto una tecnica di allevamento in scala in modo da disporre di stock di copepodi dalla primavera, nonchè da criteri di economicità nell’impianto e nella sua gestione. •Prove di efficacia in condizioni di semicampo e di campo in raccolte d’acqua normalmente colonizzate dai culicidi in ambito urbano: bidoni per lo stoccaggio di acqua per l’irrigazione degli orti e tombini stradali. In questo caso l’obiettivo principale è stato quello di ottenere dati sull’efficienza del controllo di M. albidus nei confronti della popolazione culicidica selvatica e sulla capacità del copepode di colonizzare stabilmente tali tipologie di focolai larvali. Risultati e conclusioni Indagine faunistica e prove di predazione in laboratorio L’indagine faunistica condotta nell’area costiera ferrarese, in quella ravennate e della pianura bolognese ha portato al rinvenimento di varie specie di ciclopoidi mantenuti in laboratorio per la conduzione delle prove di predazione. Le specie testate sono state: Acanthocyclops robustus (G. O. Sars), Macrocyclops albidus (Jurine), Thermocyclops crassus (Fischer), Megacyclops gigas (Claus). La scelta delle specie da testare è stata basata sulla loro abbondanza e frequenza di ritrovamento nei campionamenti nonché sulle loro dimensioni. Ciascuna prova è stata condotta sottoponendo a un singolo copepode, oppure a gruppi di 3 e di 5 esemplari, 50 larve di 1a età all’interno di contenitori cilindrici in plastica con 40 ml di acqua di acquedotto declorata e una piccola quantità di cibo per le larve di zanzara. Ciascuna combinazione “copepode/i + larve di Ae. albopictus”, è stata replicata 3-4 volte, e confrontata con un testimone (50 larve di Ae. albopictus senza copepodi). A 24 e 48 ore sono state registrate le larve sopravvissute. Soltanto per M. albidus il test di predazione è stato condotto anche verso Cx. pipiens. Messa a punto della tecnica di allevamento La ricerca è proseguita concentrando l’interesse su M. albidus, che oltre ad aver mostrato la capacità di predare a 24 ore quasi 30 larve di Ae. albopictus e di Cx. pipiens, dalla bibliografia risulta tollerare ampi valori di temperatura, di pH e alte concentrazioni di vari inquinanti. Dalla ricerca bibliografica è risultato che i ciclopoidi sono facilmente allevabili in contenitori di varia dimensione e foggia somministrando agli stadi di preadulto alghe unicellulari (Chlorella, Chilomonas), protozoi ciliati (Paramecium, Euplotes), rotiferi e cladoceri. Ciò presuppone colture e allevamenti in purezza di tali microrganismi mantenuti in parallelo, da utilizzare come inoculo e da aggiungere periodicamente nell’acqua di allevamento dei ciclopoidi. Nel caso di utilizzo di protozoi ciliati, occorre garantirne lo sviluppo che avviene a carico di flora batterica spontanea a sua volta cresciuta su di un substrato organico quale latte, cariossidi bollite di grano o soia, foglie di lattuga, paglia di riso bollita con cibo secco per pesci, lievito di birra. Per evitare il notevole impegno organizzativo e di manodopera nonché il rischio continuo di perdere la purezza della colonia degli organismi da utilizzare come cibo, le prove comparative di allevamento hanno portato ad un protocollo semplice ed sufficientemente efficiente in termini di copepodi ottenibili. Il sistema messo a punto si basa sull’utilizzo di una popolazione mista di ciliati e rotiferi, mantenuti nell'acqua di allevamento dei copepodi mediante la somministrazione periodica di cibo standard e pronto all’uso costituito da cibo secco per gatti. Prova di efficacia in bidoni da 220 l di capacità La predazione è stata studiata nel biennio 2007-2008 in bidoni da 220 l di capacità inoculati una sola volta in aprile 2007 con 100 e 500 esemplari di M. albidus/bidone e disposti all’aperto per la libera ovideposizione della popolazione culicidica selvatica. L’infestazione preimmaginale culicidica veniva campionata ogni due settimane fino ad ottobre, mediante un retino immanicato a maglia fitta e confrontata con quella dei bidoni testimone (senza copepodi). Nel 2007 il tasso di riduzione medio delle infestazioni di Ae. albopictus nei bidoni con copepodi, rispetto al testimone, è del 99,90% e del 100,00% rispettivamente alle dosi iniziali di inoculo di 100 e 500 copepodi/bidone; per Cx. pipiens L. tale percentuale media è risultata di 88,69% e di 84,65%. Similmente, nel 2008 si è osservato ad entrambe le dosi iniziali di inoculo una riduzione di Ae. albopictus del 100,00% e di Cx. pipiens del 73,3%. La dose di inoculo di 100 copepodi