59 resultados para carbon footprint, sostenibilità ambientale, impatto climatico degli aeroporti
Resumo:
Il presente lavoro trae origine dagli obiettivi e dalle relative misure applicative della riforma dell’OCM zucchero del 2006 e nello specifico dal Piano nazionale per la razionalizzazione e riconversione della produzione bieticolo-saccarifera approvato dal MIPAF nel 2007. Lo studio riguarda la riconversione dello zuccherificio di Finale Emilia (MO), di appartenenza del Gruppo bieticolo-saccarifero Co.Pro.B, in un impianto di generazione di energia elettrica e termica che utilizza biomassa di origine agricola per la combustione diretta. L'alimentazione avviene principalmente dalla coltivazione dedicata del sorgo da fibra (Sorghum bicolor), integrata con risorse agro-forestali. Lo studio mostra la necessità di coltivazione di 4.400 ettari di sorgo da fibra con una produzione annua di circa 97.000 t di prodotto al 75% di sostanza secca necessari per l’alimentazione della centrale a biomassa. L’obiettivo é quello di valutare l’impatto della nuova coltura energetica sul comprensorio agricolo e sulla economia dell’impresa agricola. La metodologia adottata si basa sulla simulazione di modelli aziendali di programmazione lineare che prevedono l’inserimento del sorgo da fibra come coltura energetica nel piano ottimo delle aziende considerate. I modelli predisposti sono stati calibrati su aziende RICA al fine di riprodurre riparti medi reali su tre tipologie dimensionali rappresentative: azienda piccola entro i 20 ha, media da 20 a 50 ha e grande oltre i 50 ha. La superficie di entrata a livello aziendale, se rapportata alla rappresentatività delle aziende dell’area di studio, risulta insufficiente per soddisfare la richiesta di approvvigionamento dell’impianto a biomassa. Infatti con tale incremento la superficie di coltivazione nel comprensorio si attesta sui 2.500 ettari circa contro i 4.400 necessari alla centrale. Lo studio mostra pertanto che occorre un incentivo superiore, di circa 80-90 €/ha, per soddisfare la richiesta della superficie colturale a livello di territorio. A questi livelli, la disponibilità della coltura energetica sul comprensorio risulta circa 9.500 ettari.
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La presente tesi indaga le potenzialità, in termini di criteri operativi di inserimento ambientale e procedure di intervento, che possono derivare dall’analisi dei fenomeni insediativi facendo riferimento ai concetti di ‘transizione’ e ‘resilienza’. L’attuale periodo di crisi sembra scaturire dal disequilibrio di due fattori: le esigenze umane e l’ambiente. La contestualizzazione degli interventi, il graduale adattamento alle risorse ambientali locali e la valorizzazione dei processi “dal basso” sembrano consentire di riappropriarsi sia del valore identitario dei luoghi, dando risposta ai problemi di natura sociale evidenziati, sia della eco-compatibilità delle trasformazioni, del corretto utilizzo delle risorse energetiche e della gestione delle dinamiche economiche, in risposta ai problemi ambientali analizzati. Il prefigurare applicazioni pratiche del modello di trasformazione indagato alla scala edilizia, utilizzando tavole parametriche di analisi del costruito, viste d’insieme planivolumetriche ed elaborazioni di dati e immagini, può consentire la gestione di eventuali fasi di programmazione e di pianificazione da parte delle amministrazioni finalizzate a favorire e non ostacolare i presenti e futuri fenomeni di transizione. Particolarmente significativa appare l’analisi delle diverse tendenze di ricerca progettuale in atto, con riferimento a contributi caratterizzati da un’impostazione fenomenologica e tipo-morfologica, che dimostra l’attualità degli argomenti affrontati. La ricerca di Dottorato si conclude con l’applicazione dei criteri operativi di inserimento ambientale e delle procedure di intervento individuati ad uno specifico caso di studio.
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Nel corso del mio lavoro di ricerca mi sono occupata di identificare strategie che permettano il risparmio delle risorse a livello edilizio e di approfondire un metodo per la valutazione ambientale di tali strategie. La convinzione di fondo è che bisogna uscire da una visione antropocentrica in cui tutto ciò che ci circonda è merce e materiale a disposizione dell’uomo, per entrare in una nuova era di equilibrio tra le risorse della terra e le attività che l’uomo esercita sul pianeta. Ho quindi affrontato il tema dell’edilizia responsabile approfondendo l’ambito delle costruzioni in balle di paglia e terra. Sono convinta che l’edilizia industriale abbia un futuro molto breve davanti a sé e lascerà inevitabilmente spazio a tecniche non convenzionali che coinvolgono materiali di semplice reperimento e posa in opera. Sono altresì convinta che il solo utilizzo di materiali naturali non sia garanzia di danni ridotti sull’ecosistema. Allo stesso tempo ritengo che una mera certificazione energetica non sia sinonimo di sostenibilità. Per questo motivo ho valutato le tecnologie non convenzionali con approccio LCA (Life Cycle Assessment), approfondendo gli impatti legati alla produzione, ai trasporti degli stessi, alla tipologia di messa in opera, e ai loro possibili scenari di fine vita. Inoltre ho approfondito il metodo di calcolo dei danni IMPACT, identificando una carenza nel sistema, che non prevede una categoria di danno legata alle modifiche delle condizioni idrogeologiche del terreno. La ricerca si è svolta attraverso attività pratiche e sperimentali in cantieri di edilizia non convenzionale e attività di ricerca e studio sull’LCA presso l’Enea di Bologna (Ing. Paolo Neri).
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La ricerca è volta a presentare un nuovo approccio integrato, a supporto di operatori e progettisti, per la gestione dell’intero processo progettuale di interventi di riqualificazione energetica e architettonica del patrimonio edilizio recente, mediante l’impiego di soluzioni tecnologiche innovative di involucro edilizio. Lo studio richiede necessariamente l’acquisizione di un repertorio selezionato di sistemi costruttivi di involucro, come base di partenza per l’elaborazione di soluzioni progettuali di recupero delle scuole appartenenti al secondo dopoguerra, in conglomerato cementizio armato, prevalentemente prefabbricate. Il progetto individua procedimenti costruttivi ecocompatibili per la progettazione di componenti prefabbricati di involucro “attivo”, adattabile ed efficiente, da assemblare a secco, nel rispetto dei requisiti prestazionali richiesti dalle attuali normative. La ricerca è finalizzata alla gestione dell’intero processo, supportato da sistemi di rilevazione geometrica, collegati a software di programmazione parametrica per la modellazione di superfici adattabili alla morfologia dei fabbricati oggetto di intervento. Tali strumenti informatizzati CAD-CAM sono connessi a macchine a controllo numerico CNC per la produzione industrializzata degli elementi costruttivi “su misura”. A titolo esemplificativo dell’approccio innovativo proposto, si formulano due possibili soluzioni di involucro in linea con i paradigmi della ricerca, nel rispetto dei principi di sostenibilità, intesa come modularità, rapidità di posa, reversibilità, recupero e riciclo di materiali. In particolare, le soluzioni innovative sono accomunate dall’applicazione di una tecnica basata sull’assemblaggio di elementi prefabbricati, dall’adozione di una trama esagonale per la tassellazione della nuova superficie di facciata, e dall’utilizzo del medesimo materiale termico isolante, plastico e inorganico, riciclato ed ecosostenibile, a basso impatto ambientale (AAM - Alkali Activated Materials). Le soluzioni progettuali proposte, sviluppate presso le due sedi coinvolte nella cotutela (Università di Bologna, Université Paris-Est) sono affrontate secondo un protocollo scientifico che prevede: progettazione del sistema costruttivo, analisi meccanica e termica, sperimentazione costruttiva, verifica delle tecniche di messa in opera e dei requisiti prestazionali.
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Gli stress abiotici determinando modificazioni a livello fisiologico, biochimico e molecolare delle piante, costituiscono una delle principali limitazioni per la produzione agricola mondiale. Nel 2007 la FAO ha stimato come solamente il 3,5% della superficie mondiale non sia sottoposta a stress abiotici. Il modello agro-industriale degli ultimi cinquant'anni, oltre ad avere contribuito allo sviluppo economico dell'Europa, è stato anche causa di inquinamento di acqua, aria e suolo, mediante uno sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali. L'arsenico in particolare, naturalmente presente nell'ambiente e rilasciato dalle attività antropiche, desta particolare preoccupazione a causa dell'ampia distribuzione come contaminante ambientale e per gli effetti di fitotossicità provocati. In tale contesto, la diffusione di sistemi agricoli a basso impatto rappresenta una importante risorsa per rispondere all'emergenza del cambiamento climatico che negli anni a venire sottoporrà una superficie agricola sempre maggiore a stress di natura abiotica. Nello studio condotto è stato utilizzato uno stabile modello di crescita in vitro per valutare l'efficacia di preparati ultra diluiti (PUD), che non contenendo molecole chimiche di sintesi ben si adattano a sistemi agricoli sostenibili, su semi di frumento preventivamente sottoposti a stress sub-letale da arsenico. Sono state quindi condotte valutazioni sia a livello morfometrico (germinazione, lunghezza di germogli e radici) che molecolare (espressione genica valutata mediante analisi microarray, con validazione tramite Real-Time PCR) arricchendo la letteratura esistente di interessanti risultati. In particolare è stato osservato come lo stress da arsenico, determini una minore vigoria di coleptile e radici e a livello molecolare induca l'attivazione di pathways metabolici per proteggere e difendere le cellule vegetali dai danni derivanti dallo stress; mentre il PUD in esame (As 45x), nel sistema stressato ha indotto un recupero nella vigoria di germoglio e radici e livelli di espressione genica simili a quelli riscontrati nel controllo suggerendo un effetto "riequilibrante" del metabolismo vegetale.
