132 resultados para Vicente Di Grado


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Obiettivo della tesi è stato quello di studiare il ruolo svolto dall’ipotalamo laterale (LH) nella regolazione dei processi di integrazione dell’attività autonomica e termoregolatoria con quella degli stati di veglia e sonno. A questo scopo, l’attività dell’LH è stata inibita per 6 ore (Esperimento A) mediante microiniezioni locali dell’agonista GABAA muscimolo nel ratto libero di muoversi, nel quale sono stati monitorati in continuo l’elelttroencefalogramma, l’elettromiogramma nucale, la pressione arteriosa (PA) e la temperatura ipotalamica (Thy) e cutanea. Gli animali sono stati studiati a temperatura ambientale (Ta) di 24°C e 10°C. I risultati hanno mostrato che l’inibizione acuta dell’LH riduce l’attività di veglia e sopprime la comparsa del sonno REM. Ciò avviene attraverso l’induzione di uno stato di sonno NREM caratterizzato da ipersincronizzazione corticale, con scomparsa degli stati transizionali al sonno REM. Quando l’animale è esposto a bassa Ta, tali alterazioni si associano a un ampio calo della Thy, che viene compensato da meccanismi vicarianti solo dopo un paio d’ore dall’iniezione. Sulla base di tali risultati, si è proceduto ad un ulteriore studio (Esperimento B) volto ad indagare il ruolo del neuropeptide ipocretina (prodotto in modo esclusivo a livello dell’LH) nei processi termoregolatori, mediante microiniezioni del medesimo nel bulbo rostrale ventromediale (RVMM), stazione cruciale della rete nervosa preposta all’attivazione dei processi termogenetici. La somministrazione di ipocretina è stata in grado di attivare la termogenesi e di potenziare la comparsa della veglia, con concomitante lieve incremento della PA e della frequenza cardiaca, quando effettuata alle Ta di 24°C o di 10°C, ma non alla Ta di 32°C. In conclusione, i risultati indicano che l’LH svolge un ruolo cruciale nella promozione degli stati di veglia e di sonno REM e, per tramite dell’ipocretina, interviene in modo coplesso a livello del RVMM nella regolazione dei processi di coordinamento dell'attività di veglia con quella termoregolatoria.

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Oltre alla progressiva perdita dei linfociti T CD4, i pazienti HIV-infetti presentano diverse citopenie periferiche. In particolare l’anemia si riscontra nel 10% dei pazienti asintomatici e nel 92% di quelli con AIDS e la terapia cART non è in grado di risolvere tale problematica. I meccanismi patogenetici alla base di questa citopenia si ritiene che possano riguardare la deregolazione citochinica, il danno alle HPCs, alle cellule in differenziamento e alle cellule stromali. Le cellule progenitrici ematopoietiche CD34+, dopo essere state separate da sangue cordonale e differenziate verso la linea eritroide, sono state trattate con HIV-1 attivo, inattivato al calore e gp120. In prima istanza è stata messa in luce la mancata suscettibilità all’infezione e l’aumento dell’ apoptosi dovuto al legame gp120-CD4/CXCR4 e mediato dal TGF-β1 nelle cellule progenitrici indifferenziate. L’aspetto innovativo di questo studio però si evidenzia esaminando l’effetto di gp120 durante il differenziamento verso la filiera eritrocitaria. Sono stati utilizzati due protocolli sperimentali: nel primo le cellule sono inizialmente trattate per 24 ore con gp120 (o con HIV-1 inattivato al calore) e poi indotte in differenziamento, nel secondo vengono prima differenziate e poi trattate con gp120. Il “priming” negativo determina una apoptosi gp120-indotta molto marcata già dopo 48 ore dal trattamento ed una riduzione del differenziamento. Se tali cellule vengono invece prima differenziate per 24 ore e poi trattate con gp120, nei primi 5 giorni dal trattamento, è presente un aumento di proliferazione e differenziamento, a cui segue un brusco arresto che culmina con una apoptosi molto marcata (anch’essa dipendente dal legame gp120-CD4 e CXCR4 e TGF-β1 dipendente) e con una drastica riduzione del differenziamento. L’insieme dei risultati ha permesso di definire in modo consistente la complessità della genesi dell’anemia in questi pazienti e di poter suggerire nuovi target terapeutici in questi soggetti, già sottoposti a cART.