per contenitore è risultata sufficiente a garantire un rapido incremento numerico della popolazione che ha raggiunto la massima densità in agosto-settembre e un eccellente controllo delle popolazioni di Ae. albopictus. Prova di efficacia in campo in serbatoi per l’acqua irrigua degli orti La prova è stata condotta a partire dalla metà di agosto 2008 interessando 15 serbatoi di varia foggia e capacità, variabile tra 200 e 600 l, utilizzati per stoccare acqua orti famigliari nel comune di Crevalcore (BO). Ai proprietari dei serbatoi era chiesto di gestire il prelievo dell’acqua e i rifornimenti come da abitudine con l’unica raccomandazione di non svuotarli mai completamente. In 8 contenitori sono stati immessi 100 esemplari di M.albidus e una compressa larvicida a base di Bacillus thuringiensis var. israelensis (B.t.i.); nei restanti 7 è stata soltanto immessa la compressa di B.t.i.. Il campionamento larvale è stato settimanale fino agli inizi di ottobre. Dopo l’introduzione in tutti i serbatoi sono stati ritrovati esemplari di copepodi, nonostante il volume di acqua misurato settimanalmente sia variato da pochi litri, in qualche bidone, fino a valori della massima capacità, per effetto del prelievo e dell’apporto dell’acqua da parte dei gestori degli orti. In post-trattamento sono state osservate differenze significative tra le densità larvali nelle due tesi solo al 22 settembre per Ae.albopictus Tuttavia in termini percentuali la riduzione media di larve di 3a-4a età e pupe nei bidoni con copepodi, rispetto al testimone, è stata de 95,86% per Ae. albopictus e del 73,30% per Cx. pipiens. Prova di efficacia in tombini stradali Sono state condotte due prove in due differenti località, interessando 20 tombini (Marano di Castenaso in provincia di Bologna nel 2007) e 145 tombini (San Carlo in provincia di Ferrara nel 2008), quest’ultimi sottoposti a spurgo e pulizia completa nei precedenti 6 mesi l’inizio della prova. L’introduzione dei copepodi nei tombini è stata fatta all’inizio di luglio nella prova di Marano di Castenaso e alla fine di aprile e giugno in quelli di San Carlo, a dosi di 100 e 50 copepodi/tombino. Prima dell’introduzione dei copepodi e successivamente ogni 2 settimane per due mesi, in ogni tombino veniva campionata la presenza culicidica e dei copepodi con dipper immanicato. Nel 2007 dopo l’introduzione dei copepodi e per tutto il periodo di studio, mediamente soltanto nel 77% dei tombini i copepodi sono sopravvissuti. Nel periodo di prova le precipitazioni sono state scarse e la causa della rarefazione dei copepodi fino alla loro scomparsa in parte dei tombini è pertanto da ricercare non nell’eventuale dilavamento da parte della pioggia, quanto dalle caratteristiche chimico-fisiche dell’acqua. Tra queste innanzitutto la concentrazione di ossigeno che è sempre stata molto bassa (0÷1,03 mg/l) per tutta la durata del periodo di studio. Inoltre, a questo fattore probabilmente è da aggiungere l’accumulo, a concentrazioni tossiche per M. albidus, di composti organici e chimici dalla degradazione e fermentazione dell’abbondante materiale vegetale (soprattutto foglie) in condizioni di ipossia o anossia. Nel 2008, dopo il primo inoculo di M. albidus la percentuale di tombini che al campionamento presentano copepodi decresce in modo brusco fino a raggiungere il 6% a 2 mesi dall’introduzione dei copepodi. Dopo 40 giorni dalla seconda introduzione, la percentuale di tombini con copepodi è del 6,7%. Nell’esperienza 2008 è le intense precipitazioni hanno avuto probabilmente un ruolo determinante sul mantenimento dei copepodi nei tombini. Nel periodo della prova infatti le piogge sono state frequenti con rovesci in varie occasioni di forte intensità per un totale di 342 mm. Sotto questi livelli di pioggia i tombini sono stati sottoposti a un continuo e probabilmente completo dilavamento che potrebbe aver impedito la colonizzazione stabile dei copepodi. Tuttavia non si osservano influenze significative della pioggia nella riduzione percentuale dei tombini colonizzati da copepodi e ciò fa propendere all’ipotesi che assieme alla pioggia siano anche le caratteristiche fisico-chimiche dell’acqua a impedire una colonizzazione stabile da parte di M. albidus. In definitiva perciò si è dimostrato che i tombini stradali sono ambienti ostili per la sopravvivenza di M. albidus, anche se, dove il ciclopoide si è stabilito permanentemente, ha dimostrato un certo impatto nei confronti di Ae. albopictus e di Cx. pipiens, che tuttavia è risultato