143 resultados para Letteratura italiana contemporanea


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Nella ricerca condotta sulle Osservazioni muratoriane alle Rime petrarchesche, si è tentato di mettere in luce la ‘scienza del commento’, ad esse sottesa, cui contribuivano gli snodi teorici, l’accertamento filologico, le strategie argomentative, i debiti esegetici. Tra difesa e riforma della poesia, il commento muratoriano si pone infatti, in piena età arcadica, al vertice della coniunctio tra esigenza conoscitiva e visione morale. Il «buon cammino» del Muratori, passando per le vie del Petrarca, sanciva di fatto una superiore giurisdizione letteraria, a cui rimettere come ad un foro esterno, censure e difese: colpisce, infatti, il suo vaglio tecnico-argomentativo delle Rime del Petrarca, valutate secondo concordanze, rinvii a commenti storici, connessioni intertestuali, analogie contenutistiche e stilistiche, struttura metrica, uso delle immagini di fantasia e loro mescidazione rispetto al verosimile. È insomma l’idea di un commento ‘ben proporzionato’, situato oltretutto in una zona di percorrenza mista, tra riuso e canonizzazione (come dimostra la sua ricezione nelle storiografie letterarie della seconda metà del XVIII secolo), diviso tra attenzione all’usus scribendi dell’autore e appelli collaborativi al lettore, quello che, grazie al Muratori, in piena età arcadica, riporterà al centro il petrarchismo: un petrarchismo potenziato, promosso ad insegnamento attivo e a sistema storicocritico che il buon gusto ridisegnava secondo nuove coperture normative ed esigenze metodologiche, ordinandolo, secondo uno stilema tipico della riflessione filosofico-religiosa muratoriana, ad una ‘regolata lettura’.