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L’insorgenza di fenomeni coinvolti nello sviluppo della farmacoresistenza costituisce al momento la principale causa di mancata risposta al trattamento chemioterapico nell’osteosarcoma. Questo è in parte dovuto ad una sovraespressione di diversi trasportatori ABC nelle cellule tumorali che causano un aumento dell’efflusso extracellulare del chemioterapico e pertanto una ridotta risposta al trattamento farmacologico. L'oncogene C-MYC è coinvolto nella resistenza al metothrexate, alla doxorubicina e al cisplatino ed è un fattore prognostico avverso, se sovraespresso al momento della diagnosi, in pazienti affetti da osteosarcoma. C-MYC è in grado di regolare l'espressione di diversi trasportatori ABC, probabilmente coinvolti nella resistenza ai farmaci nell’osteosarcoma, e questo potrebbe spiegare l’impatto prognostico avverso dell’oncogene in questo tumore. L’espressione genica di C-MYC e di 16 trasportatori ABC, regolati da C-MYC e / o responsabili dell'efflusso di diversi chemioterapici, è stata valutata su due diverse casistiche cliniche e su un pannello di linee cellulari di osteosarcoma umano mediante real-time PCR. L'espressione della proteina è stata valutata per i 9 trasportatori ABC risultati più rilevanti.Infine l'efficacia in vitro di un inibitore, specifico per ABCB1 e ABCC1, è stata valutata su linee cellulari di osteosarcoma. ABCB1 e ABCC1 sono i trasportatori più espressi nelle linee cellulari di osteosarcoma. ABCB1 è sovraespresso al momento della diagnosi in circa il 40-45% dei pazienti affetti da osteosarcoma e si conferma essere un fattore prognostico avverso se sovraespresso al momento della diagnosi. Pertanto ABCB1 diventa il bersaglio di elezione per lo sviluppo di strategie terapeutiche alternative, nel trattamento dell’osteosarcoma, atte al superamento della farmacoresistenza. L’inibizione dell'attività di tale trasportatore causa un aumento della sensibilità al trattamento chemioterapico nelle linee cellulari di osteosarcoma farmacoresistenti, indicando questo approccio come una possibile strategia per superare il problema della mancata risposta al trattamento farmacologico nei pazienti con osteosarcoma che sovraesprimono ABCB1.

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Le alterazioni della funzionalità mitocondriale detengono un ruolo cruciale nella patogenesi della malattia di Alzheimer (AD), sostenendo il processo neurodegenerativo attraverso meccanismi quali la riduzione della disponibilità energetica e la iperproduzione di ROS. Alle numerose ipotesi di patogenesi dell’AD, si è recentemente affiancata la cosiddetta ipotesi vascolare. Nei soggetti AD è stata riscontrata una significativa riduzione della disponibilità di ossigeno a livello neuronale (ipossia neuronale). Da numerosi studi è poi emerso che l’ipossia gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’AD contribuendo a più vie patogenetiche contemporaneamente. Tuttavia, non sono stati ancora chiariti tutti i meccanismi attraverso cui l’ipossia esplica la sua azione di danno. Lo scopo di questo studio è stato quello di contribuire a chiarire il ruolo patologico dell’ipossia nell’AD, analizzando principalmente le alterazioni della funzionalità mitocondriale indotte dalla riduzione della disponibilità di ossigeno. Nella prima fase dello studio cellule PC12 sono state coltivate in presenza di β-amiloide e ipossia. In questo modello abbiamo osservato un potenziamento dei fenomeni di deplezione dell’ATP e di generazione delle ROS indotti dalla Aβ quando anche l’ipossia era presente come fonte di danno cellulare, ipotizzando per i due fattori un effetto congiunto di tipo additivo. Nella seconda fase abbiamo esposto all’ipossia fibroblasti prelevati da pazienti AD portatori di mutazioni a carico dei geni APP e PSEN. La presenza di mutazioni predisponenti ad un fenotipo AD era in grado di determinare un danno bioenergetico e ossidativo. Le alterazioni bioenergetiche riscontrate in normossia risultavano ulteriormente potenziate quando i fibroblasti erano coltivati in ipossia, mentre lo stato di stress ossidativo veniva evidenziato solo in condizioni ipossiche. Sulla base dei risultati finora conseguiti si può ipotizzare che uno dei meccanismi attraverso cui l’ipossia esplica la sua azione di danno nella AD, possa essere dovuto alla capacità di potenziare ulteriormente le alterazioni della funzionalità mitocondriale.