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La ricerca ha perseguito l’obiettivo di individuare e definire il potere di un ente territoriale di sostituire, tramite i suoi organi o atti, quelli ordinari degli enti territoriali minori, per assumere ed esercitare compiutamente, in situazioni straordinarie, le funzioni proprie di questi. Dogmaticamente potremmo distinguere due generali categorie di sostituzione: quella amministrativa e quella legislativa, a seconda dell’attività giuridica nella quale il sostituto interviene. Nonostante tale distinzione riguardi in generale il rapporto tra organi o enti della stessa o di differenti amministrazioni, con eguale o diverso grado di autonomia; la ricerca ha mirato ad analizzare le due summenzionate categorie con stretto riferimento agli enti territoriali. I presupposti, l’oggetto e le modalità di esercizio avrebbero consentito ovviamente di sottocatalogare le due generali categorie di sostituzione, ma un’indagine volta a individuare e classificare ogni fattispecie di attività sostitutiva, più che un’attività complessa, è sembrata risultare di scarsa utilità. Più proficuo è parso il tentativo di ricostruire la storia e l’evoluzione del menzionato istituto, al fine di definire e comprendere i meccanismi che consentono l’attività sostitutiva. Nel corso della ricostruzione non si è potuto trascurare che, all’interno dell’ordinamento italiano, l’istituto della sostituzione è nato nel diritto amministrativo tra le fattispecie che regolavano l’esercizio della funzione amministrativa indiretta. La dottrina del tempo collocava la potestà sostitutiva nella generale categoria dei controlli. La sostituzione, infatti, non avrebbe avuto quel valore creativo e propulsivo, nel mondo dell’effettualità giuridica, quell’energia dinamica ed innovatrice delle potestà attive. La sostituzione rappresentava non solo la conseguenza, ma anche la continuazione del controllo. Le fattispecie, che la menzionata dottrina analizzava, rientravano principalmente all’interno di due categorie di sostituzione: quella disposta a favore dello Stato contro gli inadempimenti degli enti autarchici – principalmente il comune – nonché la sostituzione operata all’interno dell’organizzazione amministrativa dal superiore gerarchico nei confronti del subordinato. Già in epoca unitaria era possibile rinvenire poteri sostitutivi tra enti, la prima vera fattispecie di potestà sostitutiva, era presente nella disciplina disposta da diverse fattispecie dell'allegato A della legge 20 marzo 1856 n. 2248, sull'unificazione amministrativa del Regno. Tentativo del candidato è stato quello, quindi, di ricostruire l'evoluzione delle fattispecie sostitutive nella stratificazione normativa che seguì con il T.U. della legge Comunale e Provinciale R.D. 4 febbraio 1915 e le successive variazioni tra cui il R.D.L. 30 dicembre 1923. Gli istituti sostitutivi vennero meno (di fatto) con il consolidarsi del regime fascista. Il fascismo, che in un primo momento aveva agitato la bandiera delle autonomie locali, non tardò, come noto, una volta giunto al potere, a seguire la sua vera vocazione, dichiarandosi ostile a ogni proposito di decentramento e rafforzando, con la moltiplicazione dei controlli e la soppressione del principio elettivo, la già stretta dipendenza delle comunità locali dallo Stato. Vennero meno i consigli liberamente eletti e al loro posto furono insediati nel 1926 i Podestà e i Consultori per le Amministrazioni comunali; nel 1928 i Presidi e i Rettorati per le Amministrazioni Provinciali, tutti organi nominati direttamente o indirettamente dall’Amministrazione centrale. In uno scenario di questo tipo i termini autarchia e autonomia risultano palesemente dissonanti e gli istituti di coordinamento tra Stato ed enti locali furono ad esso adeguati; in tale ordinamento, infatti, la sostituzione (pur essendo ancora presenti istituti disciplinanti fattispecie surrogatorie) si presentò come un semplice rapporto interno tra organi diversi, di uno stesso unico potere e non come esso è in realtà, anello di collegamento tra soggetti differenti con fini comuni (Stato - Enti autarchici); per semplificare, potremmo chiederci, in un sistema totalitario come quello fascista, in cui tutti gli interessi sono affidati all’amministrazione centrale, chi dovrebbe essere il sostituito. Il potere sostitutivo (in senso proprio) ebbe una riviviscenza nella normativa post-bellica, come reazione alla triste parentesi aperta dal fascismo, che mise a nudo i mali e gli abusi dell’accentramento statale. La suddetta normativa iniziò una riforma in favore delle autonomie locali; infatti, come noto, tutti i partiti politici assunsero posizione in favore di una maggiore autonomia degli enti territoriali minori e ripresero le proposte dei primi anni dell’Unità di Italia avanzate dal Minghetti, il quale sentiva l’esigenza dell’istituzione di un ente intermedio tra Stato e Province, a cui affidare interessi territorialmente limitati: la Regione appunto. Emerge piuttosto chiaramente dalla ricerca che la storia politica e l’evoluzione del diritto pubblico documentano come ad una sempre minore autonomia locale nelle politiche accentratrici dello Stato unitario prima, e totalitario poi, corrisponda una proporzionale diminuzione di istituti di raccordo come i poteri sostitutivi; al contrario ad una sempre maggiore ed evoluta autonomia dello Stato regionalista della Costituzione del 1948 prima, e della riforma del titolo V oggi, una contestuale evoluzione e diffusione di potestà sostitutive. Pare insomma che le relazioni stato-regioni, regioni-enti locali che la sostituzione presuppone, sembrano rappresentare (ieri come oggi) uno dei modi migliori per comprendere il sistema delle autonomie nell’evoluzione della stato regionale e soprattutto dopo la riforma apportata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. Dalla preliminare indagine storica un altro dato, che pare emergere, sembra essere la constatazione che l'istituto nato e giustificato da esigenze di coerenza e efficienza dell'azione amministrativa sia stato trasferito nell'ambio delle relazioni tra stato e autonomie territoriali. Tale considerazione sembra essere confermata dal proseguo dell’indagine, ed in particolare dai punti di contatto tra presupposti e procedure di sostituzione nell’analisi dell’istituto. Nonostante, infatti, il Costituente non disciplinò poteri sostitutivi dello Stato o delle regioni, al momento di trasferire le competenze amministrative alle regioni la Corte costituzionale rilevò il problema della mancanza di istituti posti a garantire gli interessi pubblici, volti ad ovviare alle eventuali inerzie del nuovo ente territoriale. La presente ricerca ha voluto infatti ricostruire l’ingresso dei poteri sostitutivi nel ordinamento costituzionale, riportando le sentenze del Giudice delle leggi, che a partire dalla sentenza n. 142 del 1972 e dalla connessa pronuncia n. 39 del 1971 sui poteri di indirizzo e coordinamento dello Stato, pur non senza incertezze e difficoltà, ha finito per stabilire un vero e proprio “statuto” della sostituzione con la sentenza n. 177 del 1988, individuando requisiti sostanziali e procedurali, stimolando prima e correggendo successivamente gli interventi del legislatore. Le prime fattispecie sostitutive furono disciplinate con riferimento al rispetto degli obblighi comunitari, ed in particolare con l’art. 27 della legge 9 maggio 1975, n. 153, la quale disciplina, per il rispetto dell’autonomia regionale, venne legittimata dalla stessa Corte nella sentenza n. 182 del 1976. Sempre con riferimento al rispetto degli obblighi comunitari intervenne l’art. 6 c. 3°, D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616. La stessa norma va segnalata per introdurre (all’art. 4 c. 3°) una disciplina generale di sostituzione in caso di inadempimento regionale nelle materie delegate dallo Stato. Per il particolare interesse si deve segnalare il D.M. 21 settembre 1984, sostanzialmente recepito dal D.L. 27 giugno 1985, n. 312 (disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), poi convertito in legge 8 agosto 1985, n. 431 c.d. legge Galasso. Tali disposizioni riaccesero il contenzioso sul potere sostitutivo innanzi la Corte Costituzionale, risolto nelle sentt. n. 151 e 153 del 1986. Tali esempi sembrano dimostrare quello che potremmo definire un dialogo tra legislatore e giudice della costituzionalità nella definizione dei poteri sostitutivi; il quale culminò nella già ricordata sent. n. 177 del 1988, nella quale la Corte rilevò che una legge per prevedere un potere sostitutivo costituzionalmente legittimo deve: essere esercitato da parte di un organo di governo; nei confronti di attività prive di discrezionalità nell’an e presentare idonee garanzie procedimentali in conformità al principio di leale collaborazione. Il modello definito dalla Corte costituzionale sembra poi essere stato recepito definitivamente dalla legge 15 marzo 1997, n. 59, la quale per prima ha connesso la potestà sostitutiva con il principio di sussidiarietà. Detta legge sembra rappresentare un punto di svolta nell’indagine condotta perché consente di interpretare al meglio la funzione – che già antecedentemente emergeva dallo studio dei rapporti tra enti territoriali – dei poteri sostitutivi quale attuazione del principio di sussidiarietà. La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, ha disciplinato all’interno della Costituzione ben due fattispecie di poteri sostitutivi all’art. 117 comma 5 e all’art. 120 comma 2. La “lacuna” del 1948 necessitava di essere sanata – in tal senso erano andati anche i precedenti tentativi di riforma costituzionale, basti ricordare l’art. 58 del progetto di revisione costituzionale presentato dalla commissione D’Alema il 4 novembre 1997 – i disposti introdotti dal riformatore costituzionale, però, non possono certo essere apprezzati per la loro chiarezza e completezza. Le due richiamate disposizioni costituzionali, infatti, hanno prodotto numerose letture. Il dibattito ha riguardato principalmente la natura delle due fattispecie sostitutive. In particolare, si è discusso sulla natura legislativa o amministrativa delle potestà surrogatorie e sulla possibilità da parte del legislatore di introdurre o meno la disciplina di ulteriori fattispecie sostitutive rispetto a quelle previste dalla Costituzione. Con particolare riferimento all’art. 120 c. 2 Cost. sembra semplice capire che le difficoltà definitorie siano state dovute