288 resultados para Farmacologia clinica


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Il presente lavoro comincia con una descrizione dettagliata del “McMaster Model of Family Functionig” (MMFF), modello che al suo interno integra una teoria multidimensionale sul funzionamento familiare, diversi strumenti di auto ed etero valutazione e chiare indicazioni terapeutiche racchiuse all’interno della “Problem Centered System Therapy of the Family” (PCSTF). Grazie alla sua completezza il Modello fornisce ai clinici metodi coerenti, pratici ed empiricamente validi per valutare e trattare le famiglie, essi inoltre, sono stati formulati in modo da essere adattabili a differenti setting clinici e di ricerca, applicabili ad un’ampia gamma di problematiche e verificabili empiricamente. Obiettivo finale della presente ricerca è stato quello di porre le basi per l’esportazione del MMFF in Italia e poter quindi procedere alla sua applicazione in ambito clinico. La ricerca è cominciata alla Brown University con la traduzione dall’inglese all’italiano del Family Assessment Device (FAD), uno degli strumenti di autovalutazione compresi nel MMFF, ed è in seguito continuata con la validazione del suddetto strumento in un campione di 317 soggetti appartenenti alla popolazione generale italiana. Il FAD si è dimostrato uno strumento valido ed affidabile, in grado quindi di fornire valutazioni stabili e coerenti anche nella sua versione italiana. Il passo successivo è stato caratterizzato dalla somministrazione di FAD, Symptom Questionnaire (SQ) e delle Psychological Well-Being scales (PWB) a 289 soggetti reclutati nella popolazione generale. In accordo con il modello bipsicosociale che vede l’ambiente familiare come il più immediato gruppo di influenza psicosociale dello stato di benessere o malessere dell’individuo, i nostri dati confermano una stretta relazione tra scarso funzionamento familiare, spesso espresso attraverso difficoltà di comunicazione, di problem solving e scarso coinvolgimento affettivo e distress psicologico esperito con sintomi depressivi, ansiogeni ed ostilità. I nostri dati sottoliano inoltre come un funzionamento familiare positivo sia altamente correlato ad elevati livelli di benessere psicologico. Obiettivo della parte finale del lavoro ed anche il più importante, è stato quello di esplorare l’efficacia della Problem Centered Systems Therapy of the Family nella gestione della perdita di efficacia degli antidepressivi nel trattamento della depressione ricorrente. 20 soggetti con diagnosi di depressione maggiore ricorrente secondo il DSM-IV sono stati randomizzati a due diverse condizioni di trattamento: 1) aumento del dosaggio dell’antidepressivo e clinical management, oppure 2) mantenimento dello stesso dosaggio di antidepressivo e PCSTF. I dati di questo studio mettono in evidenza come, nel breve termine, PCSTF e farmacoterapia sono ugualmente efficaci nel ridurre la sintomatologia depressiva. Diversamente, ad un follow-up di 12 mesi, la PCSTF si è dimostrata altamente superiore all’aumento del farmaco ner prevenire le ricadute. Nel gruppo sottoposto all’aumento del farmaco infatti ben 6 soggetti su 7 ricadono entro l’anno. Nel gruppo assegnato a terapia familiare invece solo 1 soggetto su 7 ricade. Questi risultati sono in linea con i dati della letteratura che sottolineano l’elevata probabilità di una seconda ricaduta dopo l’aumento dell’antidepressivo all’interno di una farmacoterapia di mantenimento e suggeriscono l’efficacia dell’utilizzo di strategie psicoterapiche nella prevenzione della ricaduta in pazienti con depressione ricorrente.

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L’analisi del movimento umano ha come obiettivo la descrizione del movimento assoluto e relativo dei segmenti ossei del soggetto e, ove richiesto, dei relativi tessuti molli durante l’esecuzione di esercizi fisici. La bioingegneria mette a disposizione dell’analisi del movimento gli strumenti ed i metodi necessari per una valutazione quantitativa di efficacia, funzione e/o qualità del movimento umano, consentendo al clinico l’analisi di aspetti non individuabili con gli esami tradizionali. Tali valutazioni possono essere di ausilio all’analisi clinica di pazienti e, specialmente con riferimento a problemi ortopedici, richiedono una elevata accuratezza e precisione perché il loro uso sia valido. Il miglioramento della affidabilità dell’analisi del movimento ha quindi un impatto positivo sia sulla metodologia utilizzata, sia sulle ricadute cliniche della stessa. Per perseguire gli obiettivi scientifici descritti, è necessario effettuare una stima precisa ed accurata della posizione e orientamento nello spazio dei segmenti ossei in esame durante l’esecuzione di un qualsiasi atto motorio. Tale descrizione può essere ottenuta mediante la definizione di un modello della porzione del corpo sotto analisi e la misura di due tipi di informazione: una relativa al movimento ed una alla morfologia. L’obiettivo è quindi stimare il vettore posizione e la matrice di orientamento necessari a descrivere la collocazione nello spazio virtuale 3D di un osso utilizzando le posizioni di punti, definiti sulla superficie cutanea ottenute attraverso la stereofotogrammetria. Le traiettorie dei marker, così ottenute, vengono utilizzate per la ricostruzione della posizione e dell’orientamento istantaneo di un sistema di assi solidale con il segmento sotto esame (sistema tecnico) (Cappozzo et al. 2005). Tali traiettorie e conseguentemente i sistemi tecnici, sono affetti da due tipi di errore, uno associato allo strumento di misura e l’altro associato alla presenza di tessuti molli interposti