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La tesi affronta il tema dell'innovazione della scuola, oggetto di costante attenzione da parte delle organizzazioni internazionali e dei sistemi educativi nazionali, per le sue implicazioni economiche, sociali e politiche, e intende portare un contributo allo studio sistematico e analitico dei progetti e delle esperienze di innovazione complessiva dell'ambiente di apprendimento. Il concetto di ambiente di apprendimento viene approfondito nelle diverse prospettive di riferimento, con specifica attenzione al framework del progetto "Innovative Learning Environments" [ILE], dell’Organisation For Economic And Cultural Development [OECD] che, con una prospettiva dichiaratamente olistica, individua nel dispositivo dell’ambiente di apprendimento la chiave per l’innovazione dell’istruzione nella direzione delle competenze per il ventunesimo Secolo. I criteri presenti nel quadro di riferimento del progetto sono stati utilizzati per un’analisi dell’esperienza proposta come caso di studio, Scuola-Città Pestalozzi a Firenze, presa in esame perché nell’anno scolastico 2011/2012 ha messo in pratica appunto un “disegno” di trasformazione dell’ambiente di apprendimento e in particolare dei caratteri del tempo/scuola. La ricerca, condotta con una metodologia qualitativa, è stata orientata a far emergere le interpretazioni dei protagonisti dell’innovazione indagata: dall’analisi del progetto e di tutta la documentazione fornita dalla scuola è scaturita la traccia per un focus-group esplorativo attraverso il quale sono stati selezionati i temi per le interviste semistrutturate rivolte ai docenti (scuola primaria e scuola secondaria di primo grado). Per quanto concerne l’interpretazione dei risultati, le trascrizioni delle interviste sono state analizzate con un approccio fenomenografico, attraverso l’individuazione di unità testuali logicamente connesse a categorie concettuali pertinenti. L’analisi dei materiali empirici ha permesso di enucleare categorie interpretative rispetto alla natura e agli scopi delle esperienze di insegnamento/apprendimento, al processo organizzativo, alla sostenibilità. Tra le implicazioni della ricerca si ritengono particolarmente rilevanti quelle relative alla funzione docente.

