67 resultados para Gesualdo, Carlo, príncipe di Venosa, ca.1560-1613


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L’ermeneutica filosofica di Hans-Georg Gadamer – indubbiamente uno dei capisaldi del pensiero novecentesco – rappresenta una filosofia molto composita, sfaccettata e articolata, per così dire formata da una molteplicità di dimensioni diverse che si intrecciano l’una con l’altra. Ciò risulta evidente già da un semplice sguardo alla composizione interna della sua opera principale, Wahrheit und Methode (1960), nella quale si presenta una teoria del comprendere che prende in esame tre differenti dimensioni dell’esperienza umana – arte, storia e linguaggio – ovviamente concepite come fondamentalmente correlate tra loro. Ma questo quadro d’insieme si complica notevolmente non appena si prendano in esame perlomeno alcuni dei numerosi contributi che Gadamer ha scritto e pubblicato prima e dopo il suo opus magnum: contributi che testimoniano l’importante presenza nel suo pensiero di altre tematiche. Di tale complessità, però, non sempre gli interpreti di Gadamer hanno tenuto pienamente conto, visto che una gran parte dei contributi esegetici sul suo pensiero risultano essenzialmente incentrati sul capolavoro del 1960 (ed in particolare sui problemi della legittimazione delle Geisteswissenschaften), dedicando invece minore attenzione agli altri percorsi che egli ha seguito e, in particolare, alla dimensione propriamente etica e politica della sua filosofia ermeneutica. Inoltre, mi sembra che non sempre si sia prestata la giusta attenzione alla fondamentale unitarietà – da non confondere con una presunta “sistematicità”, da Gadamer esplicitamente respinta – che a dispetto dell’indubbia molteplicità ed eterogeneità del pensiero gadameriano comunque vige al suo interno. La mia tesi, dunque, è che estetica e scienze umane, filosofia del linguaggio e filosofia morale, dialogo con i Greci e confronto critico col pensiero moderno, considerazioni su problematiche antropologiche e riflessioni sulla nostra attualità sociopolitica e tecnoscientifica, rappresentino le diverse dimensioni di un solo pensiero, le quali in qualche modo vengono a convergere verso un unico centro. Un centro “unificante” che, a mio avviso, va individuato in quello che potremmo chiamare il disagio della modernità. In altre parole, mi sembra cioè che tutta la riflessione filosofica di Gadamer, in fondo, scaturisca dalla presa d’atto di una situazione di crisi o disagio nella quale si troverebbero oggi il nostro mondo e la nostra civiltà. Una crisi che, data la sua profondità e complessità, si è per così dire “ramificata” in molteplici direzioni, andando ad investire svariati ambiti dell’esistenza umana. Ambiti che pertanto vengono analizzati e indagati da Gadamer con occhio critico, cercando di far emergere i principali nodi problematici e, alla luce di ciò, di avanzare proposte alternative, rimedi, “correttivi” e possibili soluzioni. A partire da una tale comprensione di fondo, la mia ricerca si articola allora in tre grandi sezioni dedicate rispettivamente alla pars destruens dell’ermeneutica gadameriana (prima e seconda sezione) ed alla sua pars costruens (terza sezione). Nella prima sezione – intitolata Una fenomenologia della modernità: i molteplici sintomi della crisi – dopo aver evidenziato come buona parte della filosofia del Novecento sia stata dominata dall’idea di una crisi in cui verserebbe attualmente la civiltà occidentale, e come anche l’ermeneutica di Gadamer possa essere fatta rientrare in questo discorso filosofico di fondo, cerco di illustrare uno per volta quelli che, agli occhi del filosofo di Verità e metodo, rappresentano i principali sintomi della crisi attuale. Tali sintomi includono: le patologie socioeconomiche del nostro mondo “amministrato” e burocratizzato; l’indiscriminata espansione planetaria dello stile di vita occidentale a danno di altre culture; la crisi dei valori e delle certezze, con la concomitante diffusione di relativismo, scetticismo e nichilismo; la crescente