all’indeterminatezza della fattispecie, la quale attribuisce al Governo il potere sostitutivo nei confronti degli organi (tutti) delle regioni, province, comuni e città metropolitane. In particolare, la dottrina, che ha attribuito all’art. 120 capoverso la disciplina di un potere sostitutivo sulle potestà legislative delle Regioni, è partita dalla premessa secondo la quale detta norma ha una funzione fondamentale di limite e controllo statale sulle Regioni. La legge 18 ottobre 2001 n. 3 ha, infatti, variato sensibilmente il sistema dei controlli sulle leggi regionali, con la modificazione degli artt. 117 e 127 della Costituzione; pertanto, il sistema dei controlli dopo la riforma del 2001, troverebbe nel potere sostitutivo ex art. 120 la norma di chiusura. Sul tema è insistito un ampio dibattito, al di là di quello che il riformatore costituzionale avrebbe dovuto prevedere, un’obiezione (più delle altre) pare spingere verso l’accoglimento della tesi che propende per la natura amministrativa della fattispecie in oggetto, ovvero la constatazione che il Governo è il soggetto competente, ex art. 120 capoverso Cost., alla sostituzione; quindi, se si intendesse la sostituzione come avente natura legislativa, si dovrebbe ritenere che il Costituente abbia consentito all’Esecutivo, tosto che al Parlamento, l’adozione di leggi statali in sostituzione di quelle regionali. Suddetta conseguenza sembrerebbe comportare una palese violazione dell’assetto costituzionale vigente. Le difficoltà interpretative dell’art. 120 Cost. si sono riversate sulla normativa di attuazione della riforma costituzionale, legge 5 giugno 2003, n. 131. In particolare nell’art. 8, il quale ha mantenuto un dettato estremamente vago e non ha preso una chiara e netta opzione a favore di una della due interpretazione riportate circa la natura della fattispecie attuata, richiamando genericamente che il potere sostitutivo si adotta “Nei casi e per le finalità previsti dall'articolo 120” Cost. Di particolare interesse pare essere, invece, il procedimento disciplinato dal menzionato art. 8, il quale ha riportato una procedura volta ad attuare quelle che sono state le indicazioni della Corte in materia. Analogamente agli anni settanta ed ottanta, le riportate difficoltà interpretative dell’art. 120 Cost. e, più in generale il tema dei poteri sostitutivi dopo la riforma del 2001, sono state risolte e definite dal giudice della costituzionalità. In particolare, la Corte sembra aver palesemente accolto (sent. n. 43 del 2004) la tesi sulla natura amministrativa del potere sostitutivo previsto dall’art. 120 c. 2 Cost. Il giudice delle leggi ha tra l’altro fugato i dubbi di chi, all’indomani della riforma costituzionale del 2001, aveva letto nel potere sostitutivo, attribuito dalla riformata Costituzione al Governo, l’illegittimità di tutte quelle previsioni legislative regionali, che disponevano ipotesi di surrogazione (da parte della regione) nei confronti degli enti locali. La Corte costituzionale, infatti, nella già citata sentenza ha definito “straordinario” il potere di surrogazione attribuito dall’art. 120 Cost. allo Stato, considerando “ordinare” tutte quelle fattispecie sostitutive previste dalla legge (statale e regionale). Particolarmente innovativa è la parte dell'indagine in cui la ricerca ha verificato in concreto la prassi di esercizio della sostituzione statale, da cui sono sembrate emergere numerose tendenze. In primo luogo significativo sembra essere il numero esiguo di sostituzioni amministrative statali nei confronti delle amministrazioni regionali; tale dato sembra dimostrare ed essere causa della scarsa “forza” degli esecutivi che avrebbero dovuto esercitare la sostituzione. Tale conclusione sembra trovare conferma nell'ulteriore dato che sembra emergere ovvero i casi in cui sono stati esercitati i poteri sostitutivi sono avvenuti tutti in materie omogenee (per lo più in materia di tutela ambientale) che rappresentano settori in cui vi sono rilevanti interessi pubblici di particolare risonanza nell'opinione pubblica. Con riferimento alla procedura va enfatizzato il rispetto da parte dell'amministrazione sostituente delle procedure e dei limiti fissati tanto dal legislatore quanto nella giurisprudenza costituzionale al fine di rispettare l'autonomia dell'ente sostituito. Dalla ricerca emerge che non è stato mai esercitato un potere sostitutivo direttamente ex art. 120 Cost., nonostante sia nella quattordicesima (Governo Berlusconi) che nella quindicesima legislatura (Governo Prodi) con decreto sia stata espressamente conferita al Ministro per gli affari regionali la competenza a promuovere l’“esercizio coordinato e coerente dei poteri e rimedi previsti in caso di inerzia o di inadempienza, anche ai fini dell'esercizio del potere sostitutivo del Governo di cui all'art. 120 della Costituzione”. Tale conclusione, però, non lascia perplessi, bensì, piuttosto, sembra rappresentare la conferma della “straordinarietà” della fattispecie sostitutiva costituzionalizzata. Infatti, in via “ordinaria” lo Stato prevede sostituzioni per mezzo di specifiche disposizioni di legge o addirittura per mezzo di decreti legge, come di recente il D.L. 09 ottobre 2006, n. 263 (Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania. Misure per la raccolta differenziata), che ha assegnato al Capo del Dipartimento della protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri “le funzioni di Commissario delegato per l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania per il periodo necessario al superamento di tale emergenza e comunque non oltre il 31 dicembre 2007”. Spesso l’aspetto interessante che sembra emergere da tali sostituzioni, disposte per mezzo della decretazione d’urgenza, è rappresentato dalla mancata previsione di diffide o procedure di dialogo, perché giustificate da casi di estrema urgenza, che spesso spingono la regione stessa a richiedere l’intervento di surrogazione. Del resto è stata la stessa Corte costituzionale a legittimare, nei casi di particolare urgenza e necessità, sostituzioni prive di dialogo e strumenti di diffida nella sent. n. 304 del 1987. Particolare attenzione è stata data allo studio dei poteri sostitutivi regionali. Non solo perché meno approfonditi in letteratura, ma per l’ulteriore ragione che tali fattispecie, disciplinate da leggi regionali, descrivono i modelli più diversi e spingono ad analisi di carattere generale in ordine alla struttura ed alla funzione dei poteri sostitutivi. Esse sembrano rappresentare (in molti casi) modelli da seguire dallo stesso legislatore statale, si vedano ad esempio leggi come quella della regione Toscana 31 ottobre 2001, n. 53, artt. 2, 3, 4, 5, 7; legge regione Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n. 6, art. 30, le quali recepiscono i principi sviluppati dalla giurisprudenza costituzionale e scandiscono un puntuale procedimento ispirato alla collaborazione ed alla tutela delle attribuzioni degli enti locali. La ricerca di casi di esercizio di poter sostitutivi è stata effettuata anche con riferimento ai poteri sostitutivi regionali. I casi rilevati sono stati numerosi in particolare nella regione Sicilia, ma si segnalano anche casi nelle regioni Basilicata ed Emilia-Romagna. Il dato principale, che sembra emergere, pare essere che alle eterogenee discipline di sostituzione corrispondano eterogenee prassi di esercizio della sostituzione. Infatti, alle puntuali fattispecie di disciplina dei poteri sostitutivi dell’Emilia-Romagna corrispondono prassi volte ad effettuare la sostituzione con un delibera della giunta (organo di governo) motivata, nel rispetto di un ampio termine di diffida, nonché nella ricerca di intese volte ad evitare la sostituzione. Alla generale previsione della regione Sicilia, pare corrispondere un prassi sostitutiva caratterizzata da un provvedimento del dirigente generale all’assessorato per gli enti locali (organo di governo?), per nulla motivato, salvo il richiamo generico alle norme di legge, nonché brevi termini di diffida, che sembrano trovare la loro giustificazione in note o solleciti informati che avvisano l’ente locale della possibile sostituzione. In generale il fatto che in molti casi i poteri sostitutivi siano stimolati per mezzo dell’iniziativa dei privati, sembra dimostrare l’attitudine di tal istituto alla tutela degli interessi dei singoli. I differenti livelli nei quali operano i poteri sostitutivi, il ruolo che la Corte ha assegnato a tali strumenti nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, nonché i dati emersi dall’indagine dei casi concreti, spingono ad individuare nel potere sostitutivo uno dei principali strumenti di attuazione del principio di sussidiarietà, principio quest’ultimo che sembra rappresentare – assieme ai corollari di proporzionalità, adeguatezza e leale collaborazione – la chiave di lettura della potestà sostitutiva di funzioni amministrative. In tal senso, come detto, pare emergere dall’analisi di casi concreti come il principio di sussidiarietà per mezzo dei poteri sostitutivi concretizzi quel fine, a cui l’art. 118 cost. sembra mirare, di tutela degli interessi pubblici, consentendo all’ente sovraordinato di intervenire laddove l’ente più vicino ai cittadini non riesca. Il principio di sussidiarietà sembra essere la chiave di lettura anche dell’altra categoria della sostituzione legislativa statale. L’impossibilità di trascurare o eliminare l’interesse nazionale, all’interno di un ordinamento regionale fondato sull’art. 5 Cost., sembra aver spino la Corte costituzionale ad individuare una sorta di “potere sostitutivo legislativo”, attraverso il (seppur criticabile) meccanismo introdotto per mezzo della sent. 303 del 2003 e della cosiddetta “chiamata i sussidiarietà”. Del resto adattare i principi enucleati nella giurisprudenza costituzionale a partire dalla sent. n. 117 del 1988 alla chiamata in sussidiarietà e i limiti che dal principio di leale collaborazione derivano, sembra rappresentare un dei modi (a costituzione invariata) per limitare quello che potrebbe rappresentare un meccanismo di rilettura dell’art. 117 Cost. ed ingerenza dello stato nelle competenze della regioni. Nonostante le sensibili differenze non si può negare che lo strumento ideato dalla Corte abbia assunto le vesti della konkurrierende gesetzgebung e, quindi, di fatto, di un meccanismo che senza limiti e procedure potrebbe rappresentare uno strumento di interferenza e sostituzione della stato nelle