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I libretti che Pascoli scrisse in forma di abbozzi e che sognò potessero calcare il palcoscenico di un teatro furono davvero un “melodramma senza musica”. In primo luogo, perché non giunsero mai ad essere vestiti di note e ad arrivare in scena; ma anche perché il tentativo di scrivere per il teatro si tinse per Pascoli di toni davvero melodrammatici, nel senso musicale di sconfitta ed annullamento, tanto da fare di quella pagina della sua vita una piccola tragedia lirica, in cui c’erano tante parole e, purtroppo, nessuna musica. Gli abbozzi dei drammi sono abbastanza numerosi; parte di essi è stata pubblicata postuma da Maria Pascoli.1 Il lavoro di pubblicazione è stato poi completato da Antonio De Lorenzi.2 Ho deciso di analizzare solo quattro di questi abbozzi, che io reputo particolarmente significativi per poter cogliere lo sviluppo del pensiero drammatico e della poetica di Pascoli. I drammi che analizzo sono Nell’Anno Mille (con il rifacimento Il ritorno del giullare), Gretchen’s Tochter (con il rifacimento La figlia di Ghita), Elena Azenor la Morta e Aasvero o Caino nel trivio o l’Ebreo Errante. La prima ragione della scelta risiede nel fatto che questi abbozzi presentano una lunghezza più consistente dell’appunto di uno scheletro di dramma registrato su un foglietto e, quindi, si può seguire attraverso di essi il percorso della vicenda, delle dinamiche dei personaggi e dei significati dell’opera. Inoltre, questi drammi mostrano cosa Pascoli intendesse comporre per sollevare le vesti del libretto d’opera e sono funzionali all’esemplificazione delle sue concezioni teoriche sulla musica e il melodramma, idee che egli aveva espresso nelle lettere ad amici e compositori. In questi quattro drammi è possibile cogliere bene le motivazioni della scelta dei soggetti, il loro significato entro la concezione melodrammatica del poeta, il sistema simbolico che soggiace alla creazione delle vicende e dei personaggi e i legami con la poetica pascoliana. Compiere un’analisi di questo tipo significa per me, innanzitutto, risalire alle concezioni melodrammatiche di Pascoli e capire esattamente cosa egli intendesse per dramma musicale e per rinnovamento dello stesso. Pascoli parla di musica e dei suoi tentativi di scrivere per il teatro lirico nelle lettere ai compositori e, sporadicamente, ad alcuni amici (Emma Corcos, Luigi Rasi, Alfredo Caselli). La ricostruzione del pensiero e dell’estetica musicale di Pascoli ha dovuto quindi legarsi a ricerche d’archivio e di materiali inediti o editi solo in parte e, nella maggioranza dei casi, in pubblicazioni locali o piuttosto datate (i primi anni del Novecento). Quindi, anche in presenza della pubblicazione di parte del materiale necessario, quest’ultimo non è certo facilmente e velocemente consultabile e molto spesso è semi sconosciuto. Le lettere di Pascoli a molti compositori sono edite solo parzialmente; spesso, dopo quei primi anni del Novecento, in cui chi le pubblicò poté vederle presso i diretti possessori, se ne sono perse le tracce. Ho cercato di ricostruire il percorso delle lettere di Pascoli a Giacomo Puccini, Riccardo Zandonai, Giovanni Zagari, Alfredo Cuscinà e Guglielmo Felice Damiani. Si tratta sempre di contatti che Pascoli tenne per motivi musicali, legati alla realizzazione dei suoi drammi. O per le perdite prodotte dalla storia (è il 1 Giovanni Pascoli, Nell’Anno Mille. Sue notizie e schemi da altri drammi, a c. di Maria Pascoli, Bologna, Zanichelli, 1924. 2 Giovanni Pascoli, Testi teatrali inediti, a c. di Antonio De Lorenzi, Ravenna, Longo, 1979. caso delle lettere di Pascoli a Zandonai, che andarono disperse durante la seconda guerra mondiale, come ha ricordato la prof.ssa Tarquinia Zandonai, figlia del compositore) o per l’impossibilità di stabilire contatti quando i possessori dei materiali sono privati e, spesso, collezionisti, questa parte delle mie ricerche è stata vana. Mi è stato possibile, però, ritrovare gli interi carteggi di Pascoli e i due Bossi, Marco Enrico e Renzo. Le lettere di Pascoli ai Bossi, di cui do notizie dettagliate nelle pagine relative ai rapporti con i compositori e all’analisi dell’Anno Mille, hanno permesso di cogliere aspetti ulteriori circa il legame forte e meditato che univa il poeta alla musica e al melodramma. Da queste riflessioni è scaturita la prima parte della tesi, Giovanni Pascoli, i musicisti e la musica. I rapporti tra Pascoli e i musicisti sono già noti grazie soprattutto agli studi di De Lorenzi. Ho sentito il bisogno di ripercorrerli e di darne un aggiornamento alla luce proprio dei nuovi materiali emersi, che, quando non sono gli inediti delle lettere di Pascoli ai Bossi, possono essere testi a stampa di scarsa diffusione e quindi poco conosciuti. Il quadro, vista la vastità numerica e la dispersione delle lettere di Pascoli, può subire naturalmente ancora molti aggiornamenti e modifiche. Quello che ho qui voluto fare è stato dare una trattazione storico-biografica, il più possibile completa ed aggiornata, che vedesse i rapporti tra Pascoli e i musicisti nella loro organica articolazione, come premessa per valutare le posizioni del poeta in campo musicale. Le lettere su cui ho lavorato rientrano tutte nel rapporto culturale e professionale di Pascoli con i musicisti e non toccano aspetti privati e puramente biografici della vita del poeta: sono legate al progetto dei drammi teatrali e, per questo, degne di interesse. A volte, nel passato, alcune di queste pagine sono state lette, soprattutto da giornalisti e non da critici letterari, come un breve aneddoto cronachistico da inserire esclusivamente nel quadro dell’insuccesso del Pascoli teatrale o come un piccolo ragguaglio cronologico, utile alla datazione dei drammi. Ricostruire i rapporti con i musicisti equivale nel presente lavoro a capire quanto tenace e meditato fu l’avvicinarsi di Pascoli al mondo del teatro d’opera, quali furono i mezzi da lui perseguiti e le proposte avanzate; sempre ho voluto e cercato di parlare in termini di materiale documentario e archivistico. Da qui il passo ad analizzare le concezioni musicali di Pascoli è stato breve, dato che queste ultime emergono proprio dalle lettere ai musicisti. L’analisi dei rapporti con i compositori e la trattazione del pensiero di Pascoli in materia di musica e melodramma hanno in comune anche il fatto di avvalersi di ricerche collaterali allo studio della letteratura italiana; ricerche che sconfinano, per forza di cose, nella filosofia, estetica e storia della musica. Non sono una musicologa e non è stata mia intenzione