incapacità a relazionarsi in maniera adeguata e significativa all’arte, alla poesia e alla cultura, sempre più degradate a mero entertainment; infine, le problematiche legate alla diffusione di armi di distruzione di massa, alla concreta possibilità di una catastrofe ecologica ed alle inquietanti prospettive dischiuse da alcune recenti scoperte scientifiche (soprattutto nell’ambito della genetica). Una volta delineato il profilo generale che Gadamer fornisce della nostra epoca, nella seconda sezione – intitolata Una diagnosi del disagio della modernità: il dilagare della razionalità strumentale tecnico-scientifica – cerco di mostrare come alla base di tutti questi fenomeni egli scorga fondamentalmente un’unica radice, coincidente peraltro a suo giudizio con l’origine stessa della modernità. Ossia, la nascita della scienza moderna ed il suo intrinseco legame con la tecnica e con una specifica forma di razionalità che Gadamer – facendo evidentemente riferimento a categorie interpretative elaborate da Max Weber, Martin Heidegger e dalla Scuola di Francoforte – definisce anche «razionalità strumentale» o «pensiero calcolante». A partire da una tale visione di fondo, cerco quindi di fornire un’analisi della concezione gadameriana della tecnoscienza, evidenziando al contempo alcuni aspetti, e cioè: primo, come l’ermeneutica filosofica di Gadamer non vada interpretata come una filosofia unilateralmente antiscientifica, bensì piuttosto come una filosofia antiscientista (il che naturalmente è qualcosa di ben diverso); secondo, come la sua ricostruzione della crisi della modernità non sfoci mai in una critica “totalizzante” della ragione, né in una filosofia della storia pessimistico-negativa incentrata sull’idea di un corso ineluttabile degli eventi guidato da una razionalità “irrazionale” e contaminata dalla brama di potere e di dominio; terzo, infine, come la filosofia di Gadamer – a dispetto delle inveterate interpretazioni che sono solite scorgervi un pensiero tradizionalista, autoritario e radicalmente anti-illuminista – non intenda affatto respingere l’illuminismo scientifico moderno tout court, né rinnegarne le più importanti conquiste, ma più semplicemente “correggerne” alcune tendenze e recuperare una nozione più ampia e comprensiva di ragione, in grado di render conto anche di quegli aspetti dell’esperienza umana che, agli occhi di una razionalità “limitata” come quella scientista, non possono che apparire come meri residui di irrazionalità. Dopo aver così esaminato nelle prime due sezioni quella che possiamo definire la pars destruens della filosofia di Gadamer, nella terza ed ultima sezione – intitolata Una terapia per la crisi della modernità: la riscoperta dell’esperienza e del sapere pratico – passo quindi ad esaminare la sua pars costruens, consistente a mio giudizio in un recupero critico di quello che egli chiama «un altro tipo di sapere». Ossia, in un tentativo di riabilitazione di tutte quelle forme pre- ed extra-scientifiche di sapere e di esperienza che Gadamer considera costitutive della «dimensione ermeneutica» dell’esistenza umana. La mia analisi della concezione gadameriana del Verstehen e dell’Erfahrung – in quanto forme di un «sapere pratico (praktisches Wissen)» differente in linea di principio da quello teorico e tecnico – conduce quindi ad un’interpretazione complessiva dell’ermeneutica filosofica come vera e propria filosofia pratica. Cioè, come uno sforzo di chiarificazione filosofica di quel sapere prescientifico, intersoggettivo e “di senso comune” effettivamente vigente nella sfera della nostra Lebenswelt e della nostra esistenza pratica. Ciò, infine, conduce anche inevitabilmente ad un’accentuazione dei risvolti etico-politici dell’ermeneutica di Gadamer. In particolare, cerco di esaminare la concezione gadameriana dell’etica – tenendo conto dei suoi rapporti con le dottrine morali di Platone, Aristotele, Kant e Hegel – e di delineare alla fine un profilo della sua ermeneutica filosofica come filosofia del dialogo, della solidarietà e della libertà.