competenze regionali. Tali limiti e procedure potrebbero essere rinvenuti come detto nelle procedure di sostituzione scandite nelle pronunce del giudice delle leggi. I risultati che si spera emergeranno dalla descritta riflessione intorno ai poteri sostitutivi e il conseguente risultato circa lo stato del regionalismo italiano, non sembrano, però, rappresentare un punto di arrivo, bensì solo di partenza. I poteri sostitutivi potrebbero infatti essere oggetto di futuri interventi di riforma costituzionale, così come lo sono stati in occasione del tentativo di riforma del 2005. Il legislatore costituzionale nel testo di legge costituzionale approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta (recante “Modifiche alla Parte II della Costituzione” e pubblicato in gazzetta ufficiale n. 269 del 18-11-2005) pareva aver fatto un scelta chiara sostituendo il disposto “Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle città metropolitane, delle Province e dei Comuni” con “Lo Stato può sostituirsi alle Regioni, alle città metropolitane, alle Province e ai Comuni nell'esercizio delle funzioni loro attribuite dagli articoli 117 e 118”. Insomma si sarebbe introdotto quello strumento che in altri Paesi prende il nome di Supremacy clause o Konkurrierende Gesetzgebung, ma quali sarebbero state le procedure e limiti che lo Stato avrebbe dovuto rispettare? Il dettato che rigidamente fissa le competenze di stato e regioni, assieme alla reintroduzione espressa dell’interesse nazionale, non avrebbe ridotto eccessivamente l’autonomia regionale? Tali interrogativi mirano a riflettere non tanto intorno a quelli che potrebbero essere gli sviluppi dell’istituto dei poteri sostitutivi. Piuttosto essi sembrano rappresenterebbe l’ulteriore punto di vista per tentare di comprendere quale percorso avrebbe potuto (o potrebbe domani) prendere il regionalismo italiano.
Resumo:
La ricerca si propone di definire le linee guida per la stesura di un Piano che si occupi di qualità della vita e di benessere. Il richiamo alla qualità e al benessere è positivamente innovativo, in quanto impone agli organi decisionali di sintonizzarsi con la soggettività attiva dei cittadini e, contemporaneamente, rende evidente la necessità di un approccio più ampio e trasversale al tema della città e di una più stretta relazione dei tecnici/esperti con i responsabili degli organismi politicoamministrativi. La ricerca vuole indagare i limiti dell’urbanistica moderna di fronte alla complessità di bisogni e di nuove necessità espresse dalle popolazioni urbane contemporanee. La domanda dei servizi è notevolmente cambiata rispetto a quella degli anni Sessanta, oltre che sul piano quantitativo anche e soprattutto sul piano qualitativo, a causa degli intervenuti cambiamenti sociali che hanno trasformato la città moderna non solo dal punto di vista strutturale ma anche dal punto di vista culturale: l’intermittenza della cittadinanza, per cui le città sono sempre più vissute e godute da cittadini del mondo (turisti e/o visitatori, temporaneamente presenti) e da cittadini diffusi (suburbani, provinciali, metropolitani); la radicale trasformazione della struttura familiare, per cui la famiglia-tipo costituita da una coppia con figli, solido riferimento per l’economia e la politica, è oggi minoritaria; l’irregolarità e flessibilità dei calendari, delle agende e dei ritmi di vita della popolazione attiva; la mobilità sociale, per cui gli individui hanno traiettorie di vita e pratiche quotidiane meno determinate dalle loro origini sociali di quanto avveniva nel passato; l’elevazione del livello di istruzione e quindi l’incremento della domanda di cultura; la crescita della popolazione anziana e la forte individualizzazione sociale hanno generato una domanda di città espressa dalla gente estremamente variegata ed eterogenea, frammentata e volatile, e per alcuni aspetti assolutamente nuova. Accanto a vecchie e consolidate richieste – la città efficiente, funzionale, produttiva, accessibile a tutti – sorgono nuove domande, ideali e bisogni che hanno come oggetto la bellezza, la varietà, la fruibilità, la sicurezza, la capacità di stupire e divertire, la sostenibilità, la ricerca di nuove identità, domande che esprimono il desiderio di vivere e di godere la città, di stare bene in città, domande che non possono essere più soddisfatte attraverso un’idea di welfare semplicemente basata sull’istruzione, la sanità, il sistema pensionistico e l’assistenza sociale. La città moderna ovvero l’idea moderna della città, organizzata solo sui concetti di ordine, regolarità, pulizia, uguaglianza e buon governo, è stata consegnata alla storia passata trasformandosi ora in qualcosa di assai diverso che facciamo fatica a rappresentare, a descrivere, a raccontare. La città contemporanea può essere rappresentata in molteplici modi, sia dal punto di vista urbanistico che dal punto di vista sociale: nella letteratura recente è evidente la difficoltà di definire e di racchiudere entro limiti certi l’oggetto “città” e la mancanza di un convincimento forte nell’interpretazione delle trasformazioni politiche, economiche e sociali che hanno investito la società e il mondo nel secolo scorso. La città contemporanea, al di là degli ambiti amministrativi, delle espansioni territoriali e degli assetti urbanistici, delle infrastrutture, della tecnologia, del funzionalismo e dei mercati globali, è anche luogo delle relazioni umane, rappresentazione dei rapporti tra gli individui e dello spazio urbano in cui queste relazioni si muovono. La città è sia concentrazione fisica di persone e di edifici, ma anche varietà di usi e di gruppi, densità di rapporti sociali; è il luogo in cui avvengono i processi di coesione o di esclusione sociale, luogo delle norme culturali che regolano i comportamenti, dell’identità che si esprime materialmente e simbolicamente nello spazio pubblico della vita cittadina. Per studiare la città contemporanea è necessario utilizzare un approccio nuovo, fatto di contaminazioni e saperi trasversali forniti da altre discipline, come la sociologia e le scienze umane, che pure contribuiscono a costruire l’immagine comunemente percepita della città e del territorio, del paesaggio e dell’ambiente. La rappresentazione del sociale urbano varia in base all’idea di cosa è, in un dato momento storico e in un dato contesto, una situazione di benessere delle persone. L’urbanistica moderna mirava al massimo benessere del singolo e della collettività e a modellarsi sulle “effettive necessità delle persone”: nei vecchi manuali di urbanistica compare come appendice al piano regolatore il “Piano dei servizi”, che comprende i servizi distribuiti sul territorio circostante, una sorta di “piano regolatore sociale”, per evitare quartieri separati per fasce di popolazione o per classi. Nella città contemporanea la globalizzazione, le nuove forme di marginalizzazione e di esclusione, l’avvento della cosiddetta “new economy”, la ridefinizione della base produttiva e del mercato del lavoro urbani sono espressione di una complessità sociale che può essere definita sulla base delle transazioni e gli scambi simbolici piuttosto che sui processi di industrializzazione e di modernizzazione verso cui era orientata la città storica, definita moderna. Tutto ciò costituisce quel complesso di questioni che attualmente viene definito “nuovo welfare”, in contrapposizione a quello essenzialmente basato sull’istruzione, sulla sanità, sul sistema pensionistico e sull’assistenza sociale. La ricerca ha quindi analizzato gli strumenti tradizionali della pianificazione e programmazione territoriale, nella loro dimensione operativa e istituzionale: la destinazione principale di tali strumenti consiste nella classificazione e nella sistemazione dei servizi e dei contenitori urbanistici. E’ chiaro, tuttavia, che per poter rispondere alla molteplice complessità di domande, bisogni e desideri espressi dalla società contemporanea le dotazioni effettive per “fare città” devono necessariamente superare i concetti di “standard” e di “zonizzazione”, che risultano essere troppo rigidi e quindi incapaci di adattarsi all’evoluzione di una domanda crescente di qualità e di servizi e allo stesso tempo inadeguati nella gestione del rapporto tra lo spazio domestico e lo spazio collettivo. In questo senso è rilevante il rapporto tra le tipologie abitative e la morfologia urbana e quindi anche l’ambiente intorno alla casa, che stabilisce il rapporto “dalla casa alla città”, perché è in questa dualità che si definisce il rapporto tra spazi privati e spazi pubblici e si contestualizzano i temi della strada, dei negozi, dei luoghi di incontro, degli accessi. Dopo la convergenza dalla scala urbana alla scala edilizia si passa quindi dalla scala edilizia a quella urbana, dal momento che il criterio del benessere attraversa le diverse scale dello spazio abitabile. Non solo, nei sistemi territoriali in cui si è raggiunto un benessere diffuso ed un alto livello di sviluppo economico è emersa la consapevolezza che il concetto stesso di benessere sia non più legato esclusivamente alla capacità di reddito collettiva e/o individuale: oggi la qualità della vita si misura in termini di qualità ambientale e sociale. Ecco dunque la necessità di uno strumento di conoscenza della città contemporanea, da allegare al Piano, in cui vengano definiti i criteri da osservare nella progettazione dello spazio urbano al fine di determinare la qualità e il benessere dell’ambiente costruito, inteso come benessere generalizzato, nel suo significato di “qualità dello star bene”. E’ evidente che per raggiungere tale livello di qualità e benessere è necessario provvedere al soddisfacimento da una parte degli aspetti macroscopici del funzionamento sociale e del tenore di vita attraverso gli indicatori di reddito, occupazione, povertà, criminalità, abitazione, istruzione, etc.; dall’altra dei bisogni primari, elementari e di base, e di quelli secondari, culturali e quindi mutevoli, trapassando dal welfare state allo star bene o well being personale, alla wellness in senso olistico, tutte espressioni di un desiderio di bellezza mentale e fisica e di un nuovo rapporto del corpo con l’ambiente, quindi manifestazione concreta di un’esigenza di ben-essere individuale e collettivo. Ed è questa esigenza, nuova e difficile, che crea la diffusa sensazione dell’inizio di una nuova stagione urbana, molto più di quanto facciano pensare le stesse modifiche fisiche della città.