tra osso e cute. La propagazione di quest’ultimo ai risultati finali è molto più distruttiva rispetto a quella dell’errore strumentale che è facilmente minimizzabile attraverso semplici tecniche di filtraggio (Chiari et al. 2005). In letteratura è stato evidenziato che l’errore dovuto alla deformabilità dei tessuti molli durante l’analisi del movimento umano provoca inaccuratezze tali da mettere a rischio l’utilizzabilità dei risultati. A tal proposito Andriacchi scrive: “attualmente, uno dei fattori critici che rallentano il progresso negli studi del movimento umano è la misura del movimento scheletrico partendo dai marcatori posti sulla cute” (Andriacchi et al. 2000). Relativamente alla morfologia, essa può essere acquisita, ad esempio, attraverso l’utilizzazione di tecniche per bioimmagini. Queste vengono fornite con riferimento a sistemi di assi locali in generale diversi dai sistemi tecnici. Per integrare i dati relativi al movimento con i dati morfologici occorre determinare l’operatore che consente la trasformazione tra questi due sistemi di assi (matrice di registrazione) e di conseguenza è fondamentale l’individuazione di particolari terne di riferimento, dette terne anatomiche. L’identificazione di queste terne richiede la localizzazione sul segmento osseo di particolari punti notevoli, detti repere anatomici, rispetto ad un sistema di riferimento solidale con l’osso sotto esame. Tale operazione prende il nome di calibrazione anatomica. Nella maggior parte dei laboratori di analisi del movimento viene implementata una calibrazione anatomica a “bassa risoluzione” che prevede la descrizione della morfologia dell’osso a partire dall’informazione relativa alla posizione di alcuni repere corrispondenti a prominenze ossee individuabili tramite palpazione. Attraverso la stereofotogrammetria è quindi possibile registrare la posizione di questi repere rispetto ad un sistema tecnico. Un diverso approccio di calibrazione anatomica può essere realizzato avvalendosi delle tecniche ad “alta risoluzione”, ovvero attraverso l’uso di bioimmagini. In questo caso è necessario disporre di una rappresentazione digitale dell’osso in un sistema di riferimento morfologico e localizzare i repere d’interesse attraverso palpazione in ambiente virtuale (Benedetti et al. 1994 ; Van Sint Jan et al. 2002; Van Sint Jan et al. 2003). Un simile approccio è difficilmente applicabile nella maggior parte dei laboratori di analisi del movimento, in quanto normalmente non si dispone della strumentazione necessaria per ottenere le bioimmagini; inoltre è noto che tale strumentazione in alcuni casi può essere invasiva. Per entrambe le calibrazioni anatomiche rimane da tenere in considerazione che, generalmente, i repere anatomici sono dei punti definiti arbitrariamente all’interno di un’area più vasta e irregolare che i manuali di anatomia definiscono essere il repere anatomico. L’identificazione dei repere attraverso una loro descrizione verbale è quindi povera in precisione e la difficoltà nella loro identificazione tramite palpazione manuale, a causa della presenza dei tessuti molli interposti, genera errori sia in precisione che in accuratezza. Tali errori si propagano alla stima della cinematica e della dinamica articolare (Ramakrishnan et al. 1991; Della Croce et al. 1999). Della Croce (Della Croce et al. 1999) ha inoltre evidenziato che gli errori che influenzano la collocazione nello spazio delle terne anatomiche non dipendono soltanto dalla precisione con cui vengono identificati i repere anatomici, ma anche dalle regole che si utilizzano per definire le terne. E’ infine necessario evidenziare che la palpazione manuale richiede tempo e può essere effettuata esclusivamente da personale altamente specializzato, risultando quindi molto onerosa (Simon 2004). La presente tesi prende lo spunto dai problemi sopra elencati e ha come obiettivo quello di migliorare la qualità delle informazioni necessarie alla ricostruzione della cinematica 3D dei segmenti ossei in esame affrontando i problemi posti dall’artefatto di tessuto molle e le limitazioni intrinseche nelle attuali procedure di calibrazione anatomica. I problemi sono stati affrontati sia mediante procedure di elaborazione dei dati, sia apportando modifiche ai protocolli sperimentali che consentano di conseguire tale obiettivo. Per quanto riguarda l’artefatto da tessuto molle, si è affrontato l’obiettivo di sviluppare un metodo di stima che fosse specifico per il soggetto e per l’atto motorio in esame e, conseguentemente, di elaborare un metodo che ne consentisse la minimizzazione. Il metodo di stima è non invasivo, non impone restrizione al movimento dei tessuti molli, utilizza la sola misura stereofotogrammetrica ed è basato sul principio della media correlata. Le prestazioni del metodo sono state valutate su dati ottenuti mediante una misura 3D stereofotogrammetrica e fluoroscopica sincrona (Stagni et al. 2005), (Stagni et al. 2005). La coerenza dei risultati raggiunti attraverso i due differenti metodi permette di considerare ragionevoli le stime dell’artefatto ottenute con il nuovo metodo. Tale metodo fornisce informazioni sull’artefatto di pelle in differenti porzioni della coscia del soggetto e durante diversi compiti motori, può quindi essere utilizzato come base per un piazzamento ottimo dei marcatori. Lo si è quindi utilizzato come punto di partenza per elaborare un metodo di compensazione dell’errore dovuto all’artefatto di pelle che lo modella come combinazione lineare degli angoli articolari di anca e ginocchio. Il metodo di compensazione è stato validato attraverso una procedura di simulazione sviluppata ad-hoc. Relativamente