non statisticamente significativo all’analisi della varianza. Nei confronti delle larve di Culex pipiens il copepode non permette livelli di controllo soddisfacente, confermando i dati bibliografici. Nei confronti invece di Ae. albopictus la predazione raggiunge buoni livelli; tuttavia ciò non è compensato dalla percentuale molto alta di tombini che, dopo periodi di pioggia copiosa o singoli episodi temporaleschi o per le condizioni di anossia rimangono senza i copepodi. Ciò costringerebbe a ripetute introduzioni di copepodi i cui costi attualmente non sono inferiori a quelli per trattamenti con prodotti larvicidi. In conclusione la ricerca ha portato a considerare Macrocyclops albidus un interessante ausiliario applicabile anche nelle realtà urbane del nostro paese nell’ambito di programmi integrati di contrasto alle infestazioni di Aedes albopictus. Tuttavia il suo utilizzo non si presta a tutti i focolai larvali ma soltanto a raccolte di acqua artificiali di un certo volume come i bidoni utilizzati per stoccare acqua da impiegare per l’orto e il giardino familiare nelle situazioni in cui non è garantita la copertura ermetica, lo svuotamento completo settimanale o l’utilizzo di sostanze ad azione larvozanzaricida.

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Il presente lavoro ha come obiettivo la definizione e la misura della complessità tecnologica, al fine di costruire strumenti a supporto di tutti gli operatori che si occupano dello sviluppo e della fabbricazione di un prodotto industriale, quali progettisti di prodotto e responsabili di produzione. La ricerca è stata sviluppata attraverso le fasi di seguito descritte. Analisi dello stato dell’arte su definizioni e misure della complessità in ambito industriale attraverso l’individuazione e studio di oltre un centinaio di pubblicazioni al riguardo. Classificazione dei metodi proposti in letteratura per la misura della complessità in cinque categorie e analisi critica dei punti di forza e di debolezza dei differenti metodi, ai fini di orientare la elaborazione di un nuovo metodo. Sono stati inoltre analizzati i principali metodi di Intelligenza Artificiali quali potenziali strumenti di calcolo della complessità. Indagine su tematiche correlate alla complessità quali indicatori, trasferimento tecnologico e innovazione. La complessità viene misurata in termini di un indice che appartiene alla categoria degli indicatori, utilizzati in molti ambiti industriali, in particolare quello della misura delle prestazioni di produzione. In particolare si è approfondito significato e utilizzo dell’OEE (Overall Equipment Effectiveness), particolarmente diffuso nelle piccole medie imprese emilianoromagnole e in generale dalle aziende che utilizzano un sistema produttivo di tipo job-shop. È stato implementato un efficace sistema di calcolo dell’OEE presso una azienda meccanica locale. L’indice di complessità trova una delle sue più interessanti applicazioni nelle operazioni di trasferimento tecnologico. Introdurre un’innovazione significa in genere aumentare la complessità del sistema, quindi i due concetti sono connessi. Sono stati esaminati diversi casi aziendali di trasferimento di tecnologia e di misura delle prestazioni produttive, evidenziando legami e influenza della complessità tecnologica sulle scelte delle imprese. Elaborazione di un nuovo metodo di calcolo di un indice di complessità tecnologica di prodotto, a partire dalla metodologia ibrida basata su modello entropico proposta dai Prof. ElMaraghy e Urbanic nel 2003. L’attenzione è stata focalizzata sulla sostituzione nella formula originale a valori determinati tramite interviste agli operatori e pertanto soggettivi, valori oggettivi. Verifica sperimentale della validità della nuova metodologia attraverso l’applicazione della formula ad alcuni componenti meccanici grazie alla collaborazione di un’azienda meccanica manifatturiera. Considerazioni e conclusioni sui risultati ottenuti, sulla metodologia proposta e sulle applicazioni del nuovo indice, delineando gli obiettivi del proseguo della ricerca. In tutto il lavoro si sono evidenziate connessioni e convergenze delle diverse fonti e individuati in diversi ambiti concetti e teorie che forniscono importanti spunti e considerazioni sul tema della complessità. Particolare attenzione è stata dedicata all’intera bibliografia dei Prof. ElMaraghy al momento riconosciuti a livello internazionale come i più autorevoli studiosi del tema della complessità in ambito industriale.

