78 resultados para Puré
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Obbiettivo: Valutazione delle eventuali differenze nel trattamento ortodontico di un gruppo di bambini con particolari necessità sanitarie (SHCN) rispetto ad un gruppo di bambini non diagnosticati con SHCN. Materiali e Metodi: Il gruppo campione (SHCN) è costituito da 50 bambini con SHCN. Il gruppo di controllo (NO SHCN) è costituito da 50 bambini non diagnosticati con SHCN pienamente corrispondenti per età, genere e tipo di apparecchio ortodontico utilizzato con i pazienti del gruppo di studio. I dati riguardanti i gruppi SHCN e NO SHCN sono stati analizzati in modo retrospettivo, valutando: - il punteggio pre- e post-trattamento e la riduzione finale dei valori dell'indice PAR (Peer Assessment Rating), della componente DHC (Dental Health Component) e della componente AC (Aesthetic Component) dell'indice IOTN (Orthodontic Treatment Need Index), - il numero di appuntamenti, - il numero di sedute semplici e complesse, - la durata complessiva del trattamento, - l'età all’inizio ed alla fine della terapia. Risultati: Non sono state rilevate differenze statisticamente significative tra i due gruppi per quanto concerne il numero di appuntamenti, la durata complessiva del trattamento, l'età all’inizio ed alla fine della terapia ortodontica (valori del p-value:0.682, 0.458, 0.535, 0.675). Sono state rilevate differenze statisticamente significative tra i due gruppi per quanto riguarda i punteggi dell’indice PAR, delle componenti DHC e AC dello IOTN pre- e post-trattamento, il numero di sedute semplici e complesse (valori del p-value:0.030, 0.000, 0.020, 0.023, 0.000, 0.000, 0.043, 0.037). Per quanto concerne la riduzione finale del valore dell’indice PAR, della componente DHC e di quella AC dello IOTN non sono state riscontrate differenze statisticamente significative tra i due gruppi (valori del p-value:0.060, 0.765, 0.825). Conclusioni: Lo studio incoraggia gli ortodontisti a trattare i bambini con SHCN nell'obiettivo di migliorarne la qualità di vita, pur evidenziando la necessità di un maggior numero di sedute complesse.
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Basata sul reperimento di un’ampia mole di testi giornalistici (come cronache, interviste, elzeviri e articoli di “Terza”) dedicati alle pratiche coreiche e pubblicati in Italia nel corso del ventennio fascista, la tesi ricostruisce i lineamenti di quello che, seppure ancora embrionale e certo non specialistico, si può comunque ritenere una sorta di “pensiero italiano” sulla danza del Primo Novecento. A partire dalla ricognizione sistematica di numerose testate quotidiane e periodiche e, pertanto, dalla costruzione di un nutrito corpus di fonti primarie, si è proceduto all’analisi dei testi reperiti attraverso un approccio metodologico che, fondamentalmente storiografico, accoglie tuttavia alcuni rudimenti interpretativi elaborati in ambito semiotico (con particolare riferimento alle teorizzazioni di Jurij Lotman e Umberto Eco), il tutto al fine di cogliere, pur nell’estrema varietà formale e contenutistica offerta dal materiale documentario, alcune dinamiche culturali di fondo attraverso le quali disegnare, da un lato, il panorama delle tipologie di danza effettivamente praticate sulle scene italiane del Ventennio,e, dall’altro, quello dell’insieme di pensieri, opinioni e gusti orbitanti attorno ad esse Ne è scaturita una trattazione fondamentalmente tripartita in cui, dopo la messa in campo delle questioni metodologiche, si passa dapprima attraverso l’indagine dei tre principali generi di danza che, nella stampa del periodo fascista, si ritenevano caratteristici della scena coreica internazionale – qui definiti nei termini di “ballo teatrale”, “ballo russo” e “danze libere” – e, successivamente, si presenta un approfondimento su tre singolari figure di intellettuali che, ognuno con un’attitudine estremamente personale, hanno dedicato alla danza un’attenzione speciale: Anton Giulio Bragaglia, Paolo Fabbri e Marco Ramperti. Un’ampia antologia critica completa il lavoro ripercorrendone gli snodi principali.