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Lo studio della deidrogenazione catalitica di idrocarburi affronta uno dei problemi principali per l'applicazione delle fuel cells in aeromobili. La conversione di miscele di idrocarburi in H2 può essere eseguita in loco, evitando le difficoltà di stoccaggio dell'idrogeno: l'H2 prodotto è privo di CO e CO2 e può essere alimentato direttamente alle celle a combustibile per dare energia ai sistemi ausiliari, mentre i prodotti deidrogenati, mantenendo le loro originali caratteristiche possono essere riutilizzati come carburante. In questo un lavoro è stato effettuato uno studio approfondito sulla deidrogenazione parziale (PDH) di diverse miscele di idrocarburi e carburante avio JetA1 desolforato utilizzando Pt-Sn/Al2O3, con l'obiettivo di mettere in luce i principali parametri (condizioni di reazione e composizione di catalizzatore) coinvolti nel processo di deidrogenazione. Inoltre, la PDH di miscele idrocarburiche e di Jet-A1 ha evidenziato che il problema principale in questa reazione è la disattivazione del catalizzatore, a causa della formazione di residui carboniosi e dell’avvelenamento da zolfo. Il meccanismo di disattivazione da residui carboniosi è stato studiato a fondo, essendo uno dei principali fattori che influenzano la vita del catalizzatore e di conseguenza l'applicabilità processo. Alimentando molecole modello separatamente, è stato possibile discriminare le classi di composti che sono coinvolti principalmente nella produzione di H2 o nell’avvelenamento del catalizzatore. Una riduzione parziale della velocità di disattivazione è stata ottenuta modulando l'acidità del catalizzatore al fine di ottimizzare le condizioni di reazione. I catalizzatori Pt-Sn modificati hanno mostrato ottimi risultati in termini di attività, ma soffrono di una disattivazione rapida in presenza di zolfo. Così, la sfida finale di questa ricerca era sviluppare un sistema catalitico in grado di lavorare in condizioni reali con carburante ad alto tenore di zolfo, in questo campo sono stati studiati due nuove classi di materiali: Ni e Co fosfuri supportati su SiO2 e catalizzatori Pd-Pt/Al2O3.

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La Fondazione ANT rappresenta una delle più ampie esperienze al mondo di assistenza socio-sanitaria gratuita a domicilio ai malati di tumore, tramite équipe di specialisti costituite da medici, psicologi e infermieri. La patologia oncologica ha un enorme impatto sul benessere dei pazienti. Un modo per raggruppare i diversi sintomi di disagio psicologico è utilizzare il concetto di distress, che sarebbe importante monitorare in modo semplice e veloce. Primo studio: 66 pazienti oncologici (40% uomini; età media 54 anni) in cure palliative domiciliari. Il 79% dei pazienti ha mostrato livelli clinicamente significativi di distress. Il 55% dei partecipanti allo studio ha riportato alti livelli di ansia, e l'81% dei pazienti ha riportato alti livelli di depressione. Dall'analisi delle curve ROC il singolo item del Distress Thermometer, con un cut-off maggiore o uguale a 4, è stato in grado di rilevare il 97% dei soggetti con punteggi clinici di ansia e depressione, quindi può essere utilizzato anche come uno strumento di screening precoce rapido ed affidabile per i disturbi dell'umore. I familiari sono la prima risorsa dei malati di tumore, e l'identificazione dei loro bisogni è utile per individuare chi ha maggiore necessità di aiuto ed in quali aree. Secondo studio: 115 caregiver di pazienti oncologici (37% uomini; età media 52 anni). Di seguito i bisogni più frequenti. Salute psicofisica: “preoccupazioni circa il/la paziente” (72%), ansia (53%) e rabbia (52%). Informazioni: “come prendersi cura del paziente” (64%), “terapie alternative e/o complementari” (64%) e “come gestire lo stress” (57%). Servizi e strutture sanitarie: “un operatore di riferimento”, (65%), “cure infermieristiche a domicilio” (62%), “indicazioni su servizi ospedalieri” (57%), ed “assistenza per caregiver, ad esempio consulenza psicologica” (55%). Il monitoraggio dei bisogni consentirebbe un'ottimizzazione dell'assistenza, prevenendo situazioni che potrebbero compromettere il benessere della famiglia e la qualità dell'assistenza fornita al paziente.