affrontare problematiche per le quali non sono provvista di conoscenze approfonditamente adeguate. Comprendere il panorama musicale di quegli anni e i fermenti che si agitavano nel teatro lirico, con esiti vari e contrapposti, era però imprescindibile per procedere in questo cammino. Non sono pertanto entrata negli anfratti della storia della musica e della musicologia, ma ho compiuto un volo in deltaplano sopra quella terra meravigliosa e sconfinata che è l’opera lirica tra Ottocento e Novecento. Molti consigli, per non smarrirmi in questo volo, mi sono venuti da valenti musicologi ed esperti conoscitori della materia, che ho citato nei ringraziamenti e che sempre ricordo con viva gratitudine. Utile per gli studi e fondamentale per questo mio lavoro è stato riunire tutte le dichiarazioni, da me conosciute finora, fornite da Pascoli sulla musica e il melodramma. Ne emerge quella che è la filosofia pascoliana della musica e la base teorica della scrittura dei suoi drammi. Da questo si comprende bene perché Pascoli desiderasse tanto scrivere per il teatro musicale: egli riteneva che questo fosse il genere perfetto, in cui musica e parola si compenetravano. Così, egli era convinto che la sua arte potesse parlare ed arrivare a un pubblico più vasto. Inoltre e soprattutto, egli intese dare, in questo modo, una precisa risposta a un dibattito europeo sul rinnovamento del melodramma, da lui molto sentito. La scrittura teatrale di Pascoli non è tanto un modo per trovare nuove forme espressive, quanto soprattutto un tentativo di dare il suo contributo personale a un nuovo teatro musicale, di cui, a suo dire, l’umanità aveva bisogno. Era quasi un’urgenza impellente. Le risposte che egli trovò sono in linea con svariate concezioni di quegli anni, sviluppate in particolare dalla Scapigliatura. Il fatto poi che il poeta non riuscisse a trovare un compositore disposto a rischiare fino in fondo, seguendolo nelle sue creazioni di drammi tutti interiori, con scarso peso dato all’azione, non significa che egli fosse una voce isolata o bizzarra nel contesto culturale a lui contemporaneo. Si potranno, anche in futuro, affrontare studi sugli elementi di vicinanza tra Pascoli e alcuni compositori o possibili influenze tra sue poesie e libretti d’opera, ma penso non si potrà mai prescindere da cosa egli effettivamente avesse ascoltato e avesse visto rappresentato. Il che, documenti alla mano, non è molto. Solo ciò a cui possiamo effettivamente risalire come dato certo e provato è valido per dire che Pascoli subì il fascino di questa o di quell’opera. Per questo motivo, si trova qui (al termine del secondo capitolo), per la prima volta, un elenco di quali opere siamo certi Pascoli avesse ascoltato o visto: lo studio è stato possibile grazie ai rulli di cartone perforato per il pianoforte Racca di Pascoli, alle testimonianze della sorella Maria circa le opere liriche che il poeta aveva ascoltato a teatro e alle lettere del poeta. Tutto questo è stato utile per l’interpretazione del pensiero musicale di Pascoli e dei suoi drammi. I quattro abbozzi che ho scelto di analizzare mostrano nel concreto come Pascoli pensasse di attuare la sua idea di dramma e sono quindi interpretati attraverso le sue dichiarazioni di carattere musicale. Mi sono inoltre avvalsa degli autografi dei drammi, conservati a Castelvecchio. In questi abbozzi hanno un ruolo rilevante i modelli che Pascoli stesso aveva citato nelle sue lettere ai compositori: Wagner, Dante, Debussy. Soprattutto, Nell’Anno Mille, il dramma medievale sull’ultima notte del Mille, vede la significativa presenza del dantismo pascoliano, come emerge dai lavori di esegesi della Commedia. Da questo non è immune nemmeno Aasvero o Caino nel trivio o l’Ebreo Errante, che è il compimento della figura di Asvero, già apparsa nella poesia di Pascoli e portatrice di un messaggio di rinascita sociale. I due drammi presentano anche una specifica simbologia, connessa alla figura e al ruolo del poeta. Predominano, invece, in Gretchen’s Tochter e in Elena Azenor la Morta le tematiche legate all’archetipo femminile, elemento ambiguo, materno e infero, ma sempre incaricato di tenere vivo il legame con l’aldilà e con quanto non è direttamente visibile e tangibile. Per Gretchen’s Tochter la visione pascoliana del femminile si innesta sulle fonti del dramma: il Faust di Marlowe, il Faust di Goethe e il Mefistofele di Boito. I quattro abbozzi qui analizzati sono la prova di come Pascoli volesse personificare nel teatro musicale i concetti cardine e i temi dominanti della sua poesia, che sarebbero così giunti al grande pubblico e avrebbero avuto il merito di traghettare l’opera italiana verso le novità già percorse da Wagner. Nel 1906 Pascoli aveva chiaramente compreso che i suoi drammi non sarebbero mai arrivati sulle scene. Molti studi e molti spunti poetici realizzati per gli abbozzi gli restavano inutilizzati tra le mani. Ecco, allora, che buona parte di essi veniva fatta confluire nel poema medievale, in cui si cantano la storia e la cultura italiane attraverso la celebrazione di Bologna, città in cui egli era appena rientrato come professore universitario, dopo avervi già trascorso gli anni della giovinezza da studente. Le Canzoni di Re Enzio possono quindi essere lette come il punto di approdo dell’elaborazione teatrale, come il “melodramma senza musica” che dà il titolo a questo lavoro sul pensiero e l’opera del Pascoli teatrale. Già Cesare Garboli aveva collegato il manierismo con cui sono scritte le Canzoni al teatro musicale europeo e soprattutto a Puccini. Alcuni precisi parallelismi testuali e metrici e l’uso di fonti comuni provano che il legame tra l’abbozzo dell’Anno Mille e le Canzoni di Re Enzio è realmente attivo. Le due opere sono avvicinate anche dalla presenza del sostrato dantesco, tenendo presente che Dante era per Pascoli uno dei modelli a cui guardare proprio per creare il nuovo e perfetto dramma musicale. Importantissimo, infine, è il piccolo schema di un dramma su Ruth, che egli tracciò in una lettera della fine del 1906, a Marco Enrico Bossi. La vicinanza di questo dramma e di alcuni degli episodi principali della Canzone del Paradiso è tanto forte ed evidente da rendere questo abbozzo quasi un cartone preparatorio della Canzone stessa. Il Medioevo bolognese, con il suo re prigioniero, la schiava affrancata e ancella del Sole e il giullare che sulla piazza intona la Chanson de Roland, costituisce il ritorno del dramma nella poesia e l’avvento della poesia nel dramma o, meglio, in quel continuo melodramma senza musica che fu il lungo cammino del Pascoli librettista.