alla calibrazione anatomica si è ritenuto prioritario affrontare il problema associato all’identificazione dei repere anatomici perseguendo i seguenti obiettivi: 1. migliorare la precisione nell’identificazione dei repere e, di conseguenza, la ripetibilità dell’identificazione delle terne anatomiche e della cinematica articolare, 2. diminuire il tempo richiesto, 3. permettere che la procedura di identificazione possa essere eseguita anche da personale non specializzato. Il perseguimento di tali obiettivi ha portato alla implementazione dei seguenti metodi: • Inizialmente è stata sviluppata una procedura di palpazione virtuale automatica. Dato un osso digitale, la procedura identifica automaticamente i punti di repere più significativi, nella maniera più precisa possibile e senza l'ausilio di un operatore esperto, sulla base delle informazioni ricavabili da un osso digitale di riferimento (template), preliminarmente palpato manualmente. • E’ stato poi condotto uno studio volto ad indagare i fattori metodologici che influenzano le prestazioni del metodo funzionale nell’individuazione del centro articolare d’anca, come prerequisito fondamentale per migliorare la procedura di calibrazione anatomica. A tale scopo sono stati confrontati diversi algoritmi, diversi cluster di marcatori ed è stata valutata la prestazione del metodo in presenza di compensazione dell’artefatto di pelle. • E’stato infine proposto un metodo alternativo di calibrazione anatomica basato sull’individuazione di un insieme di punti non etichettati, giacenti sulla superficie dell’osso e ricostruiti rispetto ad un TF (UP-CAST). A partire dalla posizione di questi punti, misurati su pelvi coscia e gamba, la morfologia del relativo segmento osseo è stata stimata senza identificare i repere, bensì effettuando un’operazione di matching dei punti misurati con un modello digitale dell’osso in esame. La procedura di individuazione dei punti è stata eseguita da personale non specializzato nell’individuazione dei repere anatomici. Ai soggetti in esame è stato richiesto di effettuare dei cicli di cammino in modo tale da poter indagare gli effetti della nuova procedura di calibrazione anatomica sulla determinazione della cinematica articolare. I risultati ottenuti hanno mostrato, per quel che riguarda la identificazione dei repere, che il metodo proposto migliora sia la precisione inter- che intraoperatore, rispetto alla palpazione convenzionale (Della Croce et al. 1999). E’ stato inoltre riscontrato un notevole miglioramento, rispetto ad altri protocolli (Charlton et al. 2004; Schwartz et al. 2004), nella ripetibilità della cinematica 3D di anca e ginocchio. Bisogna inoltre evidenziare che il protocollo è stato applicato da operatori non specializzati nell’identificazione dei repere anatomici. Grazie a questo miglioramento, la presenza di diversi operatori nel laboratorio non genera una riduzione di ripetibilità. Infine, il tempo richiesto per la procedura è drasticamente diminuito. Per una analisi che include la pelvi e i due arti inferiori, ad esempio, l’identificazione dei 16 repere caratteristici usando la calibrazione convenzionale richiede circa 15 minuti, mentre col nuovo metodo tra i 5 e i 10 minuti.

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PREMESSA: La progressione della recidiva d’epatite C è accelerata nei pazienti sottoposti a trapianto di fegato e ciò ha portato alla necessità di sviluppare nuove e validate metodiche non invasive per la quantificazione e la misura della fibrosi epatica. SCOPI: Stabilire l’efficacia dell’elastometria epatica (Fibroscan®) e dei parametri sierici di fibrosi, attualmente disponibili nella pratica clinica, per predire il grado di fibrosi nei pazienti sottoposti a trapianto epatico. METODI: La correlazione fra fibrosi epatica, determinata mediante biopsia epatica ed esame istologico, e Fibroscan® o indici clinico-sierologici di fibrosi (Benlloch, Apri, Forns, Fibrotest and Doppler resistance index), è stata studiata in pazienti che avevano ricevuto un trapianto ortotopico di fegato con evidenza di recidiva d’epatite da HCV. Un totale di 36 pazienti, con la seguente classificazione istologica: fibrosi secondom METAVIR F1=24, F2=8, F3=3, F4=1, sono stati arruolati nella popolazione oggetto di studio. Un totale di 29 individui volontari sani sono serviti come controllo. Le differenze fra gli stadi di fibrosi sono state calcolate mediante analisi statistica non parametrica. Il miglior cut-off per la differenziazione di fibrosi significativa (F2-F4) è stato identificato mediante l’analisi delle curve ROC. RISULTATI: La rigidità epatica ha presentato valori di 4.4 KPa (2.7-6.9) nei controlli (mediane e ranges), con valori in tutti i soggeti <7.0 KPa; 7.75 KPa (4.2-28.0) negli F1; 16.95 KPa (10.2-31.6) negli F2; 21.10 KPa nell’unico paziente F4 cirrotico. Le differenze sono state statisticamente significative per i soggetti controllo versus F1 e F2 (p<0.0001) e per F1 versus F2 (p<0.0001). Un cut-off elastografico di 11.2 KPagarantisce 88% di Sensibilità, 90% di Specificità, 79% di PPV e 95% di NPV nel differenziare i soggetti F1 dagli F2-F4. Le AUROC, relativamente alla capacità di discriminare fra i differenti gradi di fibrosi, evidenziavano un netto vantaggio per il Fibroscan® rispetto ad ognuno degli indici non invasivi di fibrosi. CONCLUSIONI: L’elastometria epatica presenta una buona accuratezza diagnostica nell’identificare pazienti con fibrosi epatica di grado significativo, superiore a quella di tutti gli altri test non invasivi al momento disponibili nella clinica, nei pazienti portatori di trapianto epatico ortotopico da cadavere con recidiva di HCV.