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Le sostanze perfluoralchiliche (PFAS), composti fluorurati ampiamente utilizzati negli ultimi anni in diverse applicazioni industriali e commerciali, sono ritrovati diffusamente nell’ambiente e in diverse specie animali. Recentemente i PFAS hanno destato preoccupazione anche per la salute umana. Il rischio di esposizione è principalmente legato alla dieta (i prodotti ittici sembrano essere gli alimenti più contaminati). Lo scopo di questo lavoro è stato quello di valutare la presenza del perfluorottanosulfonato (PFOS) e dell’acido perfluorottanoico (PFOA), in diverse matrici alimentari: latte vaccino commercialmente disponibile in Italia, latte materno italiano, diverse specie di pesce commercialmente disponibili in Italia e 140 branzini di diverse aree (principalmente Mediterraneo). I campioni di latte sono stati trattati con estrazione liquido-liquido seguita da due fasi di purificazione mediante cartucce SPE prima dell’iniezione nell’UPLC-MS/MS. L’analisi del latte vaccino ha evidenziato una contaminazione diffusa di PFOS, ma a basse concentrazioni (fino a 97 ng/L), mentre il PFOA è stato ritrovato raramente. In questo studio, in grado di individuare anche i livelli delle ultra-tracce, sono state osservate nel latte materno concentrazioni di 15-288 ng/L per il PFOS e di 24-241 ng/LPFOA. Le concentrazioni e le frequenze più alte, per entrambi i PFAS, sono stati ritrovate in campioni di latte forniti da donne primipare, suggerendo un rischio di esposizione per i primogeniti. Il metodo utilizzato per i campioni di pesce era basato su un’estrazione con solvente organico seguita da due fasi di purificazione: una con i sali e una con fase solida dispersiva. L’estratto, analizzato in UPLC-MS/MS, ha confermato la contaminazione di questa matrice a livelli significativi, ma anche l’alta variabilità delle concentrazioni misurate. Il monitoraggio monospecie ha mostrato una contaminazione rilevante (PFOS 11,1- > 10000 ng/L; PFOA < 9-487 ng/L), soprattutto nei branzini pescati, rispetto a quelli allevati.

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La Sindrome da Immunodeficienza Acquisita (AIDS o SIDA) causata da HIV-1 (Virus dell'Immunodeficienza umana) è caratterizzata dalla graduale compromissione del sistema immunitario del soggetto colpito. Le attuali terapie farmacologiche, purtroppo, non riescono a eliminare l'infezione a causa della comparsa di continui ceppi resistenti ai farmaci, e inoltre questi trattamenti non sono in grado di eliminare i reservoir virali latenti e permettere l'eradicazione definitiva del virus dall’organismo. E' in questo ambito che si colloca il progetto a cui ho lavorato principalmente in questi anni, cioè la creazione di una strategia per eradicare il provirus di HIV integrato nel genoma della cellula ospite. L'Integrasi di HIV-1 è un enzima che media l'integrazione del cDNA virale nel genoma della cellula ospite. La nostra idea è stata, quindi, quella di associare all'attività di legame dell'IN stessa, un'attività catalitica. A tal fine abbiamo creato una proteina chimerica costituita da un dominio DNA-binding, dato dall'Integrasi, e da un dominio con attività nucleasica fornito dall'enzima FokI. La chimera ottenuta è stata sottoposta a mutagenesi random mediante UV, ed è stata oggetto di selezione in vivo, al fine di ottenere una chimera capace di riconoscere, specificamente le LTR di HIV-1, e idrolizzare i siti di inserzione. Questo lavoro porterà a definire pertanto se l'IN di HIV può essere riprogrammata a catalizzare una nuova funzione mediante la sostituzione dell'attività del proprio dominio catalitico con quello di FokI.