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Angela da Foligno’s Liber is a fundamental text for the scholar of Women Mystics between the XIIIth and the XIVth century in Italy and all over Europe, and it has been chosen in my research because of its originality, with refer of its feminine and franciscan essence. Angela teaches to the italian hagiographic tradition the internal point of view of the holy woman, who becomes the teller of her both ordinary and extraordinary experiences. After giving references about the religious and social historical universe in evolution during the XIIth century, my research proceeds with a linguistic and rhetorical analysis based upon the Liber. I have been searching in Angela’s text and in contemporary italian feminine hagiography the sensory metaphor of “tasting”. That kind of metaphor has an ancient memory and, thanks to the Origene’s studies - the Christian Father of the IIIrd century - we can easily recognize it already in the Bible; Origene identifies the sensory metaphor as a rhetoric system, able to exemplify the God learning process of soul. Theory of “spiritual senses”, theory of vision and rhetoric, evolving from the IIIrd to the XIIIth century, are the theological and linguistic heritage of our feminine and franciscan literature. Inside of that, the metaphor of “tasting” moves and changes, therefore becoming the favourite way of mystics to represent the contact of their souls with God.

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La ricerca verte sull’udinese Michele Leskovic (1905-1979), noto con lo pseudonimo di Escodamè, attivo in campo futurista dal 1920 fino alla fine degli anni Trenta. Il lavoro ricostruisce il periodo futurista di Leskovic utilizzando sia documentazione edita sia inedita rintracciata presso numerose Biblioteche ed Archivi pubblici e privati italiani e presso la Beinecke Rare Book and Manuscript Library dell’Università di Yale. Tra gli inediti utilizzati, numerosi quelli provenienti dall’archivio privato di Michele Leskovic conservato presso «Casa Lyda Borelli per Operatori ed Artisti dello Spettacolo» di Bologna dove Leskovic visse dal 1970 alla morte insieme alla moglie, l’attrice Camilla Orlandini (1896-1975). Sono qui analizzate tutte le attività svolte dal futurista udinese sia in maniera estemporanea sia continuativa ed approfondita. Particolare attenzione è rivolta alle ricerche condotte in tre campi specifici: la poetica, la poesia ed il teatro, nei quali Leskovic ha raggiunto risultati di indubbio interesse ed originalità. I testi pubblicati da Leskovic da un lato sono stati collazionati con sue stesse carte inedite (spesso abbozzi preparatori) e dall’altro arricchiti nel confronto con le opere di altri membri del movimento futurista e soprattutto con Marinetti, del quale Leskovic risulta essere stato attivo collaboratore.