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La prima parte del nostro studio riguarda la tecnica LAMP (Loop-mediated isothermal amplification), una tecnica di amplificazione isotermica recentemente inventata (Notomi et al., 2000). Essa presenta notevoli vantaggi rispetto alle tradizionali PCR: non necessita di strumentazioni sofisticate come i termociclatori, può essere eseguita da personale non specializzato, è una tecnica altamente sensibile e specifica ed è molto tollerante agli inibitori. Tutte queste caratteristiche fanno sì che essa possa essere utilizzata al di fuori dei laboratori diagnostici, come POCT (Point of care testing), con il vantaggio di non dover gestire la spedizione del campione e di avere in tempi molto brevi risultati paragonabili a quelli ottenuti con la tradizionale PCR. Sono state prese in considerazione malattie infettive sostenute da batteri che richiedono tempi molto lunghi per la coltivazione o che non sono addirittura coltivabili. Sono stati disegnati dei saggi per la diagnosi di patologie virali che necessitano di diagnosi tempestiva. Altri test messi a punto riguardano malattie genetiche del cane e due batteri d’interesse agro-alimentare. Tutte le prove sono state condotte con tecnica real-time per diminuire il rischio di cross-contaminazione pur riuscendo a comprendere in maniera approfondita l’andamento delle reazioni. Infine è stato messo a punto un metodo di visualizzazione colorimetrico utilizzabile con tutti i saggi messi a punto, che svincola completamente la reazione LAMP dall’esecuzione in un laboratorio specializzato. Il secondo capitolo riguarda lo studio dal punto di vista molecolare di un soggetto che presenza totale assenza di attività mieloperossidasica all’analisi di citochimica automatica (ADVIA® 2120 Hematology System). Lo studio è stato condotto attraverso amplificazione e confronto dei prodotti di PCR ottenuti sul soggetto patologico e su due soggetti con fenotipo wild-type. Si è poi provveduto al sequenziamento dei prodotti di PCR su sequenziatore automatico al fine di ricercare la mutazione responsabile della carenza di MPO nel soggetto indicato.
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La tesi analizza, sotto vari aspetti del diritto dell’Unione Europea, i servizi che sono offerti su spazi demaniali. Si articola in quattro capitoli: Il primo capitolo ricostruisce, valutandone l’impatto sui servizi che sono oggetto della presente indagine, lo sviluppo giurisprudenziale della Libertà di Stabilimento e della Libera Prestazione di Servizi, analizzando, altresì, i principi generali e l’art.16 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione. Il secondo capitolo è, invece, dedicato al diritto secondario, ossia alla Direttiva 2006/123/CE, alle Direttive “Appalti” e alla Direttiva “Concessioni”. La prima, che nulla aggiunge al quadro normativo trattato nel primo capitolo, svolge, pertanto una vera e propria funzione appaltante e concessoria. Le seconde, invece, seppur non applicabili alle fattispecie ivi esaminate, restano utili per comprendere quale declinazione possano avere i principi di eguaglianza, di non discriminazione, di trasparenza, di pubblicità e di concorrenza nella regolazione dei servizi offerti su spazi demaniali. La terza, invece, in quanto a rilevanza, presenta alcuni punti critici che fanno propendere per una sua non applicabilità. Resta comunque utile sempre in materia di principi, i quali, come evidenziato nell’ultima parte del secondo capitolo, sono stati utilizzati dalla Corte di Giustizia, pur nella totale assenza, fino alla recente direttiva, di strumenti di diritto secondario applicabili alle concessioni. Il terzo capitolo, invece, affronta le problematiche emerse all’interno dell’ordinamento italiano e attua una comparazione tra il sistema italiano e quello portoghese, croato, francese, spagnolo. Il quarto capitolo, da ultimo, prende in considerazione il delicato equilibrio, sempre più attuale, tra principi in materia di appalti pubblici e aiuti di Stato, valutando come, sia il permanere dello status quo, sia un riordino non conforme alla Direttiva 2006/123/CE e ai principi da essa richiamati possa costituire un aiuto di Stato incompatibile con il mercato interno.