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Microparticelle a base di complessi polielettrolitici di Chitosano/Pectina per il rilascio nasale di Tacrina cloridrato. Lo scopo di questo studio è stata la ricerca di nuove formulazioni solide per la somministrazione nasale di Tacrina cloridrato allo scopo di ridurre l’eccessivo effetto di primo passaggio epatico ed aumentarne la biodisponibilità a livello del Sistema Nervoso Centrale. La Tacrina è stata incapsulata in microparticelle mucoadesive a base di complessi elettrolitici di chitosano e pectina. Le microparticelle sono state preparate mediante due diversi approcci tecnologici (spray-drying e spray-drying/liofilizzazione) e analizzate in termini di caratteristiche dimensionali, morfologiche e chimico-fisiche. Nanoparticelle di Chitosano reticolate con Sodio Cromoglicato per il trattamento della rinite allergica. Il Sodio Cromoglicato è uno dei farmaci utilizzati per il trattamento della rinite allergica. Come noto, la clearance mucociliare provoca una rapida rimozione dei farmaci in soluzione dalla cavità nasale, aumentando così il numero di somministrazioni giornaliere e, di conseguenza, riducendo la compliance del paziente. Per ovviare a tale problema, si è pensato di includere il sodio cromoglicato in nanoparticelle di chitosano, un polimero capace di aderire alla mucosa nasale, prolungare il contatto della formulazione con il sito di applicazione e ridurre il numero di somministrazioni giornaliere. Le nanoparticelle ottenute sono state caratterizzate in termini di dimensioni, resa, efficienza di incapsulazione e caricamento del farmaco, potenziale zeta e caratteristiche mucoadesive. Analisi quantitativa di Budesonide amorfa tramite calorimetria a scansione differenziale. È stato sviluppato un nuovo metodo quantitativo allo stato solido basato sulla Calorimetria a Scansione Differenziale (DSC) in grado di quantificare in modo selettivo e accurato la quantità di Budesonide amorfa presente in una miscela solida. Durante lo sviluppo del metodo sono stati affrontati problemi relativi alla convalida di metodi analitici su campioni solidi quali la miscelazione di polveri solide per la preparazione di miscele standard e il calcolo della precisione.

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L’attività di ricerca della presente tesi di dottorato ha riguardato sistemi tribologici complessi di interesse industriale per i quali sono stati individuati, mediante failure analysis, i meccanismi di usura dominanti. Per ciascuno di essi sono state studiate soluzioni migliorative sulla base di prove tribologiche di laboratorio. Nella realizzazione di maglie per macchine movimentazione terra sono ampiamente utilizzati i tradizionali acciai da bonifica. La possibilità di utilizzare i nuovi microlegati a medio tenore di carbonio, consentirebbe una notevole semplificazione del ciclo produttivo e benefici in termini di costi. Una parte della tesi ha riguardato lo studio del comportamento tribologico di tali acciai. E’ stato anche affrontato lo studio tribologico di motori idraulici, con l’obiettivo di riuscire a migliorarne la resistenza ad usura e quindi la vita utile. Sono state eseguite prove a banco, per valutare i principali meccanismi di usura, e prove di laboratorio atte a riprodurre le reali condizioni di utilizzo, valutando tecniche di modificazione superficiale che fossero in grado di ridurre l’usura dei componenti. Sono state analizzate diverse tipologie di rivestimenti Thermal Spray in termini di modalità di deposizione (AFS-APS) e di leghe metalliche depositate (Ni,Mo,Cu/Al). Si sono infine caratterizzati contatti tribologici nel settore del packaging, dove l’utilizzo di acciai inox austenitici è in alcuni casi obbligatorio. L’acciaio inossidabile AISI 316L è ampiamente utilizzato in applicazioni in cui siano richieste elevate resistenze alla corrosione, tuttavia la bassa resistenza all’usura, ne limitano l’impiego in campo tribologico. In tale ambito, è stata analizzata una problematica tribologica relativa a macchine automatiche per il dosaggio di polveri farmaceutiche. Sono state studiate soluzioni alternative che hanno previsto sia la completa sostituzione dei materiali della coppia tribologica, sia l’individuazione di tecniche di modificazione superficiale innovative quali la cementazione a bassa temperatura anche seguita dalla deposizione di un rivestimento di carbonio amorfo idrogenato a-C:H