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Introduzione L’importanza clinica, sociale ed economica del trattamento dell’ipertensione arteriosa richiede la messa in opera di strumenti di monitoraggio dell’uso dei farmaci antiipertensivi che consentano di verificare la trasferibilità alla pratica clinica dei dati ottenuti nelle sperimentazioni. L’attuazione di una adatta strategia terapeutica non è un fenomeno semplice da realizzare perché le condizioni in cui opera il Medico di Medicina Generale sono profondamente differenti da quelle che si predispongono nell’esecuzione degli studi randomizzati e controllati. Emerge, pertanto, la necessità di conoscere le modalità con cui le evidenze scientifiche trovano reale applicazione nella pratica clinica routinaria, identificando quei fattori di disturbo che, nei contesti reali, limitano l’efficacia e l’appropriatezza clinica. Nell’ambito della terapia farmacologica antiipertensiva, uno di questi fattori di disturbo è costituito dalla ridotta aderenza al trattamento. Su questo tema, recenti studi osservazionali hanno individuato le caratteristiche del paziente associate a bassi livelli di compliance; altri hanno focalizzato l’attenzione sulle caratteristiche del medico e sulla sua capacità di comunicare ai propri assistiti l’importanza del trattamento farmacologico. Dalle attuali evidenze scientifiche, tuttavia, non emerge con chiarezza il peso relativo dei due diversi attori, paziente e medico, nel determinare i livelli di compliance nel trattamento delle patologie croniche. Obiettivi Gli obiettivi principali di questo lavoro sono: 1) valutare quanta parte della variabilità totale è attribuibile al livello-paziente e quanta parte della variabilità è attribuibile al livello-medico; 2) spiegare la variabilità totale in funzione delle caratteristiche del paziente e in funzione delle caratteristiche del medico. Materiale e metodi Un gruppo di Medici di Medicina Generale che dipendono dall’Azienda Unità Sanitaria Locale di Ravenna si è volontariamente proposto di partecipare allo studio. Sono stati arruolati tutti i pazienti che presentavano almeno una misurazione di pressione arteriosa nel periodo compreso fra il 01/01/1997 e il 31/12/2002. A partire dalla prima prescrizione di farmaci antiipertensivi successiva o coincidente alla data di arruolamento, gli assistiti sono stati osservati per 365 giorni al fine di misurare la persistenza in trattamento. La durata del trattamento antiipertensivo è stata calcolata come segue: giorni intercorsi tra la prima e l’ultima prescrizione + proiezione, stimata sulla base delle Dosi Definite Giornaliere, dell’ultima prescrizione. Sono stati definiti persistenti i soggetti che presentavano una durata del trattamento maggiore di 273 giorni. Analisi statistica I dati utilizzati per questo lavoro presentano una struttura gerarchica nella quale i pazienti risultano “annidati” all’interno dei propri Medici di Medicina Generale. In questo contesto, le osservazioni individuali non sono del tutto indipendenti poiché i pazienti iscritti allo stesso Medico di Medicina Generale tenderanno ad essere tra loro simili a causa della “storia comune” che condividono. I test statistici tradizionali sono fortemente basati sull’assunto di indipendenza tra le osservazioni. Se questa ipotesi risulta violata, le stime degli errori standard prodotte dai test statistici convenzionali sono troppo piccole e, di conseguenza, i risultati che si ottengono appaiono “impropriamente” significativi. Al fine di gestire la non indipendenza delle osservazioni, valutare simultaneamente variabili che “provengono” da diversi livelli della gerarchia e al fine di stimare le componenti della varianza per i due livelli del sistema, la persistenza in trattamento antiipertensivo è stata analizzata attraverso modelli lineari generalizzati multilivello e attraverso modelli per l’analisi della sopravvivenza con effetti casuali (shared frailties model). Discussione dei risultati I risultati di questo studio mostrano che il 19% dei trattati con antiipertensivi ha interrotto la terapia farmacologica durante i 365 giorni di follow-up. Nei nuovi trattati, la percentuale di interruzione terapeutica ammontava al 28%. Le caratteristiche-paziente individuate dall’analisi multilivello indicano come la probabilità di interrompere il trattamento sia più elevata nei soggetti che presentano una situazione clinica generale migliore (giovane età, assenza di trattamenti concomitanti, bassi livelli di pressione arteriosa diastolica). Questi soggetti, oltre a non essere abituati ad assumere altre terapie croniche, percepiscono in minor misura i potenziali benefici del trattamento antiipertensivo e tenderanno a interrompere la terapia farmacologica alla comparsa dei primi effetti collaterali. Il modello ha inoltre evidenziato come i nuovi trattati presentino una più elevata probabilità di interruzione terapeutica, verosimilmente spiegata dalla difficoltà di abituarsi all’assunzione cronica del farmaco in una fase di assestamento della terapia in cui i principi attivi di prima scelta potrebbero non adattarsi pienamente, in termini di tollerabilità, alle caratteristiche del paziente. Anche la classe di farmaco di prima scelta riveste un ruolo essenziale nella determinazione dei livelli di compliance. Il fenomeno è probabilmente legato ai diversi profili di tollerabilità delle numerose alternative terapeutiche. L’appropriato riconoscimento dei predittori-paziente di discontinuità (risk profiling) e la loro valutazione globale nella pratica clinica quotidiana potrebbe contribuire a migliorare il rapporto medico-paziente e incrementare i livelli di compliance al trattamento. L’analisi delle componenti della varianza ha evidenziato come il 18% della variabilità nella persistenza in trattamento antiipertensivo sia attribuibile al livello Medico di Medicina