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Prendendo in esame diverse angolature d’analisi è indagata la situazione attuale della produzione tradizionale della ceramica salentina. La ricerca comprende la descrizione della situazione culturale attuale, l’analisi qualitativa e quantitativa dei dati raccolti sul campo e la costruzione di un quadro generale multidimensionale della rappresentazione di un’area culturale. Il primo capitolo della tesi tratta il problema teorico dei linguaggi specialistici e delle peculiarità a essi legati. La dottoranda fornisce un quadro completo ed esaustivo della bibliografia sia italiana che anglosassone sull’argomento affrontato. Questo capitolo fa da introduzione al problema della comunicazione specialistica nell’ambito della quale si svolgono le interviste. Il secondo capitolo presenta la metodologia utilizzata durante la ricerca svolta sul campo. La metodologia della ricerca sul campo include i metodi etnografici di osservazione partecipante e linguistico antropologici di interviste non strutturate. Il terzo capitolo della tesi è dedicato alla descrizione etnografica del processo produttivo. Questo capitolo ha un valore rilevante per l’intera ricerca poiché oltre ai termini italiani sono riportati tutti i termini tradizionali e descritti dettagliatamente i momenti della produzione. Va dimostrata una profonda conoscenza della lavorazione della ceramica nel Salento non solo nel suo stato attuale ma anche nel passato. Come parte conclusiva di questo capitolo è proposta una riflessione di carattere filosofico e antropologico sul ruolo dell’artigiano come Creatore, proponendo paragoni con la figura del Demiurgo platonico descritto nel “Timeo” e l’analisi del cambiamento dello statuto di oggetto da manufatto a oggetto industriale basandosi sul lavoro di Baudrillard. Il quarto capitolo è strutturato in modo diverso rispetto agli altri perché rappresenta la parte centrale della tesi e propone quattro diversi tipi di analisi linguistica possibile. La prima analisi riguarda l’ideologia linguistica e la sua espressione nel parlato inosservato. E’ fornita la prospettiva teorica sulla problematica di ideologia linguistica e dimostrata la conoscenza dei testi sia di natura sociologica (Althusser, Bourdieu, Gouldner, Hobsbawm, Thompson, Boas) che di natura linguistica (Schieffelin Bambi B., Woolard Kathryn A., Kroskrity Paul V., eds. 1998 Language ideologies : practice and theory. New York Oxford, Oxford University press). Golovko analizza i marcatori spazio-temporali utilizzati dagli artigiani per costruire le tassonomie del pronome “noi” e la contrapposizione “noi” – altri. Questa analisi consente di distinguere i diversi livelli d’inclusione ed esclusione del gruppo. Un altro livello di analisi include la valutazione degli usi del passato e del presente nel parlato per costruire le dimensioni temporali del discorso. L’analisi dei marcatori spazio-temporali consente di proporre una teoria sulla “distanza” tra i parlanti che influisce la scelta del codice oppure la sua modifica (passaggio dal dialetto all’italiano, la scelta della varietà a seconda dell’interlocutore). La parte dedicata all’ideologia si conclude con un’analisi profonda (sia quantitativa che qualitativa) dei verbi di moto che sono stati raggruppati in una categoria denominata dalla Golovko “verbi di fase” che rappresentano usi non standard dei verbi di moto per esprimere il passaggio da una fase all’altra. Il termine “fasale” prende spunto non dalla letteratura linguistica ma dal libro di Van Gennep “Les rites de passage” che discute dell’importanza dei riti di passaggio nella cultura africana e nella ricerca etnografica e folkloristica. È stato rilevato dalla dottoranda che i passaggi da una fase produttiva all’altra hanno un valore particolare anche nella produzione della ceramica e soprattutto negli usi particolari dei verbi di moto. Analizzati in profondità, questi usi particolari rispecchiano non solo fattori linguistici ma anche la visione e la percezione di queste fasi delicate in modo particolare dagli artigiani stessi. Sono stati descritti i procedimenti linguistici come personalizzazione e alienazione dell’oggetto. Inoltre la dottoranda ha dimostrato la conoscenza della letteratura antropologica non solo inerente la zona da lei studiata ma anche di altre come, ad esempio, dell’Africa Sub Sahariana. Nella