163 resultados para Satira,Politica,Maurizio Crozza,Storia
Resumo:
Questa ricerca mostra l’evoluzione della letteratura mitologica per ragazzi in Italia. Il primo libro italiano di mitologia per bambini è stato pubblicato nel 1911 (lo stesso anno di un’importante e violenta guerra coloniale tra l’Italia e la Libia): la scrittrice italiana Laura Orvieto pubblicò allora “Storie della storia del mondo”, in cui riunì antichi racconti greci per giovani lettori. Queste storie erano ispirate al libro mitologico per bambini “Il libro delle meraviglie” di Hawthorne (titolo originale “A Wonder Book for Girls and Boys”). In seguito molti scrittori italiani scrissero libri mitologici per giovani lettori: serie importanti di libri di mitologia per bambini furono pubblicate durante il regime mussoliniano – talvolta per diffondere l’ideologia fascista della superiorità romana. Durante questo periodo, i libri mitologici spesso mostravano uno stile letterario solenne. Dopo la seconda guerra mondiale, la letteratura mitologica per bambini cambiò lentamente prospettiva: gli scrittori italiani cominciarono ad usare il mito per parlare di problemi sociali (p.e. Gianni Rodari descriveva re Mida come un capitalista) e per spiegare le diverse condizioni umane (p.e. Beatrice Masini fa riferimento alle dee e alle eroine greche per descrivere la condizione femminile). La ricerca analizza anche la relazione tra mito e scuola in Italia: i racconti mitologici hanno sempre fatto parte dei programmi scolastici italiani per bambini dagli 8 agli 11 anni. Le riforme scolastiche – deliberate negli anni ’20 e ’40 – fissarono pratiche didattiche sui miti ancora oggi in uso. I racconti mitologici erano soprattutto un supporto per gli studi storici e letterari. Tuttavia, negli ultimi decenni, i miti sono divenuti un importante aiuto per gli insegnamenti scientifici e artistici.
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The aim of this proposal is to explain the paradigm of the American foreign policy during the Johnson Administration, especially toward Europe, within the NATO framework, and toward URSS, in the context of the détente, just emerged during the decade of the sixties. During that period, after the passing of the J. F. Kennedy, President L. B. Johnson inherited a complex and very high-powered world politics, which wanted to get a new phase off the ground in the transatlantic relations and share the burden of the Cold war with a refractory Europe. Known as the grand design, it was a policy that needed the support of the allies and a clear purpose which appealed to the Europeans. At first, President Johnson detected in the problem of the nuclear sharing the good deal to make with the NATO allies. At the same time, he understood that the United States needed to reassert their leadeship within the new stage of relations with the Soviet Union. Soon, the “transatlantic bargain” became something not so easy to dealt with. The Federal Germany wanted to say a word in the nuclear affairs and, why not, put the finger on the trigger of the atlantic nuclear weapons. URSS, on the other hand, wanted to keep Germany down. The other allies did not want to share the onus of the defense of Europe, at most the responsability for the use of the weapons and, at least, to participate in the decision-making process. France, which wanted to detach herself from the policy of the United States and regained a world role, added difficulties to the manage of this course of action. Through the years of the Johnson’s office, the divergences of the policies placed by his advisers to gain the goal put the American foreign policy in deep water. The withdrawal of France from the organization but not from the Alliance, give Washington a chance to carry out his goal. The development of a clear-cut disarm policy leaded the Johnson’s administration to the core of the matter. The Non-proliferation Treaty signed in 1968, solved in a business-like fashion the problem with the allies. The question of nuclear sharing faded away with the acceptance of more deep consultative role in the nuclear affairs by the allies, the burden for the defense of Europe became more bearable through the offset agreement with the FRG and a new doctrine, the flexible response, put an end, at least formally, to the taboo of the nuclear age. The Johnson’s grand design proved to be different from the Kennedy’s one, but all things considered, it was more workable. The unpredictable result was a real détente with the Soviet Union, which, we can say, was a merit of President Johnson.