Generale. Controllando per le differenze demografiche e cliniche tra gli assistiti dei diversi medici, la quota di variabilità attribuibile al livello medico risultava pari al 13%. La capacità empatica dei prescrittori nel comunicare ai propri pazienti l’importanza della terapia farmacologica riveste un ruolo importante nel determinare i livelli di compliance al trattamento. La crescente presenza, nella formazione dei medici, di corsi di carattere psicologico finalizzati a migliorare il rapporto medico-paziente potrebbe, inoltre, spiegare la relazione inversa, particolarmente evidente nella sottoanalisi effettuata sui nuovi trattati, tra età del medico e persistenza in trattamento. La proporzione non trascurabile di variabilità spiegata dalla struttura in gruppi degli assistiti evidenzia l’opportunità e la necessità di investire nella formazione dei Medici di Medicina Generale con l’obiettivo di sensibilizzare ed “educare” i medici alla motivazione ma anche al monitoraggio dei soggetti trattati, alla sistematica valutazione in pratica clinica dei predittori-paziente di discontinuità e a un appropriato utilizzo della classe di farmaco di prima scelta. Limiti dello studio Uno dei possibili limiti di questo studio risiede nella ridotta rappresentatività del campione di medici (la partecipazione al progetto era su base volontaria) e di pazienti (la presenza di almeno una misurazione di pressione arteriosa, dettata dai criteri di arruolamento, potrebbe aver distorto il campione analizzato, selezionando i pazienti che si recano dal proprio medico con maggior frequenza). Questo potrebbe spiegare la minore incidenza di interruzioni terapeutiche rispetto a studi condotti, nella stessa area geografica, mediante database amministrativi di popolazione. Conclusioni L’analisi dei dati contenuti nei database della medicina generale ha consentito di valutare l’impiego dei farmaci antiipertensivi nella pratica clinica e di stabilire la necessità di porre una maggiore attenzione nella pianificazione e nell’ottenimento dell’obiettivo che il trattamento si prefigge. Alla luce dei risultati emersi da questa valutazione, sarebbe di grande utilità la conduzione di ulteriori studi osservazionali volti a sostenere il progressivo miglioramento della gestione e del trattamento dei pazienti a rischio cardiovascolare nell’ambito della medicina generale.

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Background. The surgical treatment of dysfunctional hips is a severe condition for the patient and a costly therapy for the public health. Hip resurfacing techniques seem to hold the promise of various advantages over traditional THR, with particular attention to young and active patients. Although the lesson provided in the past by many branches of engineering is that success in designing competitive products can be achieved only by predicting the possible scenario of failure, to date the understanding of the implant quality is poorly pre-clinically addressed. Thus revision is the only delayed and reliable end point for assessment. The aim of the present work was to model the musculoskeletal system so as to develop a protocol for predicting failure of hip resurfacing prosthesis. Methods. Preliminary studies validated the technique for the generation of subject specific finite element (FE) models of long bones from Computed Thomography data. The proposed protocol consisted in the numerical analysis of the prosthesis biomechanics by deterministic and statistic studies so as to assess the risk of biomechanical failure on the different operative conditions the implant might face in a population of interest during various activities of daily living. Physiological conditions were defined including the variability of the anatomy, bone densitometry, surgery uncertainties and published boundary conditions at the hip. The protocol was tested by analysing a successful design on the market and a new prototype of a resurfacing prosthesis. Results. The intrinsic accuracy of models on bone stress predictions (RMSE < 10%) was aligned to the current state of the art in this field. The accuracy of prediction on the bone-prosthesis contact mechanics was also excellent (< 0.001 mm). The sensitivity of models prediction to uncertainties on modelling parameter was found below 8.4%. The analysis of the successful design resulted in a very good agreement with published retrospective studies. The geometry optimisation of the new prototype lead to a final design with a low risk of failure. The statistical analysis confirmed the minimal risk of the optimised design over the entire population of interest. The performances of the optimised design showed a significant improvement with respect to the first prototype (+35%). Limitations. On the authors opinion the major limitation of this study is on boundary conditions. The muscular forces and the hip joint reaction were derived from the few data available in the literature, which can be considered significant but hardly representative of the entire variability of boundary conditions the implant might face over the patients population. This moved the focus of the research on modelling the musculoskeletal system; the ongoing activity is to develop subject-specific musculoskeletal models of the lower limb from medical images. Conclusions. The developed protocol was able to accurately predict known clinical outcomes when applied to a well-established device and, to support the design optimisation phase providing important information on critical characteristics of the patients when applied to a new prosthesis. The presented approach does have a relevant generality that would allow the extension of the protocol to a large set of orthopaedic scenarios with minor changes. Hence, a failure mode analysis criterion can be considered a suitable tool in developing new orthopaedic devices.