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Questa tesi di dottorato, partendo dall’assunto teorico secondo cui lo sport, pur essendo un fenomeno periferico e non decisivo del sistema politico internazionale, debba considerarsi, in virtù della sua elevata visibilità, sia come un componente delle relazioni internazionali sia come uno strumento di politica estera, si pone l’obiettivo di investigare, con un approccio di tipo storico-politico, l’attività internazionale dello sport italiano nel decennio che va dal 1943 al 1953. Nello specifico viene dedicata una particolare attenzione agli attori e alle istituzioni della “politica estera sportiva”, al rientro dello sport italiano nel consesso internazionale e alla sua forza legittimante di attrazione culturale. Vengono approfonditi altresì alcuni casi relativi a «crisi politiche» che influirono sullo sport e a «crisi sportive» che influenzarono la politica. La ricerca viene portata avanti con lo scopo primario di far emergere, da un lato se e quanto coscientemente lo sport sia stato usato come strumento di politica estera da parte dei governi e della diplomazia dell’Italia repubblicana, dall’altro quanto e con quale intensità lo sviluppo dell’attività internazionale dello sport italiano abbia avuto significative ripercussioni sull’andamento e dai rapporti di forza della politica internazionale.
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Il fine principale della tesi è di dimostrare che il concetto di economia verde, pur non avendo natura giuridica, ha un rilievo notevole nel diritto dell’Unione europea, in particolare rispetto al mercato dei servizi. L’indagine concerne innanzitutto lo sviluppo sostenibile, del quale l’economia verde rappresenta uno strumento, per poi incentrarsi sul concetto di economia verde, al fine di ricostruire la sua veste giuridica e la sua collocazione nel diritto (primario) dell’Unione europea. In secondo luogo, si analizza come l’Unione stia utilizzando il proprio diritto per favorire la transizione verso un’economia verde e per stimolare la circolazione dei relativi servizi. Da ultimo, vengono prospettate le varie relazioni che si ritiene possano intercorrere tra l’economia verde (nella sua dimensione giuridica a livello sovranazionale) e la libera prestazione dei servizi.
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La ricerca si propone di analizzare una di quelle stagioni architettoniche controverse e lontane dalle internazionali strade maestre del nascente Neues Bauen: il romanticismo-nazionale svedese riletto attraverso l’esperienza del suo massimo esponente, Ragnar Östberg (1866-1945). L’obiettivo della tesi non è solamente quello di una revisione della critica storiografica, facendo così luce su una di quelle personalità considerate marginali, quanto quello di ricavare dalla lettura comparata di due tra i suoi progetti, fino ad ora mai indagati, quegli elementi che fanno dell’architettura un “fatto urbano” in cui la collettività può riconoscersi e parallelamente un fatto di rappresentazione della stessa. L’arcipelago di Stoccolma e quel processo di “renovatio urbis” a cui fu sottoposta proprio agli albori del XX secolo furono gli scenari in cui presero vita i due progetti: il complesso formato dallo Stockholms Stadshuset e la vicina parte mai realizzata del Nämndhuset, e villa Geber. Condensano due dimensioni che la città immersa nel paesaggio contiene: la natura urbana dell’edificio municipale e quella domestica della villa urbana isolata. La ricerca intesse un itinerario di disvelamento attraverso una matrice duale di lettura: “genius loci” e memorie urbane. I capitoli cercano di dimostrare come i due casi-studio siano espressione di quella pendolarità di ricerca tra lo spirito del luogo e le rimembranze delle forme urbane della tradizione. Questa analisi ci conduce in un viaggio alla ricerca dell’atlante delle “memorie urbane”, raccolte nei viaggi e nella formazione, comprendendo così il mondo analogico di riferimenti culturali con altre architetture europee della tradizione. I due progetti sorgono in opposte aree di espansione di Stoccolma e, pur nella loro diversità di scala, sono chiara espressione di appropriatezza al luogo e di strutture formali analoghe. Stockholm Stadshuset-Nämndhuset e villa Geber esprimono il metodo di Östberg, dove i riferimenti raccolti dall’imagination passive sono tramutati ed assemblati grazie alla imagination active.