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The conversion coefficients from air kerma to ICRU operational dose equivalent quantities for ENEA’s realization of the X-radiation qualities L10-L35 of the ISO “Low Air Kerma rate” series (L), N10-N40 of the ISO “Narrow spectrum” series (N) and H10-H60 of the ISO “High Air-kerma rate” (H) series and two beams at 5 kV and 7.5 kV were determined by utilising X-ray spectrum measurements. The pulse-height spectra were measured using a planar high-purity germanium spectrometer (HPGe) and unfolded to fluence spectra using a stripping procedure then validate with using Monte Carlo generated data of the spectrometer response. HPGe portable detector has a diameter of 8.5 mm and a thickness of 5 mm. The entrance window of the crystal is collimated by a 0.5 mm thick Aluminum ring to an open diameter of 6.5 mm. The crystal is mounted at a distance of 5 mm from the Berillium window (thickness 25.4 micron). The Monte Carlo method (MCNP-4C) was used to calculate the efficiency, escape and Compton curves of a planar high-purity germanium detector (HPGe) in the 5-60 keV energy. These curves were used for the determination of photon spectra produced by the X-ray machine SEIFERT ISOVOLT 160 kV in order to allow a precise characterization of photon beams in the low energy range, according to the ISO 4037. The detector was modelled with the MCNP computer code and validated with experimental data. To verify the measuring and the stripping procedure, the first and the second half-value layers and the air kerma rate were calculated from the counts spectra and compared with the values measured using an a free-air ionization chamber. For each radiation quality, the spectrum was characterized by the parameters given in ISO 4037-1. The conversion coefficients from the air kerma to the ICRU operational quantities Hp(10), Hp(0.07), H’(0.07) and H*(10) were calculated using monoenergetic conversion coefficients. The results are discussed with respect to ISO 4037-4, and compared with published results for low-energy X-ray spectra. The main motivation for this work was the lack of a treatment of the low photon energy region (from a few keV up to about 60 keV).

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The Department of Mechanical and Civil Engineering (DIMeC) of the University of Modena and Reggio Emilia is developing a new type of small capacity HSDI 2-Stroke Diesel engine (called HSD2), featuring a specifically designed combustion system, aimed to reduce weight, size and manufacturing costs, and improving pollutant emissions at partial load. The present work is focused on the analysis of the combustion and the scavenging process, investigated by means of a version of the KIVA-3V code customized by the University of Chalmers and modified by DIMeC. The customization of the KIVA-3V code includes a detailed combustion chemistry approach, coupled with a comprehensive oxidation mechanism for diesel oil surrogate and the modeling of turbulence/chemistry interaction through the PaSR (Partially Stirred Reactor) model. A four stroke automobile Diesel engine featuring a very close bore size is taken as a reference, for both the numerical models calibration and for a comparison with the 2-Stroke engine. Analysis is carried out trough a comparison between HSD2 and FIAT 1300 MultiJet in several operating conditions, at full and partial load. Such a comparison clearly demonstrates the effectiveness of the two stroke concept in terms of emissions reduction and high power density. However, HSD2 is still a virtual engine, and experimental results are needed to assume the reliability of numerical results.

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The full exploitation of multi-hop multi-path connectivity opportunities offered by heterogeneous wireless interfaces could enable innovative Always Best Served (ABS) deployment scenarios where mobile clients dynamically self-organize to offer/exploit Internet connectivity at best. Only novel middleware solutions based on heterogeneous context information can seamlessly enable this scenario: middleware solutions should i) provide a translucent access to low-level components, to achieve both fully aware and simplified pre-configured interactions, ii) permit to fully exploit communication interface capabilities, i.e., not only getting but also providing connectivity in a peer-to-peer fashion, thus relieving final users and application developers from the burden of directly managing wireless interface heterogeneity, and iii) consider user mobility as crucial context information evaluating at provision time the suitability of available Internet points of access differently when the mobile client is still or in motion. The novelty of this research work resides in three primary points. First of all, it proposes a novel model and taxonomy providing a common vocabulary to easily describe and position solutions in the area of context-aware autonomic management of preferred network opportunities. Secondly, it presents PoSIM, a context-aware middleware for the synergic exploitation and control of heterogeneous positioning systems that facilitates the development and portability of location-based services. PoSIM is translucent, i.e., it can provide application developers with differentiated visibility of data characteristics and control possibilities of available positioning solutions, thus dynamically adapting to application-specific deployment requirements and enabling cross-layer management decisions. Finally, it provides the MMHC solution for the self-organization of multi-hop multi-path heterogeneous connectivity. MMHC considers a limited set of practical indicators on node mobility and wireless network characteristics for a coarsegrained estimation of expected reliability/quality of multi-hop paths available at runtime. In particular, MMHC manages the durability/throughput-aware formation and selection of different multi-hop paths simultaneously. Furthermore, MMHC provides a novel solution based on adaptive buffers, proactively managed based on handover prediction, to support continuous services, especially by pre-fetching multimedia contents to avoid streaming interruptions.