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The repressor element 1-silencing transcription factor (REST) was first identified as a protein that binds to a 21-bp DNA sequence element (known as repressor element 1 (RE1)) resulting in transcriptional repression of the neural-specific genes [Chong et al., 1995; Schoenherr and Anderson, 1995]. The original proposed role for REST was that of a factor responsible for restricting neuronal gene expression to the nervous system by silencing expression of these genes in non-neuronal cells. Although it was initially thought to repress neuronal genes in non-neuronal cells, the role of REST is complex and tissue dependent. In this study I investigated any role played by REST in the induction and patterning of differentiation of SH-SY5Y human neuroblastoma cells exposed to IGF-I. and phorbol 12- myristate 13-acetate (PMA) To down-regulate REST expression we developed an antisense (AS) strategy based on the use of phosphorothioate oligonucleotides (ODNs). In order to evaluate REST mRNA levels, we developed a real-time PCR technique and REST protein levels were evaluated by western blotting. Results showed that nuclear REST is increased in SH-SY5Y neuroblastoma cells cultured in SFM and exposed to IGF-I for 2-days and it then declines in 5-day-treated cells concomitant with a progressive neurite extension. Also the phorbol ester PMA was able to increase nuclear REST levels after 3-days treatment concomitant to neuronal differentiation of neuroblastoma cells, whereas, at later stages, it is down-regulated. Supporting these data, the exposure to PKC inhibitors (GF10923X and Gö6976) and PMA (16nM) reverted the effects observed with PMA alone. REST levels were related to morphological differentiation, expression of growth coneassociated protein 43 (GAP-43; a gene not regulated by REST) and of synapsin I and βIII tubulin (genes regulated by REST), proteins involved in the early stage of neuronal development. We observed that differentiation of SH-SY5Y cells by IGF-I and PMA was accompanied by a significant increase of these neuronal markers, an effect that was concomitant with REST decrease. In order to relate the decreased REST expression with a progressive neurite extension, I investigated any possible involvement of the ubiquitin–proteasome system (UPS), a multienzymatic pathway which degrades polyubiquinated soluble cytoplasmic proteins [Pickart and Cohen, 2004]. For this purpose, SH-SY5Y cells are concomitantly exposed to PMA and the proteasome inhibitor MG132. In SH-SY5Y exposed to PMA and MG 132, we observed an inverse pattern of expression of synapsin I and β- tubulin III, two neuronal differentiation markers regulated by REST. Their cytoplasmic levels are reduced when compared to cells exposed to PMA alone, as a consequence of the increase of REST expression by proteasome inhibitor. The majority of proteasome substrates identified to date are marked for degradation by polyubiquitinylation; however, exceptions to this principle, are well documented [Hoyt and Coffino, 2004]. Interestingly, REST degradation seems to be completely ubiquitin-independent. The expression pattern of REST could be consistent with the theory that, during early neuronal differentiation induced by IGF-I and PKC, it may help to repress the expression of several genes not yet required by the differentiation program and then it declines later. Interestingly, the observation that REST expression is progressively reduced in parallel with cell proliferation seems to indicate that the role of this transcription factor could also be related to cell survival or to counteract apotosis events [Lawinger et al., 2000] although, as shown by AS-ODN experiments, it does not seem to be directly involved in cell proliferation. Therefore, the decline of REST expression is a comparatively later event during maturation of neuroroblasts in vitro. Thus, we propose that REST is regulated by growth factors, like IGF-I, and PKC activators in a time-dependent manner: it is elevated during early steps of neural induction and could contribute to down-regulate genes not yet required by the differentiation program while it declines later for the acquisition of neural phenotypes, concomitantly with a progressive neurite extension. This later decline is regulated by the proteasome system activation in an ubiquitin-indipendent way and adds more evidences to the hypothesis that REST down-regulation contributes to differentiation and arrest of proliferation of neuroblastoma cells. Finally, the glycosylation pattern of the REST protein was analysed, moving from the observation that the molecular weight calculated on REST sequence is about 116 kDa but using western blotting this transcription factor appears to have distinct apparent molecular weight (see Table 1.1): this difference could be explained by post-translational modifications of the proteins, like glycosylation. In fact recently, several studies underlined the importance of O-glycosylation in modulating transcriptional silencing, protein phosphorylation, protein degradation by proteasome and protein–protein interactions [Julenius et al., 2005; Zachara and Hart, 2006]. Deglycosilating analysis showed that REST protein in SH-SY5Y and HEK293 cells is Oglycosylated and not N-glycosylated. Moreover, using several combination of deglycosilating enzymes it is possible to hypothesize the presence of Gal-β(1-3)-GalNAc residues on the endogenous REST, while β(1-4)-linked galactose residues may be present on recombinant REST protein expressed in HEK293 cells. However, the O-glycosylation process produces an immense multiplicity of chemical structures and monosaccharides must be sequentially hydrolyzed by a series of exoglycosidase. Further experiments are needed to characterize all the post-translational modification of the transcription factor REST.