Resumo:
Il tema della Logistica Urbana è un argomento complesso che coinvolge diverse discipline. Infatti, non è possibile affrontare la distribuzione delle merci da un solo punto di vista. Da un lato, infatti, manifesta l’esigenza della città e della società in generale di migliorare la qualità della vita anche attraverso azioni di contenimento del traffico, dell’inquinamento e degli sprechi energetici. A questo riguardo, è utile ricordare che il trasporto merci su gomma costituisce uno dei maggiori fattori di impatto su ambiente, sicurezza stradale e congestione della viabilità urbana. Dall’altro lato vi sono le esigenze di sviluppo economico e di crescita del territorio dalle quali non è possibile prescindere. In questa chiave, le applicazioni inerenti la logistica urbana si rivolgono alla ricerca di soluzioni bilanciate che possano arrecare benefici sociali ed economici al territorio anche attraverso progetti concertati tra i diversi attori coinvolti. Alla base di tali proposte di pratiche e progetti, si pone il concetto di esternalità inteso come l’insieme dei costi esterni sostenuti dalla società imputabili al trasporto, in particolare al trasporto merci su gomma. La valutazione di questi costi, che rappresentano spesso una misurazione qualitativa, è un argomento delicato in quanto, come è facile immaginare, non può essere frutto di misure dirette, ma deve essere dedotto attraverso meccanismi inferenziali. Tuttavia una corretta definizione delle esternalità definisce un importante punto di partenza per qualsiasi approccio al problema della Logistica Urbana. Tra gli altri fattori determinanti che sono stati esplorati con maggiore dettaglio nel testo integrale della tesi, va qui accennata l’importanza assunta dal cosiddetto Supply Chain Management nell’attuale assetto organizzativo industriale. Da esso dipendono approvvigionamenti di materie prime e consegne dei prodotti finiti, ma non solo. Il sistema stesso della distribuzione fa oggi parte di quei servizi che si integrano con la qualità del prodotto e dell’immagine della Azienda. L’importanza di questo settore è accentuata dal fatto che le evoluzioni del commercio e l’appiattimento dei differenziali tra i sistemi di produzione hanno portato agli estremi la competizione. In questa ottica, minimi vantaggi in termini di servizio e di qualità si traducono in enormi vantaggi in termini di competitività e di acquisizione di mercato. A questo si aggiunge una nuova logica di taglio dei costi che porta a ridurre le giacenze di magazzino accorciando la pipeline di produzione ai minimi termini in tutte le fasi di filiera. Naturalmente questo si traduce, al punto vendita in una quasi totale assenza di magazzino. Tecnicamente, il nuovo modello di approvvigionamento viene chiamato just-in-time. La ricerca che è stata sviluppata in questi tre anni di Dottorato, sotto la supervisione del Prof. Piero Secondini, ha portato ad un approfondimento di questi aspetti in una chiave di lettura ad ampio spettro. La ricerca si è quindi articolata in 5 fasi: 1. Ricognizione della letteratura italiana e straniera in materia di logistica e di logistica urbana; 2. Studio delle pratiche nazionali ed europee 3. Analisi delle esperienze realizzate e delle problematiche operative legate ai progetti sostenuti dalla Regione Emilia Romagna 4. Il caso di studio di Reggio Emilia e redazione di più proposte progettuali 5. Valutazione dei risultati e conclusioni Come prima cosa si è quindi studiata la letteratura in materia di Logistica Urbana a livello nazionale. Data la relativamente recente datazione dei primi approcci nazionali ed europei al problema, non erano presenti molti testi in lingua italiana. Per contro, la letteratura straniera si riferisce generalmente a sistemi urbani di dimensione e configurazione non confrontabili con le realtà nazionali. Ad esempio, una delle nazioni che hanno affrontato per prime tale tematica e sviluppato un certo numero di soluzioni è stata il Giappone. Naturalmente, città come Tokyo e Kyoto sono notevolmente diverse dalle città europee ed hanno necessità ed esigenze assai diverse. Pertanto, soluzioni tecnologiche e organizzative applicate in questi contesti sono per la maggior parte inattuabili nei contesti del vecchio continente. Le fonti che hanno costituito maggiore riferimento per lo sviluppo del costrutto teorico della tesi, quindi, sono state i saggi che la Regione Emilia Romagna ha prodotto in occasione dello sviluppo del progetto City Ports di cui la Regione stessa era coordinatore di numerosi partners nazionali ed europei. In ragione di questo progetto di ricerca internazionale, l’Emilia Romagna ha incluso il trattamento della logistica delle merci negli “Accordi di Programma per il miglioramento della qualità dell’aria” con le province ed i capoluoghi. In Questo modo si è posta l’attenzione sulla sensibilizzazione delle Pubbliche Amministrazioni locali verso la mobilità sostenibile anche nell’ambito di distribuzione urbana delle merci. Si noti infatti che l’impatto sulle esternalità dei veicoli leggeri per il trasporto merci, quelli cioè che si occupano del cosiddetto “ultimo miglio” sono di due ordini di grandezza superiori rispetto a quelli dei veicoli passeggeri. Nella seconda fase, la partecipazione a convegni di ambito regionale e nazionale ha permesso di arricchire le conoscenze delle best-practice attuate in Italia per lo sviluppo di strumenti finalizzati ad condividere i costi esterni della mobilità delle merci con gli operatori logistici. In questi contesti è stato possibile verificare la disponibilità di tre linee di azione sulle quali, all’interno del testo della tesi si farà riferimento molto spesso: - linea tecnologica; - linea amministrativa; - linea economico/finanziaria. Nel discutere di questa tematica, all’interno di questi contesti misti in cui partecipavano esponenti della cultura accademica, delle pubbliche amministrazioni e degli operatori, ci si è potuti confrontare con la complessità che il tema assume. La terza fase ha costituito la preparazione fondamentale allo studio del caso di studio. Come detto sopra, la Regione Emilia Romagna, all’interno degli Accordi di Programma con le Province, ha deliberato lo stanziamento di co-finanziamenti per lo sviluppo di progetti, integrati con le pratiche della mobilità, inerenti la distribuzione delle merci in città. Inizialmente, per tutti i capoluoghi di provincia, la misura 5.2 degli A.d.P. prevedeva la costruzione di un Centro di Distribuzione Urbana e l’individuazione di un gestore dei servizi resi dallo stesso. Successive considerazioni hanno poi portato a modifiche della misura lasciando una maggiore elasticità alle amministrazioni locali. Tramite una esperienza di ricerca parallela e compatibile con quella del Dottorato finanziata da un assegno di ricerca sostenuto dall’Azienda Consorziale Trasporti di Reggio Emilia, si è potuto partecipare a riunioni e seminari presentati dalla Regione Emilia Romagna in cui si è potuto prendere conoscenza delle proposte progettuali di tutte le province. L’esperienza di Reggio Emilia costituisce il caso di studio della tesi di Dottorato. Le molteplici problematiche che si sono affrontate si sono protratte per tempi lunghi che hanno visto anche modifiche consistenti nell’assetto della giunta e del consiglio comunali. Il fatto ha evidenziato l’ennesimo aspetto problematico legato al mantenimento del patrimonio conoscitivo acquisito, delle metodiche adottate e di mantenimento della coerenza dell’impostazione – in termini di finalità ed obiettivi – da parte dell’Amministrazione Pubblica. Essendo numerosi gli attori coinvolti, in un progetto di logistica urbana è determinante per la realizzazione e la riuscita del progetto che ogni fattore sia allineato e ben informato dell’evoluzione del progetto. In termini di programmazione economica e di pianificazione degli interventi, inoltre, la pubblica amministrazione deve essere estremamente coordinata internamente. Naturalmente, questi sono