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Nel tumore combinato epatocolangiocellulare (CHC) le componenti epatocitarie e colangiocitarie sono entrambe presenti. Obiettivo: valutare gli aspetti diagnostici radiologici e caratteristiche clinico-demografiche del CHC su cirrosi. Raccolti pazienti con CHC su cirrosi afferenti a due centri del Nord Italia (Bologna, S. Orsola-Malpighi e Milano,IRCCS Ca’ Granda Maggiore Hospital) tra 2003-2013, con diagnosi istologica di CHC. FASE 1:confronto tra ecografia con mdc (CEUS), TC cmdc e RM cmdc nella diagnosi e caratterizzazione dei noduli di CHC. Casistica di 35 pazienti e 37 noduli (due recidive CHC incluse). Mediana delle dimensioni: 25 mm. Non si è identificato un pattern contrastografico patognomonico per CHC. Pattern di enhancement arterioso ad anello periferico, suggestivo per forma colangiocitaria, atipico per HCC, presente nel 26%,50%,29% dei noduli a CEUS,TC,RM. La CEUS avrebbe portato a una errata diagnosi di HCC tipico in un numero maggiore di casi (48%) vs TC(15%,p=0.005), e RM(18%,p=0.080).L’indicazione della malignità del nodulo (presenza di wash-out dopo enhancement arterioso), era fornita con maggiore accuratezza da parte della CEUS(78%), vs TC (24%,p<0.0001) e RM(29%,p=0.002). FASE 2:analisi degli aspetti clinico-laboratoristici e prognostici del CHC e confronto tramite match 1:2 con HCC su cirrosi (36 CHC,72 HCC). Nel CHC correlano positivamente con sopravvivenza le terapie “curative” (trapianto, resezione chirurgica, terapie ablative percutanee a radiofrequenza/ alcolizzazione), stadio precoce alla diagnosi, dimensioni e essere in sorveglianza per diagnosi precoce di HCC. Correlano indipendentemente con sopravvivenza stadio precoce di malattia (unifocale, ≤ 2 cm) e essere in programma di sorveglianza(multivariata). Sopravvivenze del CHC sovrapponibili al gruppo HCC a 1 anno, e lievemente inferiori a 3/5 anni (81%, 39%, 21% vs 83%, 59% e 40%,p=0.78,p=0.080 e p=0.14). Sopravvivenza mediana per CHC (2.36 anni) inferiore vs HCC (4.09 anni) pur senza significatività statistica.
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La detenzione amministrativa degli stranieri, pur condividendo il carattere tipicamente afflittivo e stigmatizzante delle pene, non si fonda sulla commissione di un reato e non gode delle medesime garanzie previste dal sistema della giustizia penale. Nel nostro ordinamento l’inadeguatezza della legislazione, l’ampio margine di discrezionalità rimesso all’autorità di pubblica sicurezza, nonché il debole potere di sindacato giurisdizionale rimesso all’autorità giudiziaria, raggiungono il loro apice problematico nell’ambito delle pratiche di privazione della libertà personale che hanno per destinatari gli stranieri maggiormente vulnerabili, ossia quelli appena giunti sul territorio e il cui status giuridico non è ancora stato accertato (c.d. situazione di pre-admittance). E’ proprio sulla loro condizione che il presente lavoro si focalizza maggiormente. Le detenzioni de facto degli stranieri in condizione di pre-admittance sono analizzate, nel primo capitolo, a partire dal “caso Lampedusa”, descritto alla luce dell’indagine sul campo condotta dall’Autrice. Nel secondo capitolo viene ricostruito lo statuto della libertà personale dello straniero sulla base dei principi costituzionali e, nel terzo capitolo, sono analizzati i principi che informano il diritto alla libertà personale nell’ambito delle fonti sovranazionali, con particolare riferimento al diritto dell’Unione Europea e al sistema della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Sulla scorta dei principi indagati, nel quarto capitolo è tracciata l’evoluzione legislativa in materia di detenzione amministrativa dello straniero in Italia e, nel quinto capitolo, è approfondito il tema dei Centri dell’immigrazione e delle regole che li disciplinano. Nelle conclusioni, infine, sono tirate le fila del percorso tracciato, attraverso la valutazione degli strumenti di tutela in grado di prevenire le pratiche di privazione della libertà informali e di garantire uno standard minimo nella tutela della libertà individuale, anche nelle zone di frontiera del nostro ordinamento.