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MYCN oncogene amplification/expression is a feature of many childhood tumors, and some adult tumors, and it is associated with poor prognosis. While MYC expression is ubiquitary, MYCN has a restricted expression after birth and it is an ideal target for an effective therapy. PNAs belong to the latest class of nucleic acid-based therapeutics, and they can bind chromosomal DNA and block gene transcription (anti-gene activity). We have developed an anti-gene PNA that targets specifically the MYCN gene to block its transcription. We report for the first time MYCN targeted inhibition in Rhabdomyosarcoma (RMS) by the anti-MYCN-PNA in RMS cell lines (four ARMS and four ERMS) and in a xenograft RMS mouse model. Rhabdomyosarcoma is the most common pediatric soft-tissue sarcoma, comprising two main subgroups [Alveolar (ARMS) and Embryonal (ERMS)]. ARMS is associated with a poorer prognosis. MYCN amplification is a feature of both the ERMS and ARMS, but the MYCN amplification and expression levels shows a significant correlation and are greater in ARMS, in which they are associated with adverse outcome. We found that MYCN mRNA and protein levels were higher in the four ARMS (RH30, RH4, RH28 and RMZ-RC2) than in the four ERMS (RH36, SMS-CTR, CCA and RD) cell lines. The potent inhibition of MYCN transcription was highly specific, it did not affect the MYC expression, it was followed by cell-growth inhibition in the RMS cell lines which correlated with the MYCN expression rate, and it led to complete cell-growth inhibition in ARMS cells. We used a mutated- PNA as control. MYCN silencing induced apoptosis. Global gene expression analysis (Affymetrix microarrays) in ARMS cells treated with the anti-MYCN-PNA revealed genes specifically induced or repressed, with both genes previously described as targets of N-myc or Myc, and new genes undescribed as targets of N-myc or Myc (mainly involved in cell cycle, apoptosis, cell motility, metastasis, angiogenesis and muscle development). The changes in the expression of the most relevant genes were confirmed by Real-Time PCR and western blot, and their expression after the MYCN silencing was evaluated in the other RMS cell lines. The in vivo study, using an ARMS xenograft murine model evaluated by micro-PET, showed a complete elimination of the metabolic tumor signal in most of the cases (70%) after anti-MYCN-PNA treatment (without toxicity), whereas treatment with the mutated-PNA had no effect. Our results strongly support the development of MYCN anti-gene therapy for the treatment of RMS, particularly for poor prognosis ARMS, and of other MYCN-expressing tumors.

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The organization of the nervous and immune systems is characterized by obvious differences and striking parallels. Both systems need to relay information across very short and very long distances. The nervous system communicates over both long and short ranges primarily by means of more or less hardwired intercellular connections, consisting of axons, dendrites, and synapses. Longrange communication in the immune system occurs mainly via the ordered and guided migration of immune cells and systemically acting soluble factors such as antibodies, cytokines, and chemokines. Its short-range communication either is mediated by locally acting soluble factors or transpires during direct cell–cell contact across specialized areas called “immunological synapses” (Kirschensteiner et al., 2003). These parallels in intercellular communication are complemented by a complex array of factors that induce cell growth and differentiation: these factors in the immune system are called cytokines; in the nervous system, they are called neurotrophic factors. Neither the cytokines nor the neurotrophic factors appear to be completely exclusive to either system (Neumann et al., 2002). In particular, mounting evidence indicates that some of the most potent members of the neurotrophin family, for example, nerve growth factor (NGF) and brainderived neurotrophic factor (BDNF), act on or are produced by immune cells (Kerschensteiner et al., 1999) There are, however, other neurotrophic factors, for example the insulin-like growth factor-1 (IGF-1), that can behave similarly (Kermer et al., 2000). These factors may allow the two systems to “cross-talk” and eventually may provide a molecular explanation for the reports that inflammation after central nervous system (CNS) injury has beneficial effects (Moalem et al., 1999). In order to shed some more light on such a cross-talk, therefore, transcription factors modulating mu-opioid receptor (MOPr) expression in neurons and immune cells are here investigated. More precisely, I focused my attention on IGF-I modulation of MOPr in neurons and T-cell receptor induction of MOPr expression in T-lymphocytes. Three different opioid receptors [mu (MOPr), delta (DOPr), and kappa (KOPr)] belonging to the G-protein coupled receptor super-family have been cloned. They are activated by structurallyrelated exogenous opioids or endogenous opioid peptides, and contribute to the regulation of several functions including pain transmission, respiration, cardiac and gastrointestinal functions, and immune response (Zollner and Stein 2007). MOPr is expressed mainly in the central nervous system where it regulates morphine-induced analgesia, tolerance and dependence (Mayer and Hollt 2006). Recently, induction of MOPr expression in different immune cells induced by cytokines has been reported (Kraus et al., 2001; Kraus et al., 2003). The human mu-opioid receptor gene (OPRM1) promoter is of the TATA-less type and has clusters of potential binding sites for different transcription factors (Law et al. 2004). Several studies, primarily focused on the upstream region of the OPRM1 promoter, have investigated transcriptional regulation of MOPr expression. Presently, however, it is still not completely clear how positive and negative transcription regulators cooperatively coordinate cellor tissue-specific transcription of the OPRM1 gene, and how specific growth factors influence its expression. IGF-I and its receptors are widely distributed throughout the nervous system during