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Scopo dell’elaborato risulta l’analisi del rapporto tra atto politico e motivazione politica. Partendo da una ricostruzione storica, l’obiettivo del lavoro è mettere in luce i profili problematici ed i riflessi che l’atto politico – tema apparentemente sopito tanto a livello dottrinale, quanto giurisprudenziale - ricomincia, soprattutto grazie a un certo numero di recenti pronunce dei giudici amministrativi, ad avere, fornendo nuovi spunti di riflessione. Proprio questa nuova tendenza giurisprudenziale, diventa l’oggetto di analisi del terzo capitolo. In esso si esamina il repertorio di casistica giurisprudenziale in materia di atti di alta amministrazione. In breve, tale capitolo viene orientato all’esame di tutte quelle tipologie di atti emergenti dalla valutazione caso per caso effettuata dalla giurisprudenza che, nel tempo, sono state fatte rientrare nel novero degli atti di alta amministrazione, al fine di mettere in evidenza la necessità di un riequilibrio della categoria dell’atto di alta amministrazione, che ormai sembra non apparire più rispondente alla ratio della sua previsione, verso l’emersione di una nuova categoria: il provvedimento amministrativo a motivazione politica. In particolare, si sostiene come non si possano ritenere rientranti tra gli atti di alta amministrazione quegli atti a carattere puntuale a motivazione politica, cioè sorretti da ragioni di fiduciarietà politica, quali, ad esempio, le nomine di carattere fiduciario, strettamente informate dalla contingenza politica. Evidentemente, se tale base giustificativa costituisce la ratio sottesa alla legittimità di tali nomine, non si comprende la ragione per cui l’atto di revoca degli incarichi derivanti da tali nomine sia sottoposto ad un sindacato di ragionevolezza cui sfugge la nomina stessa da cui origina. Ed allora non può non ammettersi che anche l’atto di revoca possa essere sorretto da una motivazione politica perché, altrimenti, perderebbe ragione d’essere anche la nomina stessa. La corrispondenza di disciplina tra nomina e revoca si renderebbe necessaria in quanto, in caso contrario, risulterebbero vanificate fin dall’inizio le esigenze garantiste da assicurare ai singoli e si rischierebbe di bloccare il corretto esercizio della funzione di governo. Si propone, allora, la prospettazione della nuova categoria del provvedimento amministrativo a motivazione politica come quella categoria che, contraddistinta dal carattere della fiduciarietà, venga in soccorso agli organi politici per un recupero effettivo del loro ruolo senza impingere con le esigenze di tutela dei singoli. L’ultimo capitolo della tesi, quindi, si incentra su “Il provvedimento a motivazione politica: una nuova categoria della politicità”. Si tenta di ricostruirne il particolare regime di disciplina, mettendo in evidenza i limiti e le deroghe alle previsioni della l. n. 241/1990, nonchè la peculiarietà di ritenere integrato il requisito della motivazione nella forma del “venir meno della fiducia”. Scopo dell’ultima parte del lavoro diviene, quindi, quello di comprendere quale volto assume la politicità degli atti nell’ordinamento contemporaneo. Si ipotizzano, infatti, tre facce della politicità degli atti, dislocate su tre diversi livelli: atto politico, atto di alta amministrazione e provvedimento amministrativo a motivazione politica.