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Il rapporto di Antonio Canova con la società e la cultura inglese è da sempre considerato di fondamentale importanza, ma solo negli ultimi anni è stato oggetto di studi più approfonditi, tuttavia per lo più limitati alle vicende della committenza artistica: una riflessione che ambisse a tenere insieme le fila delle molteplici sfaccettature del tema ricostruendo ed interconnettendo tra loro gli aspetti alla base di questa relazione di mutuo arricchimento mancava ancora nella pur ricchissima bibliografia canoviana. Per poter intraprendere una simile indagine, si è preso le mosse dalla quanto mai corposa documentazione archivistica e dalle molte fonti a stampa dell'epoca, integralmente trascritte nelle quattro appendici a corredo di questo studio. Se ne sono tratti un piccolo dizionario biografico di tutte le personalità britanniche in rapporto con l'artista nell'arco della sua intera carriera ed un catalogo di oltre sessanta opere in vario modo legate alla committenza ed al collezionismo inglese. Nel saggio, invece, la disamina del tema in oggetto è stata condotta affrontandone in ciascun capitolo singoli aspetti distintivi: la committenza e la mutua influenza culturale; le relazioni politiche e diplomatiche intercorse tra Canova ed il Regno Unito attraverso la sua arte; lo straordinario favore goduto dallo scultore in terra inglese e le ragioni profonde della sua precoce sforuna critica; infine il suo rapporto con le arti figurative e letterarie britanniche, un ambito di ricerca complesso e relativamente originale per il quale si è avviata un'indagine introduttiva utile, si spera, ad impostare la ricerca per futuri approfondimenti. L'obiettivo perseguito, pertanto, è quello di gettare uno sguardo finalmente generale su di un fenomeno che, osservato nella sua interezza, può ancora spiegare moltissimo sulla figura e la carriera di Antonio Canova, personalità che appare, oggi più che mai, di statura europea.
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Questo progetto di ricerca si pone l'obiettivo di gettare luce sul commercio delle spezie nel Medioevo, a partire dai preziosi dati contenuti nei registri del dazio di Bologna (1388-1448), nei quali venivano raccolti tutti i prodotti afferenti al cosiddetto "dazio della mercanzia" che transitavano in città per poi proseguire il viaggio verso altre destinazioni. Nel Medioevo, Bologna rappresentava un importante snodo per collegare i principali empori del mare Adriatico (prima fra tutti Venezia) con i mercati della Toscana, come Firenze, Pisa e il suo sbocco marittimo, Porto Pisano, da cui le spezie salpavano in direzione di altre regioni europee, come la Francia, l'Inghilterra, la penisola iberica e le Fiandre. I quantitativi di spezie giornalieri, mensili, annuali e totali costituiscono un dato inedito ed inaspettato: infatti, un prodotto tradizionalmente descritto dalla storiografia come raro, prezioso e difficile da reperire, affluiva in realtà con sorprendente costanza e raggiungendo volumi molto elevati. Considerando che Bologna, nonostante la sua importanza nel panorama italiano, rappresentava pur sempre uno snodo "minore" nella complessa rete di circuiti commerciali su cui erano solite viaggiare le spezie (come le grandi rotte marittime, per esempio), questi quantitativi tanto elevati di spezie ci obbligano a riflettere su quanto detto sino ad ora sul commercio di questi prodotti nel Medioevo e a mettere i dati bolognesi a confronto con quelli provenienti da altre fonti. Affiancando al tradizionale metodo storiografico un approccio "empirico", che tenga conto delle caratteristiche materiali ed organolettiche delle spezie, nonché delle informazioni provenienti da un ampio numero di fonti – non necessariamente legate al periodo preso in esame – è possibile riaprire il dibattito attorno a questo tema, che ha ancora molto da offrire alla ricerca storico alimentare.