fattori determinanti per ogni progetto che riguarda le trasformazioni urbane e lo sviluppo delle città. In particolare, i diversi settori (assessorati) coinvolti su questa tematica, fanno o possno fare entrare in situazioni critiche e rischiose la solidità politica dello schieramento di maggioranza. Basti pensare che la distribuzione delle merci in città coinvolge gli assessorati della mobilità, del commercio, del centro storico, dell’ambiente, delle attività produttive. In funzione poi delle filiere che si ritiene di coinvolgere, anche la salute e la sicurezza posso partecipare al tavolo in quanto coinvolte rispettivamente nella distribuzione delle categorie merceologiche dei farmaci e nella security dei valori e della safety dei trasporti. L’esperienza di Reggio Emilia è stata una opportunità preziosissima da molteplici punti di vista. Innanzitutto ha dato modo di affrontare in termini pratici il problema, di constatare le difficoltà obiettive, ad esempio nella concertazione tra gli attori coinvolti, di verificare gli aspetti convergenti su questo tema. Non ultimo in termini di importanza, la relazione tra la sostenibilità economica del progetto in relazione alle esigenze degli operatori commerciali e produttivi che ne configurano gli spazi di azione. Le conclusioni del lavoro sono molteplici. Da quelle già accennate relative alla individuazione delle criticità e dei rischi a quelle dei punti di forza delle diverse soluzioni. Si sono affrontate, all’interno del testo, le problematiche più evidenti cercando di darne una lettura costruttiva. Si sono evidenziate anche le situazioni da evitare nel percorso di concertazione e si è proposto, in tal proposito, un assetto organizzativo efficiente. Si è presentato inoltre un modello di costruzione del progetto sulla base anche di una valutazione economica dei risultati per quanto riguarda il Business Plan del gestore in rapporto con gli investimenti della P.A.. Si sono descritti diversi modelli di ordinanza comunale per la regolamentazione della circolazione dei mezzi leggeri per la distribuzione delle merci in centro storico con una valutazione comparativa di meriti ed impatti negativi delle stesse. Sono inoltre state valutate alcune combinazioni di rapporto tra il risparmio in termini di costi esterni ed i possibili interventi economico finanziario. Infine si è analizzato il metodo City Ports evidenziando punti di forza e di debolezza emersi nelle esperienze applicative studiate.
Resumo:
The thesis in Urban and Regional Geography titled “URBAN AND TERRITORIAL COMPETITIVENESS IN SUSTAINABILITY. EMILIA-ROMAGNA, REGION OF EUROPE” is divided into two sections. Section one is additionally composed by two chapters (chap. 1 and 2) and deals with theoretical and gnosiological issues. Section two, of two more chapters (chap. 3 and 4), provides practical contributions: these issues give explanatory patterns to interpret the performances of emiliano-romagnoli urban systems. Chapter one is an introductory chapter. It analyzes globalization that involves a larger and larger number of cities, rich or poor. It also considers the so called “digital divide” either as one of the major phenomena of this unhomogeneous development or as an interesting gnosiological and practical challenge of geography. Globalization is now involving all the cities, large or small, but the small ones have higher risks of exclusion: it depends on their more fragile socio-economic, cultural, and environmental urban structure. That’s why European Union (chapter two) promotes policies and endows politics to sustain cities, because urban systems are the basis for the territorial development. So, European, national and local Institutions are firmly interested in promoting urban and local interventions and projects. Section two deals with economic-geography methods, which consists on collecting indicators and the benchmarking methodology. It also specifically analyzes the urban systems of Emilia-Romagna. Consequences of the globalization on the cities are interpreted with a study of their local resources, intended as potentials for their development. The STeMA approach, proposed by Professor Maria Prezioso (University of Roma, “Tor Vergata”) and used by the ESPON (European Spatial Program Observation Network) project, describes the main “determinants” of the territorial and urban development. These are easily comparable to one another (similar or better performing). This approach achieves two goals. On one hand, it is possible to analyze every urban system in its all main characteristics and to preserve its historical and cultural factors. On another hand, each city is “knowable” and “understandable” by all scholars, as it is objectively comparable. So, urban planners can propose specific “multi-level” and “multi-varied” programs of governance. These will face globalization by exalting local empowerment.
Resumo:
Il lavoro di tesi di dottorato, dal titolo “Turismo religioso: percorsi culturali-religiosi come leva di sviluppo territoriale”, ha preso in esame in particolare il tema dei percorsi culturali/religiosi, considerati “strategici” in una prospettiva di ricomposizione territoriale e di sviluppo locale, e considerati importanti per la promozione di nuovi flussi turistici e valorizzazione delle risorse storiche, artistiche e culturali del Salento leccese. Il lavoro di tesi affronta il tema del turismo culturale legato all’offerta del bene religioso inteso come potenziale fattore di attrazione turistica ed importante risorsa per lo sviluppo sostenibile del territorio. L’attenzione a santuari e luoghi di culto costituisce, infatti, una valida occasione di interesse per le opere d'arte in essi presenti, e rappresenta anche una possibilità di conoscenza del territorio in cui essi insistono, diventando la destinazione di un turismo colto e di qualità. Il lavoro di tesi, si propone di dimostrare come l’attenzione al motivo religioso creando mobilità, flussi di popolazione, di turisti possa diventare occasione di promozione del prodotto locale, mettendo a sistema tutte le risorse economiche presenti nel territorio. Più in dettaglio, dopo un iniziale approccio teorico al concetto di turismo culturale, turismo religioso e marketing territoriale, esso analizza lo stato dell’arte nel territorio provinciale leccese, individuando possibili itinerari turistico-religiosi nel Salento leccese rapportati ai “Cammini d’Europa”. Si propone l’itinerario turistico - e, in particolare, a quello Leucadense, noto come la “via della Perdonanza di Leuca”, che segue la via dei pellegrinaggi medioevali che si suffragavano di luoghi di sosta in chiese e cappelle dedicate alla Vergine Maria - come strumento verso cui si orientano le recenti strategie di competitività territoriale, definibile come uno strumento d’offerta turistica che mira a valorizzare elementi-risorse del territorio. Si tratta di percorsi utili a promuovere un prodotto competitivo, che presuppone l’enucleazione dell’offerta turistica locale integrata e la costruzione intorno ad essi di un territorio dotato di infrastrutture, ricettività, politiche dell’accoglienza, valorizzazione e fruizione del patrimonio culturale materiale, immateriale ed ambientale. Non mancano nel lavoro preoccupazioni legate alla sostenibilità di un tipo di turismo, che, se di massa (come è il caso delle visite al santuario di San Pio a San Giovanni Rotondo), produce gravi pressioni sull’ambiente e perciò necessita un forte impegno in termini di pubblicità, pianificazione investimenti e presume un’opportuna programmazione da parte degli enti locali in termini di offerta ricettiva, ristorativa e dotazione di infrastrutture. La coerenza degli interventi che promuovono il prodotto religioso non può prescindere da un’integrazione orizzontale tra il sistema territoriale (ambiente, paesaggio, sistemi socio-produttivi) e gli attori locali coinvolti, ai fini di un processo di valorizzazione del patrimonio culturale che produce sviluppo locale.