parte successiva del quarto capitolo viene proposta un’altra chiave di lettura delle problematiche linguistiche: l’analisi del lessico utilizzato dagli artigiani per poter classificare i gruppi identitari presenti nella comunità studiata. E’ proposta l’analisi dei rapporti all’interno dei gruppi professionali che sono generalmente classificati come solidarietà e distinzione. La terminologia ha origine sociologica, infatti viene proposto un quadro teorico degli studi sulla solidarietà (Durkheim, Appandurai, Harré, Zoll) e l’adattamento del termine in questo senso coniato da Bourdieu “la distiction”. L’identità linguistica è affrontata sia dal punto di vista linguistico che dal punto di vista sociologico. Per svolgere l’analisi sulle identità assunte dagli artigiani e poter ricondurre la scelta volontaria e a volte non conscia di uno stile (consistente di un insieme di termini) inteso come espressione d’identità assunta dagli artigiani, la dottoranda riflette sul termine “stile” nella sua accezione sociolinguistica, com’è usuale negli studi anglosasoni di ultima generazione (Coupland, Eckert, Irvine e altri). La dottoranda fornisce una classificazione delle identità e ne spiega la motivazione basandosi sui dati empirici raccolti. La terza parte del quarto capitolo è dedicata all’analisi del linguaggio specialistico degli artigiani e alla descrizione dei tratti solitamente assegnati a questo tipo di linguaggio (monoreferenziaità, trasparenza, sinteticità e altri). La dottoranda svolge un’analisi di carattere semantico dei sinonimi presenti nel linguaggio degli artigiani, analizza il rapporto con la lingua comune, riporta l’uso delle metafore e casi di produttività linguistica. L’ultima parte del quarto capitolo consiste nell’analisi dei tratti non standard nel linguaggio degli artigiani classificati considerando il livello di variazione (lessico, morfologia e morfosintassi e sintassi) e spiegati con gli esempi tratti dalle interviste. L’autrice riflette sui cambiamenti avvenuti nella lingua parlata italiana e nella sua varietà regionale basandosi sui lavori “classici” della linguistica italiana (Berruto, Sobrero, Stehl, Bruni, D’Achille, Berretta, Tempesta e altri) studiandone attentamente i processi evidenziati nella sua descrizione. Lo scopo e l’apice della tesi consiste nell’analisi del repertorio linguistico degli artigiani e la discussione delle dinamiche in corso (livellamento del dialetto, convergenza e divergenza del dialetto, italianizzazione e regionalizzazione dell’italiano). La dottoranda propone un suo schema di rapporti tra italiano e dialetto motivando pienamente la sua teoria. A corollario la tesi è composta anche da un glossario dei termini tecnici e un album fotografico che aumentano l’interesse del lavoro dandogli un valore culturale.

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Nel trentennale dalla morte di Gianni Rodari, la tesi elabora problemi e riflessioni circa la maggiore urgenza corrente tra gli attuali studi rodariani: la necessità, per la cultura nazionale, di conferire a Gianni Rodari e alla letteratura per l’infanzia il ruolo intellettuale determinante da essi rivestito. La tesi sceglie di concentrarsi sui maggiori libri poetici e sul capolavoro teorico, la Grammatica della fantasia, utilizzando come strumenti il confronto con Gramsci, con la tradizione del folklore, con i grandi scrittori per l’infanzia dell’Inghilterra e con le altre esperienze poetiche del Novecento, discutendo Rodari da una specola esclusivamente filologica e letteraria. Parte prima: Rodari utopista. Nella prima parte Gianni Rodari viene inquadrato in un confronto diretto con l’Antonio Gramsci dei Quaderni, che aveva lucidamente individuato la separatezza tutta italiana tra classe intellettuale e mondo popolare, con conseguente inesistenza di una letteratura nazionale-popolare e di una specifica letteratura per l’infanzia. Rodari, primo intellettuale a dedicare tutto se stesso al riempimento di questa lacuna, risponde con intento sociale e politico al problema, adottando un atteggiamento che la tesi definisce utopico. Tramite una disamina del pensiero delle utopie letterarie a confronto con la tradizione popolare del paese di Cuccagna, la tesi procede all’accurato rinvenimento nell’opera di Rodari dei luoghi utopici, tutti orientati a suggerire un utilizzo dell’utopia come chiave per forzare un presente