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The current studies assessed the role of trait anger and anger expression styles on risk decision-making in adulthood, adolescence and childhood. In the first experiment 158 adults completed the STAXI-2 and an inventory consisting of a battery of hypothetical everyday decision-making scenarios. Participants were also asked to evaluate the perception of risk for each chosen option and some contextual characteristics, that are familiarity and salience for each scenario. The study provides evidence for a relationship between individual differences in the tendency to feel and express anger and risky decisions and for mediation effects of familiarity and salience appraisals. Moreover, results indicated that trait anger was predictive of risk perception and they provide evidence for a positive relationship between risk decision-making and risk perception. In the second study, we examined the relationship between specific components of anger (i.e., cognitive, affective and behavioural) and risk decision-making in adolescents. 101 subjects completed specific tasks, measuring risk decision-making, assessed using hypothetical choice scenarios, and anger, evaluated through the STAXI-CA and the MSAI-R. Results showed that adolescents higher on hostility, anger experience and destructive expression, make more risky decisions in everyday life situations. Moreover, regression analyses indicated that destructive expression of anger and hostility were predictive of adolescents’ risky decisions. In the third experiment, 104 children completed three tasks: the STAXI-CA, the MSAI-R and a task measuring risk decision-making in everyday situations. Subjects were also asked to evaluate the degree of danger, benefit, fun and fear perceived for each risky choice. Analyses indicated that: (a) risk decision-making was predicted by both trait anger and outward expression of anger; (b) destructive expression o anger was predictive of children’s risky decisions; (c) appraisal of danger fully mediated the relation between trait anger and risk; (d) perceptions of benefit, scare and fun partially mediated the relationship between trait anger and risk; and (e) appraisal of danger partially mediated the relationship between outward expression of anger and risk decision-making. The results provide evidence for a relationship between dispositional anger and risk decision-making during childhood, suggesting a possible explanation of the mechanisms below. In particular, risk decision-making can be viewed as the output of cognitive and emotive processes, linked to dispositional anger that leads children to be amused, optimistic and fearless in potentially risky situations. These findings substantiate the importance of incorporating cognitive and emotive factors in theories that seek to explain the relationship between personality traits and risk decision making across a broad range of age.

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The aim of this research is to estimate the impact of violent film excerpts on university students (30 f, 30 m) in two different sequences, a “justified” violent scene followed by an “unjustified” one, or vice versa, as follows: 1) before-after sequences, using Aggressive behaviour I-R Questionnaire, Self Depression Scale and ASQ-IPAT Anxiety SCALE; 2) after every excerpt, using a self-report to evaluate the intensity and hedonic tone of emotions and the violence justification level. Emotion regulation processes (suppression, reappraisal, self-efficacy) were considered. In contrast with the “unjustified” violent scene, during the “justified” one, the justification level was higher; intensity and unpleasantness of negative emotions were lower. Anxiety (total and latent) and rumination diminished after both types of sequences. Rumination decreases less after the JV-UV sequence than after the UV-JV sequence. Self-efficacy in controlling negative emotions reduced rumination, whereas suppression reduced irritability. Reappraisal, self-efficacy in positive emotion expression and perceived emphatic selfefficacy did not have any effects.

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Il dibattito sullo sviluppo, che caratterizza da anni i principali tavoli di discussione politica a livello internazionale, ha via via richiamato l'attenzione sul “locale” come dimensione ottimale a partire dalla quale implementare politiche volte al miglioramento delle condizioni di vita di molte popolazioni del mondo. L'allargamento a livello globale del già esistente gap tra i “poveri” – vecchi e nuovi – ed i “ricchi” del mondo ha reso la lotta e l'alleviamento della povertà uno degli obiettivi più urgenti dei nostri giorni, ma anche più difficili da raggiungere a livello mondiale. Gran parte della povertà mondiale è povertà rurale, ovvero quella povertà che caratterizza i tanti agricoltori (campesinos) del mondo, che continuano a vivere ai margini della società e ad essere scalzati fuori da ogni possibilità di accesso al mercato per via della mancanza strutturale di risorse nella quale versano. La necessità di sopravvivere, unita