Resumo:
Abstract. This thesis presents a discussion on a few specific topics regarding the low velocity impact behaviour of laminated composites. These topics were chosen because of their significance as well as the relatively limited attention received so far by the scientific community. The first issue considered is the comparison between the effects induced by a low velocity impact and by a quasi-static indentation experimental test. An analysis of both test conditions is presented, based on the results of experiments carried out on carbon fibre laminates and on numerical computations by a finite element model. It is shown that both quasi-static and dynamic tests led to qualitatively similar failure patterns; three characteristic contact force thresholds, corresponding to the main steps of damage progression, were identified and found to be equal for impact and indentation. On the other hand, an equal energy absorption resulted in a larger delaminated area in quasi-static than in dynamic tests, while the maximum displacement of the impactor (or indentor) was higher in the case of impact, suggesting a probably more severe fibre damage than in indentation. Secondly, the effect of different specimen dimensions and boundary conditions on its impact response was examined. Experimental testing showed that the relationships of delaminated area with two significant impact parameters, the absorbed energy and the maximum contact force, did not depend on the in-plane dimensions and on the support condition of the coupons. The possibility of predicting, by means of a simplified numerical computation, the occurrence of delaminations during a specific impact event is also discussed. A study about the compressive behaviour of impact damaged laminates is also presented. Unlike most of the contributions available about this subject, the results of compression after impact tests on thin laminates are described in which the global specimen buckling was not prevented. Two different quasi-isotropic stacking sequences, as well as two specimen geometries, were considered. It is shown that in the case of rectangular coupons the lay-up can significantly affect the damage induced by impact. Different buckling shapes were observed in laminates with different stacking sequences, in agreement with the results of numerical analysis. In addition, the experiments showed that impact damage can alter the buckling mode of the laminates in certain situations, whereas it did not affect the compressive strength in every case, depending on the buckling shape. Some considerations about the significance of the test method employed are also proposed. Finally, a comprehensive study is presented regarding the influence of pre-existing in-plane loads on the impact response of laminates. Impact events in several conditions, including both tensile and compressive preloads, both uniaxial and biaxial, were analysed by means of numerical finite element simulations; the case of laminates impacted in postbuckling conditions was also considered. The study focused on how the effect of preload varies with the span-to-thickness ratio of the specimen, which was found to be a key parameter. It is shown that a tensile preload has the strongest effect on the peak stresses at low span-to-thickness ratios, leading to a reduction of the minimum impact energy required to initiate damage, whereas this effect tends to disappear as the span-to-thickness ratio increases. On the other hand, a compression preload exhibits the most detrimental effects at medium span-to-thickness ratios, at which the laminate compressive strength and the critical instability load are close to each other, while the influence of preload can be negligible for thin plates or even beneficial for very thick plates. The possibility to obtain a better explanation of the experimental results described in the literature, in view of the present findings, is highlighted. Throughout the thesis the capabilities and limitations of the finite element model, which was implemented in an in-house program, are discussed. The program did not include any damage model of the material. It is shown that, although this kind of analysis can yield accurate results as long as damage has little effect on the overall mechanical properties of a laminate, it can be helpful in explaining some phenomena and also in distinguishing between what can be modelled without taking into account the material degradation and what requires an appropriate simulation of damage. Sommario. Questa tesi presenta una discussione su alcune tematiche specifiche riguardanti il comportamento dei compositi laminati soggetti ad impatto a bassa velocità. Tali tematiche sono state scelte per la loro importanza, oltre che per l’attenzione relativamente limitata ricevuta finora dalla comunità scientifica. La prima delle problematiche considerate è il confronto fra gli effetti prodotti da una prova sperimentale di impatto a bassa velocità e da una prova di indentazione quasi statica. Viene presentata un’analisi di entrambe le condizioni di prova, basata sui risultati di esperimenti condotti su laminati in fibra di carbonio e su calcoli numerici svolti con un modello ad elementi finiti. È mostrato che sia le prove quasi statiche sia quelle dinamiche portano a un danneggiamento con caratteristiche qualitativamente simili; tre valori di soglia caratteristici della forza di contatto, corrispondenti alle fasi principali di progressione del danno, sono stati individuati e stimati uguali per impatto e indentazione. D’altro canto lo stesso assorbimento di energia ha portato ad un’area delaminata maggiore nelle prove statiche rispetto a quelle dinamiche, mentre il massimo spostamento dell’impattatore (o indentatore) è risultato maggiore nel caso dell’impatto, indicando la probabilità di un danneggiamento delle fibre più severo rispetto al caso dell’indentazione. In secondo luogo è stato esaminato l’effetto di diverse dimensioni del provino e diverse condizioni al contorno sulla sua risposta all’impatto. Le prove sperimentali hanno mostrato che le relazioni fra l’area delaminata e due parametri di impatto significativi, l’energia assorbita e la massima forza di contatto, non dipendono dalle dimensioni nel piano dei provini e dalle loro condizioni di supporto. Viene anche discussa la possibilità di prevedere, per mezzo di un calcolo numerico semplificato, il verificarsi di delaminazioni durante un determinato caso di impatto. È presentato anche uno studio sul comportamento a compressione di laminati danneggiati da impatto. Diversamente della maggior parte della letteratura disponibile su questo argomento, vengono qui descritti i risultati di prove di compressione dopo impatto su laminati sottili durante le quali l’instabilità elastica globale dei provini non è stata impedita. Sono state considerate due differenti sequenze di laminazione quasi isotrope, oltre a due geometrie per i provini. Viene mostrato come nel caso di provini rettangolari la sequenza di laminazione possa influenzare sensibilmente il danno prodotto dall’impatto. Due diversi tipi di deformate in condizioni di instabilità sono stati osservati per laminati con diversa laminazione, in accordo con i risultati dell’analisi numerica. Gli esperimenti hanno mostrato inoltre che in certe situazioni il danno da impatto può alterare la deformata che il laminato assume in seguito ad instabilità; d’altra parte tale danno non ha sempre influenzato la resistenza a compressione, a seconda della deformata. Vengono proposte anche alcune considerazioni sulla significatività del metodo di prova utilizzato. Infine viene presentato uno studio esaustivo riguardo all’influenza di carichi membranali preesistenti sulla risposta all’impatto dei laminati. Sono stati analizzati con simulazioni numeriche ad elementi finiti casi di impatto in diverse condizioni di precarico, sia di trazione sia di compressione, sia monoassiali sia biassiali; è stato preso in considerazione anche il caso di laminati impattati in condizioni di postbuckling. Lo studio si è concentrato in particolare sulla dipendenza degli effetti del precarico dal rapporto larghezza-spessore del provino, che si è rivelato un parametro fondamentale. Viene illustrato che un precarico di trazione ha l’effetto più marcato sulle massime tensioni per bassi rapporti larghezza-spessore, portando ad una riduzione della minima energia di impatto necessaria per innescare il danneggiamento, mentre questo effetto tende a scomparire all’aumentare di tale rapporto. Il precarico di compressione evidenzia invece gli effetti più deleteri a rapporti larghezza-spessore intermedi, ai quali la resistenza a compressione del laminato e il suo carico critico di instabilità sono paragonabili, mentre l’influenza del precarico può essere trascurabile per piastre sottili o addirittura benefica per piastre molto spesse. Viene evidenziata la possibilità di trovare una spiegazione più soddisfacente dei risultati sperimentali riportati in letteratura, alla luce del presente contributo. Nel corso della tesi vengono anche discussi le potenzialità ed i limiti del modello ad elementi finiti utilizzato, che è stato implementato in un programma scritto in proprio. Il programma non comprende alcuna modellazione del danneggiamento del materiale. Viene però spiegato come, nonostante questo tipo di analisi possa portare a risultati accurati soltanto finché il danno ha scarsi effetti sulle proprietà meccaniche d’insieme del laminato, esso possa essere utile per spiegare alcuni fenomeni, oltre che per distinguere fra ciò che si può riprodurre senza tenere conto del degrado del materiale e ciò che invece richiede una simulazione adeguata del danneggiamento.