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In un arco temporale che copre il decennio settanta, ma che si spinge fino ad analizzare anche il dibattito italiano odierno, la presente ricerca ricostruisce i passaggi attraverso i quali l’aborto, da pratica clandestina, è diventato un “fatto” che ha creato e cambiato l’opinione pubblica italiana. Non si tratta di una ricostruzione cronologica pura e semplice, ma quello che si propone è un percorso che procede per temi, utilizzando una particolare chiave di lettura delle fonti giornalistiche e degli atti parlamentari che documentano la costruzione complessiva del discorso. In tale prospettiva, un particolare rilievo assumono alcuni momenti della storia italiana che, nell’arco del decennio, hanno favorito l’immissione di un argomento così complesso, delicato e inusuale come il corpo riproduttivo delle donne sulla scena pubblica, facendone un tema da agenda politica dei partiti. Tra gli eventi più significativi che la ricerca individua certamente il processo a Gigliola Pierobon, avvenuto a Padova nel 1973, di cui si propone una lettura attraverso la chiave interpretativa dell’affaire. Si tratta di una forma di costruzione discorsiva di un “fatto di legge” codificata da Voltaire nel XVIII secolo e ripresa attraverso gli studi dell’antropologa Elisabeth Claverie e del sociologo Luc Boltanski , che applicano in maniera diacronica il concetto di “affaire” a diverse “situazioni di conflitto”, strutturando in tal modo il concetto di “verità contro la legge” . La ricerca è stata condotta utilizzando sia fonti giornalistiche che da diversi punti di vista, hanno fotografato e “tradotto” per l’opinione pubblica il dibattito culturale e politico sul tema dei diritti riproduttivi, sia utilizzando gli atti parlamentari ufficiali , cioè le trascrizioni delle sedute del dibattito alla Camera e al Senato che tra il 1976 e il 1978 hanno creato i presupposti per la nascita della legge 194.
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L’idea iniziale di questo lavoro era di tentare un approccio ad una tematica che, per la cronologia scelta, era stata decisamente poco studiata. Il Quattrocento e gli arcivescovi di Ravenna sembravano formare una diade promettente per i risultati che avrebbe potuto dare in termini di riscoperta dell’antico in ambito urbano, di rinascita umanistica e dei valori culturali che, nel particolare deposito memoriale ravennate, avrebbe potuto configurarsi in maniera particolarmente interessante dati i caratteri di unicità che la città – già imperiale, regia ed esarcale – porta inscritti nella sua identità. Le fonti primarie, rivolte all’analisi della politica degli arcivescovi ravennati per la conservazione e l’innovazione della facies urbana cittadina e ricercate anche all’interno del quadro istituzionale/amministrativo e culturale veneziano e della Ferrara estense, dalla cui società e cultura provengono i più importanti arcivescovi ravennati del periodo, hanno restituito il riflesso di una identità cittadina e urbica indebolita. Una difficoltà oggettiva è venuta da un carattere costante delle consuetudini clericali del tempo, la non residenza del presule nella sua chiesa locale, cui neppure il vescovo ravennate ha fatto eccezione. L’ipotesi di partenza finisce dunque per essere sfumata: le dinamiche della gestione e conservazione del patrimonio monumentale e artistico della città non appaiono più in mano all’arcivescovo, ma ad una pluralità di amministratori ed utilizzatori anche del frammentato mondo ecclesiale cittadino. Vengono peraltro messe in luce le attitudini e la sensibilità tutta umanistica di taluni vescovi – Bartolomeo Roverella in particolare -, qualità che non paiono estendersi fuori dalla vita personale dei presuli e meno ancora fino alla città della loro diocesi, ma che indagate in maniera organica e legate alle testimonianze materiali fino ad oggi disperse e per la prima volta riunite nel presente lavoro, apportano nuova luce e aprono la strada a ulteriori lavori di approfondimento.