insoddisfacente e accedere a un futuro costruito da ogni individuo in prima persona. Parte seconda: Rodari poeta nonsense? Scritta in Inghilterra presso l’Istitute of Germanic and Romance Studies della University of London, la seconda e corposa parte della tesi si propone come un ampliamento della traccia gettata nel 1983 dall’articolo di Cristina Bertea Gianni Rodari in Gran Bretagna. La tesi analizza dapprima il problema del nonsense, ancora scarsamente trattato in Italia, riflettendo criticamente sulla maggiore bibliografia anglosassone che ha studiato il tema. Successivamente, mette a raffronto il lavoro linguistico che Gianni Rodari ha compiuto lungo l’arco di tutta la vita e le tecniche di composizione poetica elaborate nella Grammatica della fantasia con gli strumenti retorico-formali del nonsense individuati nell’opera di Lewis Carroll, di Edward Lear e delle nursery rhymes inglesi. Parte terza: Traccia per una mappatura della poesia per l’infanzia in Italia, a partire da Gianni Rodari. L’ultima parte della tesi si avventura alla ricerca di un percorso possibile attraverso la poesia per l’infanzia del Novecento e le sue esperienze di comicità. I capitoli si soffermano sul nonsense di Toti Scialoja e di Nico Orengo, sui precedenti di Lina Schwarz e Alfonso Gatto, sul Petel di Zanzotto, sulla poesia di soglia di Vivian Lamarque e sull’eredità della Grammatica della fantasia con particolare riferimento a Calicanto, di Ersilia Zamponi e Roberto Piumini.

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la ricerca ha avuto per oggetto la ricostruzione della storia e del patrimonio della biblioteca privata specializzata di San Genesio fondata nel 1931 presso la Casa "Lyda Borelli" per artisti drammatici di Bologna. La biblioteca si presenta oggi come uno dei centri di documentazione teatrale più antichi e significativi del panorama italiano: oltre 10.000 monografie, per la maggior parte concernenti testi e studi specialistici, un fondo antico (pre 1831) di oltre 2.000 volumi, una ricca collezione di periodici sul mondo dello spettacolo in collezione completa, una raccolta di copioni teatrali manoscritti e dattiloscritti di oltre 1.000 unità. La biblioteca, inoltre, comprende l'archivio storico della Casa che conserva la documentazione riguardante la vita dell'Istituto dalla sua nascita, nel 1917, numerosi fondi aggregati appartenuti a rilevanti personaggi dello spettacolo e un patrimonio fotografico unico in Italia. La tesi sintetizza i due principali filoni di ricerca seguiti durante il percorso dottorale. Il primo è quello della ricognizione delle fonti archivistiche, sia interne sia esterne all'istituto, al fine di dettagliare la lunga storia della biblioteca San Genesio, mai oggetto di altra ricostruzione complessiva. Questo obiettivo è stato raggiunto mediante la consultazione dell'intero patrimonio documentario conservato presso l'Archivio storico di Casa "Lyda Borelli" e di numerosi fondi archivistici, concernenti attori e personaggi in rapporto con la Casa, presenti in altri istituti pubblici e privati. I documenti interni alla Casa sono stati intrecciati con altri con cui sono speculari, conservati in altre istituzioni. La seconda parte della ricerca si è concentrata sull'analisi del fondo librario antico. La ricchezza della collezione, costituita da oltre trecento testi teatrali pubblicati nel XVI e XVII secolo, ha offerto un ampio campione d'indagine per ricostruire l'evoluzione dell'editoria specializzata nei primi secoli della stampa tipografica. A tal fine è stato redatto un catalogo, in cui la descrizione bibliografica è accompagnata dall'analitica registrazione degli elementi paratestuali presenti, quali dediche, avvisi ai lettori, indici, errata corrige, marginalia, note di possesso ed ex libris, elementi oggetto di forte interesse nei più accreditati e moderni studi bibliologici e di storia del libro sia italiani sia stranieri. A completamento del catalogo sono stati compilati numerosi indici al fine di moltiplicare le chiavi d'accesso e di lettura del fondo (per autori secondari, luoghi di stampa, editori e tipografi, marche tipografiche e possessori), dotando il catalogo di un apparato fotografico dei frontespizi. Questi elementi aggiuntivi rendono l'elaborato un repertorio unico per le edizioni teatrali e una fonte importante per gli studiosi della stampa in antico regime tipografico.