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Il trattamento dell’osteoartrosi (OA) del cane è una sfida nella pratica clinica veterinaria. Molti trattamenti sono stati proposti, tuttavia la risposta clinica agli stessi non è sempre soddisfacente. Molti farmaci sono utilizzati per il trattamento dell’OA, tra cui farmaci anti-infiammatori non steroidei, corticosteroidi, ed inibitori della produzione dell’ossido nitrico. Lo stanozololo è un derivato sintetico del testosterone; oltre alle sue proprietà anaboliche/androgeniche , a basse dosi lo stanozololo ha un affinità per i recettori glucocorticoidi. Per questa attività antinfiammatoria e rigenerativa sui tessuti articolari danneggiati viene utilizzato nella degenerative joint desease del cavallo. Lo scopo di questo studio è stato di valutare l’efficacia clinica dello stanozololo intra-articolare a 15, 30, 45 e 60 giorni dal trattamento di gomiti con OA di cane. E’ stato eseguito uno studio cieco, multicentrico e randomizzato. Previo consenso informato, sono stati arruolati 48 cani, suddivisi in 3 gruppi e trattati con stanozololo, mavacoxib e con entrambi i farmaci. Sono state valutate zoppia, tollerabilità del trattamento, range of motion, e punteggio radiografico. Inoltre sono state stabilite e annoverate quantità e qualità del liquido sinoviale. Ai dati ottenuti sono stati applicati i test di Kruskal-Wallis, Chi-quadro e Fischer, i quali hanno dimostrato l’efficacia della terapia nei singoli gruppi e tra i diversi gruppi di studio. I risultati ottenuti hanno mostrato la riduzione di almeno un grado di zoppia e la riduzione della progressione dell’OA nei casi trattati con stanozololo. Si può quindi affermare che tale molecola per via intra-articolare può essere una valida alternativa per il trattamento dell’OA di gomito nel cane.

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La demolizione idrolitica delle pareti cellulari delle piante tramite enzimi lignocellulosici è quindi uno degli approcci più studiati della valorizzazione di scarti agricoli per il recupero di fitochimici di valore come secondary chemical building block per la chimica industriale. White rot fungi come il Pleurotus ostreatus producono una vasta gamma di enzimi extracellulari che degradano substrati lignocellulosici complessi in sostanze solubili per essere utilizzati come nutrienti. In questo lavoro abbiamo studiato la produzione di diversi tipi di enzimi lignocellulosici quali cellulase, xilanase, pectinase, laccase, perossidase e arylesterase (caffeoilesterase e feruloilesterase), indotte dalla crescita di Pleurotus ostreatus in fermentazione allo stato solido (SSF) di sottoprodotti agroalimentari (graspi d’uva, vinaccioli, lolla di riso, paglia di grano e crusca di grano) come substrati. Negli ultimi anni, SSF ha ricevuto sempre più interesse da parte dei ricercatori, dal momento che diversi studi per produzioni di enzimi, aromi, coloranti e altre sostanze di interesse per l' industria alimentare hanno dimostrato che SSF può dare rendimenti più elevati o migliorare le caratteristiche del prodotto rispetto alla fermentazione sommersa. L’utilizzo dei sottoprodotti agroalimentari come substrati nei processi SSF, fornisce una via alternativa e di valore, alternativa a questi residui altrimenti sotto/o non utilizzati. L'efficienza del processo di fermentazione è stato ulteriormente studiato attraverso trattamenti meccanici di estrusione del substrato , in grado di promuovere il recupero dell’enzima e di aumentare l'attività prodotta. Le attività enzimatiche prodotte dalla fermentazione sono strettamente dipendente della rimozione periodica degli enzimi prodotti. Le diverse matrici vegetali utilizzate hanno presentato diversi fenomeni induttivi delle specifiche attività enzimatiche. I processi SSF hanno dimostrato una buona capacità di produrre enzimi extracellulari in grado di essere utilizzati successivamente nei processi idrolitici di bioraffinazione per la valorizzazione dei prodotti agroalimentari.