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La tesi si occupa della traduzione di Measure for Measure di Shakespeare scritta da Cesare Garboli e pubblicata nel 1992 con Einaudi nella collana «Scrittori tradotti da scrittori». La traduzione fu concepita per il Teatro Stabile di Torino diretto da Luca Ronconi, che debuttò al teatro Carignano nel 1992 e venne successivamente ripresa, con alcune varianti, dalla compagnia di Carlo Cecchi nel 1998, per una nuova messinscena al teatro Garibaldi di Palermo. A partire dagli esiti più recenti dei Translation Studies, il lavoro sviluppa uno studio comparato, dal punto di vista linguistico e sotto il profilo ermeneutico, fra la traduzione di Garboli, il testo originale nelle due edizioni Arden e Cambridge e le traduzioni italiane di Measure for Measure pubblicate nel Novecento. La parte finale della tesi è dedicata alle messinscene a Torino e a Palermo: un confronto per evidenziare gli elementi che in entrambe appartengono alla strutturazione del testo tradotto e i caratteri specifici degli universi di finzione raffigurati dai due registi.

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Si procede ad un’analisi diacronica delle tre redazioni del commento dantesco di Benvenuto da Imola (dalle "recollectae" bolognesi e ferraresi al "Comentum"), considerando il testo benvenutiano quale «opera umana o lavoro in fieri», di cui rappresentare «drammaticamente la vita dialettica», così come il Contini iniziava a fare, negli anni ’30, con gli ʻscartafacciʼ ariosteschi. Secondo tale impostazione, si prende in esame la multiforme attitudine pedagogica di Benvenuto, di cui si indica, con riferimento ad altri commentatori coevi, danteschi e non, il contesto operativo. Nella seconda parte si ricostruisce, in senso sempre diacronico, la problematica oscillazione del commentatore tra tendenze avanguardistiche in direzione umanistico-petrarchesca e strenua apologia del testo dantesco. Nella terza ed ultima parte sono vagliate le originali idee benvenutiane riguardo alla lingua e alla poesia della Commedia, delle quali si ripercorre, attraverso l’esame delle varianti redazionali, la progressiva messa a fuoco. Obiettivo dell’elaborato, insomma, è restituire una descrizione organica e problematica della ricerca dantesca, "in progress", portata avanti da Benvenuto da Imola.

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Il presente progetto di ricerca propone l’esegesi di alcune sezioni delle Grazie di Ugo Foscolo, secondo l’Edizione Nazionale (1985), a cura di Pagliai-Scotti. È stato fornito il commento delle seguenti sezioni: Prima redazione dell’Inno, Seconda redazione dell’Inno e Appendice alla Seconda redazione dell’Inno, Versi del Rito, Quadernone, Stesure milanesi: Viaggio delle api e frammenti sparsi. Tutte le stesure della Prima redazione dell’Inno e alcuni frammenti delle Stesure milanesi non erano mai stati commentati fino ad ora. Il commento offre una ricostruzione dell’intertesto delle Grazie – le fonti letterarie, erudite e figurative –, e punta alla storicizzazione e alla contestualizzazione della poesia di Foscolo. Attraverso lo studio dei frammenti nella loro evoluzione è possibile intendere come i tre inni, diventati uno soltanto nella redazione del Quadernone, rappresentino la sintesi di tutto il sapere e gli interessi foscoliani (eruditi, scientifici, filosofico-estetici e letterari), e come essi, sin dai primi esiti poetici, siano specchio delle esperienze biografiche dell’autore. Il commento proposto nella tesi ribadisce la complessità della poesia delle Grazie, nelle sue componenti civili e didattiche. Esso avanza nuovi e importanti spunti di indagine, ponendosi come viatico indispensabile per un futuro commento integrale.