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La specificità dell'acquisizione di contenuti attraverso le interfacce digitali condanna l'agente epistemico a un'interazione frammentata, insufficiente da un punto di vista computazionale, mnemonico e temporale, rispetto alla mole informazionale oggi accessibile attraverso una qualunque implementazione della relazione uomo-computer, e invalida l'applicabilità del modello standard di conoscenza, come credenza vera e giustificata, sconfessando il concetto di credenza razionalmente fondata, per formare la quale, sarebbe invece richiesto all'agente di poter disporre appunto di risorse concettuali, computazionali e temporali inaccessibili. La conseguenza è che l'agente, vincolato dalle limitazioni ontologiche tipiche dell'interazione con le interfacce culturali, si vede costretto a ripiegare su processi ambigui, arbitrari e spesso più casuali di quanto creda, di selezione e gestione delle informazioni che danno origine a veri e propri ibridi (alla Latour) epistemologici, fatti di sensazioni e output di programmi, credenze non fondate e bit di testimonianze indirette e di tutta una serie di relazioni umano-digitali che danno adito a rifuggire in una dimensione trascendente che trova nel sacro il suo più immediato ambito di attuazione. Tutto ciò premesso, il presente lavoro si occupa di costruire un nuovo paradigma epistemologico di conoscenza proposizionale ottenibile attraverso un'interfaccia digitale di acquisizione di contenuti, fondato sul nuovo concetto di Tracciatura Digitale, definito come un un processo di acquisizione digitale di un insieme di tracce, ossia meta-informazioni di natura testimoniale. Tale dispositivo, una volta riconosciuto come un processo di comunicazione di contenuti, si baserà sulla ricerca e selezione di meta-informazioni, cioè tracce, che consentiranno l'implementazione di approcci derivati dall'analisi decisionale in condizioni di razionalità limitata, approcci che, oltre ad essere quasi mai utilizzati in tale ambito, sono ontologicamente predisposti per una gestione dell'incertezza quale quella riscontrabile nell'istanziazione dell'ibrido informazionale e che, in determinate condizioni, potranno garantire l'agente sulla bontà epistemica del contenuto acquisito.
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Il primo capitolo della tesi verte sull’ultimo anno di vita del Partito d’Azione, sulle modalità di partecipazione di Lombardi allo scontro elettorale del 1948 nelle liste del Fronte democratico popolare, e sul breve periodo di direzione ‘centrista’ del Psi a cavallo tra il 1948 e il 1949, quando Lombardi, appena entratovi, fu magna pars nel gruppo dirigente del partito. Il secondo capitolo abbraccia il periodo in cui Lombardi agì all’interno del Psi ‘morandiano’, o frontista: si è cercato di dare ragione sia dell’inserimento di Lombardi nelle logiche del frontismo socialista, sia della peculiarità di quell’inserimento negli ambiti privilegiati della politica economica e della politica estera. Oggetto del terzo capitolo è il ruolo giocato da Lombardi nella definizione delle linee guida dell’autonomismo socialista, un ruolo fattosi via via più pregnante a partire dal 1956, che ebbe la sua massima consacrazione col XXXIV Congresso del Psi, celebrato a Milano nel 1961: centrale in questo periodo la riflessione lombardiana sulle «riforme di struttura», un argomento che ci si è sforzati di inquadrare storicamente, sfuggendo dai luoghi comuni storiografici di cui spesso – con lodevoli eccezioni – è caduto vittima. Tali «riforme di struttura» Lombardi avrebbe voluto alla base dei governi di centro-sinistra. La tesi si chiude con un ultimo capitolo dedicato ad illustrare l’apporto di Lombardi al quarto Governo Fanfani e al primo Governo Moro, il ruolo da lui giocato nella loro nascita e il suo progressivo allontanamento da quell’esperimento che era stato, in gran parte, sua creatura.
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L’oggetto di studio dela tesi sono proprio le relazioni esistenti tra la Politica e la Pubblica Amministrazione dalla prospettiva dei dirigenti pubblici. Ancora più concretamente, l’analisi proposta si basa sull’articolazione di tale rapporto nel modello di funzione pubblica adottato in Italia e in Spagna. La tesi è strutturata in tre grandi capitoli. Il primo di essi verte, in generale, sullo studio delle relazioni tra la Politica e la Pubblica Amministrazione in Spagna. Il secondo capitolo, sarà destinato allo studio del rapporto tra politica e pubblica amministrazione in Italia, affrontato secondo una prospettiva storica. Nel terzo ed ultimo capitolo viene affrontato in modo dettagliato il regime giuridico del personale dirigente in vigore, così come appare delineato dopo la riforma realizzata dalla legge n. 15/2009, sviluppata attraverso il d.lgs. n. 150/2009, ovvero la cosiddetta riforma “Brunetta”.