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Introduzione: L’indicazione alla rivascolarizzazione carotidea è comunemente posta in base alla percentuale di stenosi, alla presenza di sintomi neurologici ed alle condizioni cliniche del paziente. Una placca ad elevato potenziale embolico viene definita “vulnerabile”; la sua caratterizzazione, tuttavia, non è universalmente accettata ai fini della rivascolarizzazione. Lo scopo dello studio è indagare il ruolo del mezzo di contrasto ecografico (CEUS) nell’identificazione della placca carotidea vulnerabile. Materiali e Metodi: I pazienti sottoposti a endoarterectomia carotidea, sono stati valutati mediante TC cerebrale preoperatoria e CEUS. Le microbolle di contrasto rilevate nella placca, indicative di neovascolarizzazione, sono state quantificate in dB-E ed istologicamente valutate per cinque caratteristiche: (densità dei microvasi, spessore del cappuccio fibroso, estensione delle calcificazioni, infiltrato infiammatorio e core lipidico) il valore da 1 a 5, ottenuto in cieco, indica in grado di vulnerabilità della placca. L'ANOVA test, il test di Fisher e t Student sono stati usati per correlare le caratteristiche dei pazienti ed istologiche col valore di dB-E. Risultati: Di 22 pazienti (range 2-7.8, media 4.85 ±1.9 SD) vi era un numero più alto di sintomatici (7.40 ± 0.5) rispetto agli asintomatici (3.5 ± 1.4) (p = 0.002). Un più alto valore di dB-E si associava con la presenza di un sottile cappuccino fibroso (<200 µm, 5.96±1.5 vs. 3 ± 1,p = 0.01) ed un maggiore infiltrato infiammatorio (3.2 ± 0.9 vs. 6.4 ± 1.2, p = 0.03). Placche con vulnerabilità 5 si associavano ad un valore più alto di dB-E rispetto alle placche con vulnerabilità 1 (7.6 ± 0.2 vs. 2.5 ± 0.6, rispettivamente, p=0.001). Preoperatoriamente, le lesioni emboliche ipsilaterali alla TC, correlavano con un più alto valore di dB-E (5.96±1.5 vs. 3.0±1.0, p=0.01). Conclusioni: Il valore di dB-E alla CEUS indica l’estensione della neovascolarizzazione della placca carotidea e può essere utilizzato come marker di vulnerabilità della placca.

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Il presente studio ha indagato e valutato alcune abilità cognitive del cane: la capacità di discriminare quantità e le capacità di apprendimento mediante imitazione; quest’ultima è poi stata messa in relazione con l’attaccamento nei confronti del proprietario. Per l’esecuzione della prima indagine sono stati messi appunto due test: il primo si è basato esclusivamente sulla presentazione di uno stimolo visivo: diversi quantitativi di cibo, differenti tra loro del 50%, sono stati presentati al cane; la scelta effettuata dai soggetti testati è stata premiata con differenti tipi di rinforzo differenziale o non differenziale. Il secondo test è stato diviso in due parti: sono stati presentati al cane diversi quantitativi di cibo sempre differenti tra loro del 50% ma nella prima parte del test l’input sensoriale per il cane è stato esclusivamente uditivo mentre nella seconda parte è stato sia uditivo che visivo. Ove è stato possibile è stato applicato ai cani un cardiofrequenzimetro al fine di eseguire una valutazione delle variazioni della frequenza cardiaca nel corso del test. Lo scopo è stato quello di valutare se i soggetti testati erano in grado di discriminare la quantità maggiore. La seconda indagine ha analizzato le capacità di apprendimento di 36 soggetti che sono stati suddivisi in cani da lavoro e pet. I soggetti protagonisti dello studio hanno eseguito il Mirror Test per la valutazione dell’apprendimento per imitazione. I soggetti presi in considerazione, sono stati sottoposti a scansione termografica all’inizio ed al termine del test ed è stata rilevata la loro frequenza respiratoria nella fase iniziale e finale del test. In 11 soggetti che hanno eseguito il precedente test è stato possibile eseguire anche il Strange Situation Test per la valutazione dell’attaccamento al proprietario; i test in questione sono stati videoregistrati ed analizzati per mezzo di un software preposto (OBSERVER XT 10).