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La presente trattazione concerne gli European long-term investment fund, disciplinati dal regolamento UE 2015/760 del 29 aprile 2015, meglio noti come ELTIF, di cui si è inteso indagare i molteplici aspetti che attengono all’operatività degli stessi, dalla genesi sino alla fase della liquidazione. Trattandosi di uno dei più recenti tasselli della composita disciplina europea del risparmio gestito, si è ritenuto opportuno anzitutto prendere le mosse dall’evoluzione della regolamentazione, domestica e comunitaria, della gestione collettiva del risparmio, la quale rappresenta la “cornice” normativa di riferimento entro cui si colloca il veicolo in discorso. Definito il percorso evolutivo della disciplina de qua, si è posta quindi l’attenzione sulla regolamentazione degli ELTIF che, pur migliorabile sotto diversi profili, rappresenta un significativo passo in avanti nel senso della costruzione dell’Unione dei mercati di capitali e del rilancio dell’economia europea. In particolare, l’indagine ha riguardato anzitutto i connotati della nuova fattispecie (carattere europeo, orizzonte temporale di lungo periodo, illiquidità). L’analisi dei tratti fisiognomici è stata funzionale non solo a verificare se essi, nella loro peculiarità, siano o meno idonei a definire un tipo a sé stante di prodotto, ma altresì a valutare in che termini essi producano un effetto conformativo sulla disciplina del prodotto stesso, specie con riferimento alla fase dell’investimento e del disinvestimento. Con l’intento di vagliare l’opportunità di interventi sul dato normativo che mirino ad accrescere l’attrattività degli ELTIF, si è volta quindi l’attenzione alla fase finale della vita del fondo, in quanto l’esiguità della disciplina dettata con riferimento alla liquidazione si espone ad applicazioni dubbie che, in larga parte, lasciano spazio all’autonomia regolamentare del prodotto e, dunque, all’applicazione di discipline nazionali disomogenee; e ciò specie con riferimento a una peculiare ipotesi di liquidazione promossa dagli investitori in conseguenza del mancato soddisfacimento della richiesta di rimborso avanzata.
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Il Museo Monumento al Deportato politico e razziale nel Castello dei Pio a Carpi (MO), a pochi passi dal Campo nazionale della deportazione razziale e politica di Fossoli, è il risultato di un concorso pubblico nazionale bandito nel 1963, frutto dell’impegno civile tra istituzioni, associazioni e intellettuali. Tra questi il gruppo BBPR il quale, in collaborazione con l’artista Renato Guttuso, si aggiudicheranno la vittoria del concorso. Il progetto vincitore, pur apportando alcune modifiche in fase di realizzazione, manterrà la sua impostazione antiretorica, utilizzando un linguaggio rigoroso e astratto. Partendo dalle caratteristiche che rendono quest’opera una struttura unica nel suo genere, obiettivo principale di questa ricerca di Dottorato è quello di restituire una genealogia del Museo Monumento al Deportato politico e razziale dei BBPR, ricostruendo il quadro culturale e politico italiano nel lasso di tempo che intercorre dalla fine della Seconda Guerra Mondiale (1945) e l’anno della sua inaugurazione (1973). Tale approccio metodologico scelto costituisce l’aspetto di novità della ricerca: un punto di vista ancora inedito con cui guardare il Museo-Monumento, differenziandosi, così, dalle più recenti pubblicazioni sullo stesso, le quali si concentrano soprattutto sulle logiche progettuali del Museo. In conclusione, lo scopo di questa tesi è quella di dare una nuova chiave interpretativa al Museo, che sia non solo un arricchimento alla sua conoscenza ma che, altresì, attesti l’esistenza di un’identità, altrettanto unica e irripetibile, della memoria della deportazione nella cultura architettonica italiana presa in esame, frutto di una “cultura condivisa” tra architetti, artisti, scrittori, politici e intellettuali, accumunati dalle tragiche vicende che in quest’opera si vogliono narrare.