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This work is focused on the reconstruction of the intellectual biography of Francesco Platone de' Benedetti, prince of the Bologna's printers (1482-1486), that is the same with his typographical outputs. The research had been divided in two parts: the first, with his life, invesitigated by archive documents, and the second part, focused on the census of his editions, with a particular attention to his types. The research on the typographical types had been developed with Adobe Photoshop, that had allowed me to virtually reconstruct the cases of the Gotic and Roman types used by de' Benedetti.

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In ogni capitolo, l’atto del ricordare viene indagato nelle diverse valenze che lo mettono in rapporto diretto con la nostalgia e l’oblio. L’analisi dei testi letterari copre un arco di tempo di quasi un secolo, partendo dalle innovazioni tecnico-stilistiche realizzate da Katherine Mansfield fino all’eccezionale ricchezza e al meritato successo di pubblico e critica della scrittrice canadese Alice Munro. La bibliografia dei testi primari e secondari è strutturata con criteri tematici e cronologici.

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E’ mostrata l’analisi e la modellazione di dati termocronologici di bassa temperatura da due regioni Alpine: il Sempione ed il Brennero. Le faglie distensive presenti bordano settori crostali profondi appartenenti al dominio penninico: il duomo metamorfico Lepontino al Sempione e la finestra dei Tauri al Brennero. I dati utilizzati sono FT e (U-Th)/He su apatite. Per il Sempione i dati provengono dalla bibliografia; per il Brennero si è provveduto ad un nuovo campionamento, sia in superficie che in sotterraneo. Gli attuali lavori per la galleria di base del Brennero (BBT), hanno consentito, per la prima volta, di raccogliere dati di FT e (U-Th)/He in apatite in sottosuolo per la finestra dei Tauri occidentale. Le analisi sono state effettuate tramite un codice a elementi finiti, Pecube, risolvente l’equazione di diffusione del calore per una topografia evolvente nel tempo. Il codice è stato modificato per tener conto dei dati sotterranei. L’inversione dei dati è stata effettuata usando il Neighbourhood Algorithm (NA), per ottenere il più plausibile scenario di evoluzione morfotettonico. I risultati ottenuti per il Sempione mostrano: ipotetica evoluzione dello stile tettonico della faglia del Sempione da rolling hinge a low angle detachment a 6.5 Ma e la cessazione dell’attività a 3 Ma; costruzione del rilievo fino a 5.5 Ma, smantellamento da 5.5 Ma ad oggi, in coincidenza dei cambiamenti climatici Messiniani e relativi all’inizio delle maggiori glaciazioni; incremento dell’esumazione da 0–0.6 mm/anno a 0.6–1.2 mm/anno a 2.4 Ma nell’emisfero settentrionale. I risultati al Brennero mostrano: maggiore attività tettonica della faglia del Brennero (1.3 mm/anno), maggiore attività esumativa (1–2 mm/anno) prima dei 10 Ma; crollo dell’attività della faglia del Brennero fra 10 Ma e oggi (0.1 mm/anno) e dell’attività esumativa nello stesso periodo (0.1–0.3 mm/anno); nessun aumento del tasso esumativo o variazioni topografiche negli ultimi 5 Ma.

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Al centro della seguente ricerca c'è il Piacentino, ossia il territorio che faceva capo alla città di Placentia in età altomedievale, più precisamente tra VII e IX secolo. L'aspetto su cui è concentrata l’analisi è quello dell’insediamento, rapportando le forme insediative alle comunità rurali e alle strutture del potere. Il Piacentino costituisce un contesto particolare, sia per la vicinanza alla capitale Pavia, sia per la presenza di enti patrimoniali molto importanti, quale il monastero di Bobbio, sia per l'estensione di vallate appenniniche che ne hanno protetto l'isolamento e impedito, fino al secolo IX inoltrato, l'insediamento di una forte aristocrazia. Ciò che sembra dedursi dall’analisi della documentazione (informatizzata) di VIII, ma soprattutto di IX secolo, è che la civitas di Piacenza, sede del conte e centro della diocesi, non costituiva di fatto il punto di riferimento per gli abitanti dell’intero territorio rurale. Dal punto di vista del possesso fondiario molti insediamenti erano autonomi. Ciò vale soprattutto per i siti di alcune zone collinari e per quelli dell’Appennino, mentre il discorso è da porsi in modo più sfumato per la pianura e per la zona dei prata vel campanea Placentina, ubicati immediatamente al di fuori della civitas. Lo studio della media e grande proprietà fondiaria ha permesso di registrare la frammentarietà dei possedimenti, ossia la loro dispersione nel sistema insediativo del comitato, la loro ubicazione e l’articolato intreccio proprietario, che in alcune zone sembra avere permesso l’esistenza di comunità locali piuttosto forti. L’attento esame della documentazione e il sicuro rimando alla bibliografia di riferimento hanno portato a risultati originali e significativi.