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La tesi di ricerca ha portato alla realizzazione di un’edizione critica del Giappone di Daniello Bartoli (1660): per la prima volta la «seconda parte» dell’Asia trova, in questo lavoro, una trascrizione integrale condotta con moderni criteri filologi. Quanto all’esegesi la ricerca ha visto la compilazione di tre «Schedari»: un «Indice dei nomi», che vede l’identificazione dei personaggi storici citati esplicitamente nell’opera, ne traccia un rapido profilo biografico e ne fornisce precisa e aggiornata bibliografia. Per quanto riguarda i missionari evocati dall’autore nel testo, questa sezione indica se (e dove) si tratta di personaggio o di fonte (registrando, nel caso, il luogo o i luoghi in cui Bartoli ricorre a tale testimonianza); un «Indice dei luoghi», che dà l’indicazione moderna del luogo citato e ne fornisce il riscontro con i repertori più aggiornati; un «Lessico» riservato ai termini giapponesi presenti nel testo che vengono spiegati e, là dove possibile, studiati nella loro storia, nella loro presenza nella coeva letteratura di viaggio e corredati di utili riferimenti bibliografici. Le pagine introduttive inquadrano l’opera di Bartoli sia nell’orizzonte biografico dell’autore sia nel milieu gesuitico barocco, fornendo puntuali coordinate storiche grazie alle quali recuperare il più ampio contesto delle missioni gesuitiche nell’Estremo Oriente tra Cinque e Seicento. Particolare attenzione è stata riservata al modo di intendere il compito dello storico da parte di Bartoli: una storiografia la sua che s’intreccia in modi affatto peculiari alle diverse forme stilistiche e dinamiche retoriche richieste dalle altre due grandi attività a cui egli dedicò impegno e passione: l’insegnamento e la predicazione.

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Con le "Imagini degli dei degli antichi", pubblicate a Venezia nel 1556 e poi in più edizioni arricchite e illustrate, l’impegnato gentiluomo estense Vincenzo Cartari realizza il primo, fortunatissimo manuale mitografico italiano in lingua volgare, diffuso e tradotto in tutta l’Europa moderna. Cartari rimodula, secondo accenti divulgativi ma fedeli, fonti latine tradizionali: come le ricche "Genealogie deorum gentilium" di Giovanni Boccaccio, l’appena precedente "De deis gentium varia et multiplex historia" di Lilio Gregorio Giraldi, i curiosi "Fasti" ovidiani, da lui stesso commentati e tradotti. Soprattutto, però, introduce il patrimonio millenario di favole ed esegesi classiche, di aperture egiziane, mediorientali, sassoni, a una chiave di lettura inedita, agile e vitalissima: l’ecfrasi. Le divinità e i loro cortei di creature minori, aneddoti leggendari e attributi identificativi si susseguono secondo un taglio iconico e selettivo. Sfilano, in trionfi intrisi di raffinato petrarchismo neoplatonico e di emblematica picta poesis rinascimentale, soltanto gli aspetti figurabili e distintivi dei personaggi mitici: perché siano «raccontate interamente» tutte le cose attinenti alle figure antiche, «con le imagini quasi di tutti i dei, e le ragioni perché fossero così dipinti». Così, le "Imagini" incontrano il favore di lettori colti e cortigiani eleganti, di pittori e ceramisti, di poeti e artigiani. Allestiscono una sorta di «manuale d’uso» pronto all’inchiostro del poeta o al pennello dell’artista, una suggestiva raccolta di «libretti figurativi» ripresi tanto dalla maniera di Paolo Veronese o di Giorgio Vasari, quanto dal classicismo dei Carracci e di Nicolas Poussin. Si rivelano, infine, summa erudita capace di attirare appunti e revisioni: l’antiquario padovano Lorenzo Pignoria, nel 1615 e di nuovo nel 1626, vi aggiunge appendici archeologiche e comparatistiche, interessate al remoto regno dei faraoni quanto agli esotici idoli orientali e dei Nuovi Mondi.