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Gli investimenti alle infrastrutture di trasporto sono stati per lungo tempo considerati misure di politica generale di competenza esclusiva degli Stati membri, nonostante il generale divieto di misure di sostegno pubblico a favore delle imprese ai sensi dell’art. 107 TFUE. Le sentenze rese dalle corti eurounitarie in relazione agli aeroporti di Parigi e di Lipsia Halle hanno dato avvio ad un vero e proprio revirement giurisprudenziale, in considerazione delle trasformazioni economiche internazionali, rimettendo in discussione il concetto di impresa, nonché la ferma interpretazione secondo cui il finanziamento alle infrastrutture – in quanto beni pubblici intesi a soddisfare i bisogni di mobilità dei cittadini – sfuggirebbe all’applicazione della disciplina degli aiuti di Stato. Nonostante le esigenze di costante ammodernamento e sviluppo delle infrastrutture, il nuovo quadro regolatorio adottato dall’Unione europea a seguire ha condotto inevitabilmente gli Stati membri a dover sottoporre al vaglio preventivo della Commissione ogni nuovo investimento infrastrutturale. La presente trattazione, muovendo dall’analisi della disciplina degli aiuti di Stato di cui agli artt. 107 e ss. TFUE, analizza i principi di creazione giurisprudenziale e dottrinale che derivano dall’interpretazione delle fonti primarie, mettendo in evidenza le principali problematiche giuridiche sottese, anche in considerazione delle peculiarità delle infrastrutture in questione, dei modelli proprietari e di governance, delle competenze e dei poteri decisionali in merito a nuovi progetti di investimento. Infine, la trattazione si concentra sui grandi progetti infrastrutturali a livello europeo e internazionale che interessano le reti di trasporto, analizzando le nuove sfide, pur considerando la necessità di assicurare, anche rispetto ad essi, la salvaguardia del cd. level playing field e l’osservanza sostanziale delle norme sugli aiuti di Stato.
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La tesi consiste in un saggio di edizione critica commentata dei frammenti pervenutici sotto il nome di Senofane di Colofone. Se la ricerca, negli ultimi anni, ha beneficiato di una raccolta aggiornata delle testimonianze su questo autore, per quanto concerne la sua produzione poetica un’acquisizione di tal sorta rimane tuttora un desideratum. A fronte dell’impossibilità di editare e commentare in maniera esaustiva tutte le testimonianze e i lacerti del corpus senofaneo (che, pur non molto numerosi, si caratterizzano per una vasta eterogeneità di problemi esegetici e critico-testuali), si sono privilegiati i frammenti elegiaci, forse il campo maggiormente bisognoso di indagini. L’elaborato si compone di tre sezioni principali. Nell’introduzione, dopo un inquadramento della dibattuta cronologia di Senofane e della sua variegata produzione poetica, si rivolge specifica attenzione a testimoni, forma, struttura, lingua e stile, metrica e prosodia dei frammenti elegiaci, allargando, ove possibile, l’indagine agli esametri stichici superstiti. Il testo critico dei lacerti sicuramente elegiaci, fondato su una rinnovata collazione dei testimoni (autoptica o su riproduzione digitale) e su un censimento il più possibile esaustivo dell’attività filologica dalle prime edizioni a stampa fino ai giorni nostri, è accompagnato da una traduzione di servizio e da un commento di carattere linguistico-filologico. Quattro appendici finali sono riservate ai frr. 21 G.-P. = 21 W., 13 G.-P. e 45 G.-P. = 41 W., che, pur non rubricabili con sicurezza fra i lacerti elegiaci, esibiscono con questi ultimi alcuni significativi punti di contatto.