development, and their involvement in neurogenesis has been extensively investigated (Arsenijevic et al. 1998; van Golen and Feldman 2000). As previously mentioned, such neurotrophic factors can be also produced and/or act on immune cells (Kerschenseteiner et al., 2003). Most of the physiologic effects of IGF-I are mediated by the type I IGF surface receptor which, after ligand binding-induced autophosphorylation, associates with specific adaptor proteins and activates different second messengers (Bondy and Cheng 2004). These include: phosphatidylinositol 3-kinase, mitogen-activated protein kinase (Vincent and Feldman 2002; Di Toro et al. 2005) and members of the Janus kinase (JAK)/STAT3 signalling pathway (Zong et al. 2000; Yadav et al. 2005). REST plays a complex role in neuronal cells by differentially repressing target gene expression (Lunyak et al. 2004; Coulson 2005; Ballas and Mandel 2005). REST expression decreases during neurogenesis, but has been detected in the adult rat brain (Palm et al. 1998) and is up-regulated in response to global ischemia (Calderone et al. 2003) and induction of epilepsy (Spencer et al. 2006). Thus, the REST concentration seems to influence its function and the expression of neuronal genes, and may have different effects in embryonic and differentiated neurons (Su et al. 2004; Sun et al. 2005). In a previous study, REST was elevated during the early stages of neural induction by IGF-I in neuroblastoma cells. REST may contribute to the down-regulation of genes not yet required by the differentiation program, but its expression decreases after five days of treatment to allow for the acquisition of neural phenotypes. Di Toro et al. proposed a model in which the extent of neurite outgrowth in differentiating neuroblastoma cells was affected by the disappearance of REST (Di Toro et al. 2005). The human mu-opioid receptor gene (OPRM1) promoter contains a DNA sequence binding the repressor element 1 silencing transcription factor (REST) that is implicated in transcriptional repression. Therefore, in the fist part of this thesis, I investigated whether insulin-like growth factor I (IGF-I), which affects various aspects of neuronal induction and maturation, regulates OPRM1 transcription in neuronal cells in the context of the potential influence of REST. A series of OPRM1-luciferase promoter/reporter constructs were transfected into two neuronal cell models, neuroblastoma-derived SH-SY5Y cells and PC12 cells. In the former, endogenous levels of human mu-opioid receptor (hMOPr) mRNA were evaluated by real-time PCR. IGF-I upregulated OPRM1 transcription in: PC12 cells lacking REST, in SH-SY5Y cells transfected with constructs deficient in the REST DNA binding element, or when REST was down-regulated in retinoic acid-differentiated cells. IGF-I activates the signal transducer and activator of transcription-3 (STAT3) signaling pathway and this transcription factor, binding to the STAT1/3 DNA element located in the promoter, increases OPRM1 transcription. T-cell receptor (TCR) recognizes peptide antigens displayed in the context of the major histocompatibility complex (MHC) and gives rise to a potent as well as branched intracellular signalling that convert naïve T-cells in mature effectors, thus significantly contributing to the genesis of a specific immune response. In the second part of my work I exposed wild type Jurkat CD4+ T-cells to a mixture of CD3 and CD28 antigens in order to fully activate TCR and study whether its signalling influence OPRM1 expression. Results were that TCR engagement determined a significant induction of OPRM1 expression through the activation of transcription factors AP-1, NF-kB and NFAT. Eventually, I investigated MOPr turnover once it has been expressed on T-cells outer membrane. It turned out that DAMGO induced MOPr internalisation and recycling, whereas morphine did not. Overall, from the data collected in this thesis we can conclude that that a reduction in REST is a critical switch enabling IGF-I to up-regulate human MOPr, helping these findings clarify how human MOPr expression is regulated in neuronal cells, and that TCR engagement up-regulates OPRM1 transcription in T-cells. My results that neurotrophic factors a and TCR engagement, as well as it is reported for cytokines, seem to up-regulate OPRM1 in both neurons and immune cells suggest an important role for MOPr as a molecular bridge between neurons and immune cells; therefore, MOPr could play a key role in the cross-talk between immune system and nervous system and in particular in the balance between pro-inflammatory and pro-nociceptive stimuli and analgesic and neuroprotective effects.

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Nandrolone and other anabolic androgenic steroids (AAS) at elevated concentration can alter the expression and function of neurotransmitter systems and contribute to neuronal cell death. This effect can explain the behavioural changes, drug dependence and neuro degeneration observed in steroid abuser. Nandrolone treatment (10-8M–10-5M) caused a time- and concentration-dependent downregulation of mu opioid receptor (MOPr) transcripts in SH-SY5Y human neuroblastoma cells. This effect was prevented by the androgen receptor (AR) antagonist hydroxyflutamide. Receptor binding assays confirmed a decrease in MOPr of approximately 40% in nandrolonetreated cells. Treatment with actinomycin D (10-5M), a transcription inhibitor, revealed that nandrolone may regulate MOPr mRNA stability. In SH-SY5Y cells transfected with a human MOPr luciferase promoter/reporter construct, nandrolone did not alter the rate of gene transcription. These results suggest that nandrolone may regulate MOPr expression through post-transcriptional mechanisms requiring the AR. Cito-toxicity assays demonstrated a time- and concentration dependent decrease of cells viability in SH-SY5Y cells exposed to steroids (10-6M–10-4M). This toxic effects is independent of activation of AR and sigma-2 receptor. An increased of caspase-3 activity was observed in cells treated with Nandrolone 10-6M for 48h. Collectively, these data support the existence of two cellular mechanisms that might explain the neurological syndromes observed in steroids abuser.