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Nell’ambito della patologia gastroenterica del suino sono comprese alcune malattie sostenute da batteri spirillari gram negativi, di cui sono disponibili numerose trattazioni riguardanti, soprattutto, l'aspetto epidemiologico e patogenetico. Per alcuni di questi agenti microbici, e per le relative manifestazioni patologiche, poco si conosce nel cinghiale selvatico, animale correlato filogeneticamente al suino domestico, ma compreso in un’ecologia completamente differente. Da queste premesse è nato un approccio di ricerca e studio del comportamento di questi microrganismi in una metapopolazione di cinghiali, abbattuti durante il piano di controllo della popolazione densità-dipendente nel Parco dei Gessi e Calanchi dell’Abbadessa (BO), cercando di rapportare le conoscenze riportate in letteratura sul suino domestico con quanto è scaturito dalle indagini condotte sul cinghiale selvatico. In particolare è stata indagata con metodica immunoistochimica la presenza di Lawsonia intracellularis, patogeno del suino responsabile di Enterite Proliferativa (EP), in secondo luogo sono state condotte indagini batteriologiche e istologiche da stomaco e intestino, finalizzate all’isolamento di microrganismi spirillari dei generi Campylobacter e Helicobacter, da correlare all’eventuale presenza di lesioni infiammatorie e ulcerative gastriche o enteriche valutate secondo sistemi a punteggio ottenuti dalla bibliografia o realizzati in base alla tipologia di infiltrato cellulare e alla sua localizzazione. In ultimo, a fini comparativi con uno studio condotto nel 2002-2004 nello steso Parco Regionale, sono stati monitorati i livelli di antibioticoresistenza di indicatori fecali usando metodiche internazionali standardizzate (Escherichia coli e Enterococcus faecium.) nonché su un numero significativo di isolati di Campylobacter lanienae, per ottenere indicazioni preliminari sull’andamento nei 10 anni trascorsi dello stato di inquinamento da farmaco del Parco stesso. I risultati ottenuti permettono di ampliare le conoscenze sulla flora enterica del cinghiale selvatico e pongono questioni di sicurezza pubblica sulla gestione dei mammiferi selvatici.

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Il lavoro svolto durante questa tesi di dottorato pone le basi per lo sviluppo di nuove biotecnologie della micorrizazione di piante forestali con tartufi pregiati ed in particolare con Tuber magnatum. Durante questa tesi è stato possibile isolare e mantenere in coltura pura il micelio di T. magnatum, ad ottenere e descrivere le sue micorrize e quelle di altri tartufi “bianchi” (T. oligospermum, T. borchii) e a seguire l’evoluzione del micelio nel suolo utilizzando la tecnica della real time PCR. Sono stati disegnati primer specie specifici in grado di identificare T. oligospermum ed è stata verificata la possibiltà di utilizzare questi primers in PCR multiplex con quelli specifici di T. magnatum e di T. borchii già presenti in bibliografia, al fine di “scovare” sia frodi nella commercializzaione degli ascomi sia eventuali contaminazioni nelle piante micorrizate. Per migliorare lo sviluppo miceliare di tartufo abbiamo si è cercato di migliorare il mezzo nutritivo per la crescita del micelio utilizzando: fonti di carbonio diverse, estratti radicali di nocciolo e singole frazioni separate dagli stessi. Infine sono stati sviluppati protocolli di crioconservazione per miceli di tartufo. Gli estratti radicali sono in grado di stimolare le crescita miceliare del tartufo modello T. borchii e dimodificarne la morfologia ifale. Questo risultati sono stati confermati anche dall’aumento dell’espressione di geni CDC42 e Rho-GDI, due geni legati alla crescita apicale polarizzata delle ife dei funghi filamentosi. Inoltre è stato dimostrato che il mantenimento in coltura per numerosi anni dei miceli di tartufo provoca una perdita della capacità d’infettare le radici delle piante e quindi il loro potenziale utilizzo sia a scopo sperimentale sia a scopo colturale. Questo pone in risalto l’importanza della conservazione a lungo termine del materiale biologico a disposizione ed è stato dimostrato che la crioconservazione è applicabile con successo anche alle specie del genere Tuber.