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La tesi di Dottorato, saldamente ancorata alle Medical Humanities, si è concentrata sul modo in cui la storia della letteratura italiana si intreccia con le altre discipline, per arrivare a configurare quell’ampio panorama di storia delle idee che aiuta a valutare l’evoluzione stessa delle credenze e dei pensieri dell’uomo nel corso del tempo. Essa ha contribuito a portare alla luce l’apporto dato dalla Società Medica Chirurgica di Bologna in Epoca Pontificia alla circolarità del pensiero medico, ricordando con forza che le varie correnti storico-mediche non sono appunto il semplice susseguirsi di teorie più o meno esatte. La tesi rende pienamente visibili non solo la struttura e le dinamiche della comunicazione scientifica, ma documenta attraverso la letteratura (anche quella scientifica) la presenza della medicina e delle sue pratiche all’interno della società, soffermandosi sui meccanismi, sui percorsi che legano i fenomeni tra loro; viene declinato anche il complesso e travagliato processo teso a ridefinire la figura del medico durante l’epoca del dominio pontificio nel suo declino, circondata da diffidenze e ostilità. Il fulcro della tesi è dato dalla dimostrazione inconfutabile che esiste ancora un ruolo per la cultura umanistica nella formazione del medico.

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La tesi indaga la ricezione di Carducci nella cultura italiana ed europea dei primi decenni del XX secolo attraverso lo studio delle commemorazioni, delle memorie, degli articoli e dei saggi dedicati al poeta maremmano, al fine di mettere in luce il complesso ruolo ricoperto dallo scrittore e le strumentalizzazioni di cui è stato vittima.

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L'affermarsi della teoria della « imaginative geography » di Edward Saïd (Orientalism, 1978), nell'arco degli ultimi trent'anni, ha imposto un orientamento prettamente sociopolitico, gramsciano e foucaultiano alla critica del testo, proponendo un'unica soluzione interpretativa per un corpus eterogeneo di testi (scientifici e artistici, antichi e moderni) accomunati dal fatto di « rappresentare l'Oriente ». La costruzione europea dello spazio orientale, dice Saïd, non rappresenta solo un misconoscimento dell'Altro, ma una sua rappresentazione tendenziosa e finalizzata a sostenere la macchina dell'imperialismo occidentale. In particolare, la rappresentazione « femminilizzata » della geografia orientale (come luogo dell'exploit del maschio bianco) preparebbe e accompagnerebbe l'impresa di assoggettamento politico e di sfruttamento economico dei paesi ad Est dell'Europa. Se Orientalism ha conosciuto fortune alterne dall'anno della sua apparizione, negli ultimi anni una vera e propria corrente anti-saidiana ha preso forza, soprattutto in ambito francese. Attraverso l'analisi di circa trenta opere francesi, belga, inglesi e italiane del Novecento, questa tesi cerca di visualizzare i limiti teorici della prospettiva saidiana rivolgendosi a un esame della rappresentazione dello spazio urbano indiano nella letteratura europea contemporanea. Nello specifico, uno studio delle nuove strutture e dei nuovi modelli della femminilizzazione dello spazio orientale indiano cercherà di completare – superandolo in direzione di un « post-orientalismo » – il riduzionismo della prospettiva saidiana.

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Ci sono due luoghi astronomici nella Vita Nova con i quali Dante calcola il tempo in cui si verificano gli episodi principali della storia narrata. Queste nozioni scientifiche contengono implicito un significato astrologico, connesso all’influsso del segno zodiacale dei Gemelli, configurazione astrologica che torna ad ogni anniversario. I Gemelli è il segno zodiacale di Dante, come il poeta afferma nella Commedia: l’invocazione del pellegrino alla costellazione omonima, alla cui influenza egli deve il suo ingegno (Par. XXII, 112-123), riconosce all’astrologia, attraverso il motivo delle qualità personali instillate dagli astri, il compito di esaltare il suo ruolo di poeta divinamente ispirato. L’importanza di questo segno è evidente nella Vita Nova: I Gemelli è probabilmente il segno zodiacale di Beatrice, come il poeta sembra suggerire in VN 1, 3 [II, 2], se si considera il fatto che, al verificarsi del primo incontro tra Dante e Beatrice, la fanciulla non aveva ancora iniziato il suo nono anno di vita («quasi»). Il colore dell’abito di Beatrice, «sanguigno» (VN 1, 4; II, 3), può riferirsi al temperamento della donna, e confermare così la sua appartenenza a quel segno. In seguito, la buona influenza del segno torna in VN 19, 4 [XXIX, 1], il capitolo dedicato alla morte di Beatrice. La donna muore l’8 giugno 1290, così anche la sua morte accade in Gemelli. Tutti gli eventi della Vita Nova sono garantiti dalle stelle, e Dante nel «libello» non fa che esaltare l’importanza dell’azione dei cieli influenti sulla vita umana.