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Intorno alla metà degli anni trenta la Spagna diventò il centro dell’attenzione del mondo e tutte le grandi potenze internazionali, vecchie e nuove, vennero coinvolte, in misura diversa, nella guerra civile. Già nell’agosto del 1936, un mese dopo l’esplosione del conflitto, tutti gli Stati più rappresentativi caldeggiavano l’ipotesi di una politica comune di “non intervento”. Il ruolo guida in tal senso venne assunto dal governo inglese, capace di dissuadere, in tempi estremamente rapidi, il governo frontista francese di Leon Blum dall’intento di sostenere economicamente e militarmente il legittimo governo repubblicano spagnolo. La preoccupazione che il conflitto potesse degenerare in uno scontro più generale fu quindi la ragione principale per la quale qualche settimana dopo nacque il “Comitato di Non Intervento”, cui aderirono ben ventisette nazioni europee tra cui Francia, Inghilterra, URSS, Italia, Germania e Portogallo. Il mio progetto di ricerca dottorale esamina il ruolo, le scelte ed i relativi dibattiti in merito all’unica grande potenza, gli Stati Uniti d’America, che, pur scegliendo di rimanere neutrale, si astenne dal partecipare al suddetto Comitato. In ambito statunitense particolare rilievo assumono due aspetti del dibattito politico sulla Spagna: il primo maturato in seno all’Amministrazione Roosevelt, il secondo elaborato dalla componente Liberal della coalizione del New Deal attraverso i settimanali, “The Nation” e “The New Republic”. Il confronto pubblico acceso dalla guerra civile spagnola fu infatti l’occasione per la società civile americana per dibattere apertamente e francamente circa l’opportunità e la capacità della nazione di assumere o meno un ruolo internazionale corrispondente al prestigio socio-economico in via di acquisizione a livello mondiale. Approfondire ed esaminare il dibattito sulla guerra civile spagnola negli USA significa dunque andare alla ricerca delle radici culturali di quello che sarà uno dei più vasti ed articolati confronti politici e teorici del ventesimo secolo: l’internazionalismo americano.
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La tesi di Marco Perez intitolata “Luis Arana e i veterani di Euzkeldun Batzokija: la corrente ortodossa del nazionalismo basco”, può essere considerata come la biografia politica di uno dei personaggi più importanti del nazionalismo basco. Il lavoro di ricerca si centra fondamentalmente sull'ispiratore del nazionalismo euskaldun (e cofondatore del Partido Nacionalista Vasco) e della corrente che ne accompagnò e sostenne l'azione politica. Euzkeldun Batzokija fu il nome dato al primo circolo del PNV, fondato da Luis e Sabino Arana nel 1894. Successivamente, gli statuti del circolo e i suoi membri veterani furono presi come modello del nazionalismo primordiale (che si pretendeva definire sull'esempio dell'Ordine gesuita). Sul piano organizzativo la tesi si divide in sette capitoli che ricostruiscono il percorso politico di Luis Arana, dai primi documenti del 1879 fino alle ultime lettere inviate negli anni quaranta. Si tratta di un lungo periodo, che comprende momenti diversi della storia spagnola (dalle guerre carliste alla Guerra Civile spagnola) e del movimento aranista. In questo senso, sulla base di una generale e comparata riflessione sul nazionalismo, si analizza il movimento basco nei suoi rapporti con la modernità. Una realazione costruita attraverso concetti “diacronicamente” legati a un passato mitico e leggendario e comunque subalterna ai rapporti di forza tra le correnti del PNV. La corrente ortodossa fece sempre riferimento al nazionalismo “originario” (definito dai fratelli Arana nei primi anni del movimento) che fu un'espressione regionale del nazionalcattolicesimo spagnolo. Fu proprio Luis Arana a ricordare la finalità religiosa ed etnica del nazionalismo basco, respingendo qualsiasi aggiornamento teorico e organizzativo del PNV, intesi come una grave violazione dell'ortodossia aranista.
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Il presente studio discute il concetto di “finzione teorica” di Michel de Certeau quale momento di raccordo tra letteratura e storiografia. La concezione dell’altro e dell’assente propria della mistica e il modello di temporalità della psicoanalisi sono riconosciute come matrici del suo pensiero.