Resumo:
I policlorobifenili (PCB) sono inquinanti tossici e fortemente recalcitranti che contaminano suoli e sedimenti di acqua dolce e marini. Le tecnologie attualmente impiegate per la loro rimozione (dragaggio e trattamento chimoco-fisico o conferimento in discarica) sono molto costose, poco efficaci o ad alto impatto ambientale. L’individuazione di strategie alternative, di natura biologica, consentirebbe lo sviluppo di un processo alternativo più sostenibile. Nel processo di declorurazione riduttiva i congeneri di PCB a più alto grado di clorurazione, che sono i più tossici, recalcitranti e maggiormente tendenti al bioaccumulo, vengono utilizzati da alcuni microrganismi anaerobici come accettori finali di elettroni nella catena respiratoria e bioconvertiti in congeneri a minor grado di clorurazione, meno pericolosi, che possono essere mineralizzati da parte di batteri aerobi. La declorurazione riduttiva dei PCB è stata spesso studiata in colture anaerobiche di arricchimento in terreno minerale ottenute a partire da sedimenti di acqua dolce; questi studi hanno permesso di dimostrare che batteri del phylum dei Chloroflexi e appartenenti al genere Dehalococcoides o filogeneticamente facenti parte del gruppo dei Dehalococcoides-like sono i decloruranti. Sono tuttavia scarse le informazioni riguardanti l'occorrenza della declorurazione dei PCB in ambienti marini, nei quali l'alta salinità e concentrazione di solfati influenzano diversamente l'evoluzione delle popolazioni microbiche. In sedimenti contaminati della laguna di Venezia è stata osservata declorurazione sia dei PCB preesistenti che di congeneri esogeni; questi studi hanno permesso l'ottenimento di colture di arricchimento fortemente attive nei confronti di 5 congeneri di PCB coplanari. In questa tesi, a partire dalle colture capaci di declorurare i PCB coplanari, sono stati allestiti nuovi passaggi di arricchimento su Aroclor®1254, una miscela di PCB più complessa e che meglio rappresenta la contaminazione ambientale. Le colture sono state allestite come microcosmi anaerobici in fase slurry, preparati risospendendo il sedimento nell'acqua superficiale, ricreando in tal modo in laboratorio le stesse condizioni biogeochimiche presenti in situ; gli slurry sterili sono stati inoculati per avviare le colture. Per favorire la crescita dei microrganismi decloruranti e stimolare così la decloruraazione dei PCB sono stati aggiunti inibitori selettivi di metanogeni (Bromoetansulfonato o BES) e solfato-riduttori (molibdato), sono state fornite fonti di carbonio ed energia (eD), quali acidi grassi a corta catena e idrogeno, utilizzate di batteri decloruranti noti, e per semplificare la comunità microbica sono stati aggiunti antibiotici cui batteri decloruranti del genere Dehalococcoides sono resistenti. Con questo approccio sono stati allestiti passaggi di arricchimento successivi e le popolazioni microbiche delle colture sono state caratterizzate con analisi molecolari di fingerprinting (DGGE). Fin dal primo passaggio di arricchimento nei microcosmi non ammendati ha avuto luogo un'estesa declorurazione dell'Aroclor®1254; nei successivi passaggi si è notato un incremento della velocità del processo e la scomparsa della fase di latenza, mentre la stessa stereoselettività è stata mantenuta a riprova dell’arricchimento degli stessi microrganismi decloruranti. Le velocità di declorurazione ottenute sono molto alte se confrontate con quelle osservate in colture anaerobiche addizionate della stessa miscela descritte in letteratura. L'aggiunta di BES o molibdato ha bloccato la declorurazione dei PCB ma in presenza di BES è stata riscontrata attività dealogenante nei confronti di questa molecola. La supplementazione di fonti di energia e di carbonio ha stimolato la metanogenesi e i processi fermentativi ma non ha avuto effetti sulla declorurazione. Ampicillina e vancomicina hanno incrementato la velocità di declorurazione quando aggiunte singolarmente, insieme o in combinazione con eD. E' stato però anche dimostrato che la declorurazione dei PCB è indipendente sia dalla metanogenesi che dalla solfato-riduzione. Queste attività respiratorie hanno avuto velocità ed estensioni diverse in presenza della medesima attività declorurante; in particolare la metanogenesi è stata rilevata solo in dipendenza dall’aggiunta di eD alle colture e la solfato-riduzione è stata inibita dall’ampicillina in microcosmi nei quali un’estesa declorurazione dei PCB è stata osservata. La caratterizzazione delle popolazioni microbiche, condotte mediante analisi molecolari di fingerprinting (DGGE) hanno permesso di descrivere le popolazioni batteriche delle diverse colture come complesse comunità microbiche e di rilevare in tutte le colture decloruranti la presenza di una banda che l’analisi filogenetica ha ascritto al batterio m-1, un noto batterio declorurante in grado di dealogenare un congenere di PCB in colture di arricchimento ottenute da sedimenti marini appartenente al gruppo dei Dehalococcoides-like. Per verificare se la crescita di questo microrganismo sia legata alla presenza dei PCB, l'ultimo passaggio di arricchimento ha previsto l’allestimento di microcosmi addizionati di Aroclor®1254 e altri analoghi privi di PCB. Il batterio m-1 è stato rilevato in tutti i microcosmi addizionati di PCB ma non è mai stato rilevato in quelli in cui i PCB non erano presenti; la presenza di nessun altro batterio né alcun archebatterio è subordinata all’aggiunta dei PCB. E in questo modo stato dimostrato che la presenza di m-1 è dipendente dai PCB e si ritiene quindi che m-1 sia il declorurante in grado di crescere utilizzando i PCB come accettori di elettroni nella catena respiratoria anche in condizioni biogeochimiche tipiche degli habitat marini. In tutte le colture dell'ultimo passaggio di arricchimento è stata anche condotta una reazione di PCR mirata alla rilevazione di geni per dealogenasi riduttive, l’enzima chiave coinvolto nei processi di dealogenazione. E’ stato ottenuto un amplicone di lughezza analoga a quelle di tutte le dealogenasi note in tutte le colture decloruranti ma un tale amplificato non è mai stato ottenuto da colture non addizionate di PCB. La dealogenasi ha lo stesso comportamento di m-1, essendo stata trovata come questo sempre e solo in presenza di PCB e di declorurazione riduttiva. La sequenza di questa dealogenasi è diversa da tutte quelle note sia in termini di sequenza nucleotidica che aminoacidica, pur presentando due ORF con le stesse caratteristiche e domini presenti nelle dealogenasi note. Poiché la presenza della dealogenasi rilevata nelle colture dipende esclusivamente dall’aggiunta di PCB e dall’osservazione della declorurazione riduttiva e considerato che gran parte delle differenze genetiche è concentrata nella parte di sequenza che si pensa determini la specificità di substrato, si ritiene che la dealogenasi identificata sia specifica per i PCB. La ricerca è stata condotta in microcosmi che hanno ricreato fedelmente le condizioni biogeochimiche presenti in situ e ha quindi permesso di rendere conto del reale potenziale declorurante della microflora indigena dei sedimenti della laguna di Venezia. Le analisi molecolari condotte hanno permesso di identificare per la prima volta un batterio responsabile della declorurazione dei PCB in sedimenti marini (il batterio m-1) e una nuova dealogenasi specifica per PCB. L'identificazione del microrganismo declorurante permette di aprire la strada allo sviluppo di tecnologie di bioremediation mirata e il gene della dealogenasi potrà essere utilizzato come marker molecolare per determinare il reale potenziale di declorurazione di miscele complesse di PCB in sedimenti marini.
Resumo:
La tematica del presente scritto è l’analisi teorico-sperimentale del sistema edificio-impianto, che è funzione delle soluzioni progettuali adottate, dei componenti scelti e del tipo di conduzione prevista. La Direttiva 2010/31/CE sulle prestazioni energetiche degli edifici, entrata in vigore l’8 luglio 2010, pubblicata sulla Gazzetta Europea del 18 giugno 2010, sostituirà, dal 1º febbraio 2012, la direttiva 2002/91/CE. La direttiva prevede che vengano redatti piani nazionali destinati ad aumentare il numero di “edifici a energia quasi zero” e che entro il 31 dicembre 2020 tutti gli edifici di nuova costruzione dovranno essere “edifici a energia quasi zero”, per gli edifici pubblici questa scadenza è anticipata al 31 dicembre 2018. In questa prospettiva sono stati progettati due “edifici a energia quasi zero”, una villa monofamiliare e un complesso scolastico (scuola dell’infanzia, elementare, media inferiore) attualmente in via di realizzazione, con l’obiettivo principale di fornire un caso studio unico per ogni tipologia in quanto anche modulare e replicabile nella realtà del nostro territorio, che anticipano gli obiettivi fissati dalla Direttiva 2010/31/CE. I risultati ottenibili dai suddetti progetti, esposti nella tesi, sono il frutto di un attenta e proficua progettazione integrata, connubio tra progettazione architettonica ed energetico/impiantistica. La stessa progettazione ha esaminato le tecnologie, i materiali e le soluzioni tecniche “mirate” ai fini del comfort ambientale e di un’elevata prestazione energetica dell’edificio. Inoltre è stato dedicato ampio rilievo alla diagnosi energetica degli edifici esistenti attraverso 4 casi studio, i principali svolti durante i tre anni di dottorato di ricerca, esemplari del patrimonio edilizio italiano. Per ogni caso studio è stata condotta una diagnosi energetica dell’edificio, valutati i risultati e definita la classe energetica, ed in seguito sono stati presi in considerazione i possibili interventi migliorativi sia da un punto di vista qualitativo sia economico tenendo conto degli incentivi statali per l’incremento dell’efficienza energetica.
Resumo:
Nell’attuale contesto di aumento degli impatti antropici e di “Global Climate Change” emerge la necessità di comprenderne i possibili effetti di questi sugli ecosistemi inquadrati come fruitori di servizi e funzioni imprescindibili sui quali si basano intere tessiture economiche e sociali. Lo studio previsionale degli ecosistemi si scontra con l’elevata complessità di questi ultimi in luogo di una altrettanto elevata scarsità di osservazioni integrate. L’approccio modellistico appare il più adatto all’analisi delle dinamiche complesse degli ecosistemi ed alla contestualizzazione complessa di risultati sperimentali ed osservazioni empiriche. L’approccio riduzionista-deterministico solitamente utilizzato nell’implementazione di modelli non si è però sin qui dimostrato in grado di raggiungere i livelli di complessità più elevati all’interno della struttura eco sistemica. La componente che meglio descrive la complessità ecosistemica è quella biotica in virtù dell’elevata dipendenza dalle altre componenti e dalle loro interazioni. In questo lavoro di tesi viene proposto un approccio modellistico stocastico basato sull’utilizzo di un compilatore naive Bayes operante in ambiente fuzzy. L’utilizzo congiunto di logica fuzzy e approccio naive Bayes è utile al processa mento del livello di complessità e conseguentemente incertezza insito negli ecosistemi. I modelli generativi ottenuti, chiamati Fuzzy Bayesian Ecological Model(FBEM) appaiono in grado di modellizare gli stati eco sistemici in funzione dell’ elevato numero di interazioni che entrano in gioco nella determinazione degli stati degli ecosistemi. Modelli FBEM sono stati utilizzati per comprendere il rischio ambientale per habitat intertidale di spiagge sabbiose in caso di eventi di flooding costiero previsti nell’arco di tempo 2010-2100. L’applicazione è stata effettuata all’interno del progetto EU “Theseus” per il quale i modelli FBEM sono stati utilizzati anche per una simulazione a lungo termine e per il calcolo dei tipping point specifici dell’habitat secondo eventi di flooding di diversa intensità.