all'esigenza di incorporare i veloci cambiamenti imposti dal mondo globalizzato, ha portato nel tempo queste popolazioni a perdere o a contaminare, talvolta irreparabilmente, l' “antico” rapporto con l'ambiente e la natura, fonte di vita e sostentamento, ed anche molti dei propri ancestrali aspetti culturali tradizionali che, paradossalmente, sono stati proprio gli unici elementi dimostratisi in grado di rinsaldare i legami già esistenti all'interno delle comunità e di tenere unite queste fragili realtà di fronte alle continue sfide imposte dal “cambiamento”. E' in questo contesto che si innesta l'esperienza di sviluppo proposta e presentata in questo lavoro; un'esperienza che nasce sulle Ande ecuadoriane, in un villaggio meticcio della Provincia di Bolívar, capoluogo parrocchiale di una più vasta comunità che raggruppa una trentina di villaggi, molti dei quali in toto o in prevalenza di etnia indigena quechua. Un'esperienza, quella di Salinas de Bolívar, che all'interno del panorama ecuadoriano si presenta come un esempio innovativo, coraggioso ed ambizioso di riconquista del protagonismo da parte della popolazione locale, divenendo “emblema” dello sviluppo e “immagine che guida”. Questo, in un paese come l'Ecuador, dove l'assenza di politiche efficaci a supporto del settore agricolo, da un lato, e di politiche sociali efficienti atte a risollevare le precarie condizioni di vita in cui versa la maggior parte della popolazione, soprattutto campesina, dall'altro, rende obbligatorio riflettere sull'importanza e sull'esigenza insieme di restituire spazio e vigore alle compagini della società civile che, come nell'esperienza raccontata, attraverso particolari forme organizzative di tipo socio-economico, come la Cooperazione, sono andate a colmare, seppur solo in parte, i vuoti lasciati dallo Stato dando vita a iniziative alternative rispetto al ventaglio di proposte offerte dai consueti meccanismi di mercato, fortemente escludenti, ma comunque vicine agli attori locali e più rappresentative delle loro istanze, giustificando ed avallando ancora di più la netta separazione oramai riconosciuta tra mera “crescita” e “sviluppo”, dove l'aspetto qualitativo, che va a misurare per l'appunto il benessere e la qualità di vita di una popolazione e del suo ambiente, non deve cioè cedere il passo a quello più strettamente quantitativo, a partire dal quale, se non vi è una equa redistribuzione delle risorse, quasi mai si potranno innescare processi di sviluppo duraturi e sostenibili nel tempo. L'accezione di “alternativo” sta quindi ad indicare, prima di ogni altra cosa, l'implementazione di processi di sviluppo che siano includenti e pertanto accessibili a tutti gli individui, indistintamente, e realmente concretizzabili partendo dalle risorse presenti in loco e nel rispetto di quell'insieme identitario – storico, sociale, culturale, politico, economico ed ambientale – che caratterizza ogni realtà ed ogni specifico contesto sociale ed economico del mondo. Di qui l'importanza di implementare alla base processi di governance che, attraverso la partecipazione di tutti gli attori del territorio si configurino come emanazione delle istanze degli stessi. Nel corso del lavoro si fornirà un breve ma incisivo identikit dell'Ecuador, come fondamentale cornice al caso di studio oggetto di indagine, supportata da una descrizione geografico-ambientale, sociale, culturale, politica ed economica della realtà nella quale esso si sviluppa, tanto a livello nazionale quanto più strettamente regionale. Questo esercizio sarà utile al fine di rendere più visibili e comprensibili i fattori che hanno determinato lo sviluppo e la continuità dell'esperienza dei Salineros nel lungo cammino, iniziato appena trent'anni fa, verso l'autodeterminazione e la riconquista di una libertà di scelta un tempo non lontano negata e successivamente ritrovata, che li ha resi di nuovo protagonisti del proprio presente e in grado di guardare ad un futuro diverso e possibile.

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Negli ultimi anni, un crescente numero di studiosi ha focalizzato la propria attenzione sullo sviluppo di strategie che permettessero di caratterizzare le proprietà ADMET dei farmaci in via di sviluppo, il più rapidamente possibile. Questa tendenza origina dalla consapevolezza che circa la metà dei farmaci in via di sviluppo non viene commercializzato perché ha carenze nelle caratteristiche ADME, e che almeno la metà delle molecole che riescono ad essere commercializzate, hanno comunque qualche problema tossicologico o ADME [1]. Infatti, poco importa quanto una molecola possa essere attiva o specifica: perché possa diventare farmaco è necessario che venga ben assorbita, distribuita nell’organismo, metabolizzata non troppo rapidamente, ne troppo lentamente e completamente eliminata. Inoltre la molecola e i suoi metaboliti non dovrebbero essere tossici per l’organismo. Quindi è chiaro come una rapida determinazione dei parametri ADMET in fasi precoci dello sviluppo del farmaco, consenta di risparmiare tempo e denaro, permettendo di selezionare da subito i composti più promettenti e di lasciar perdere quelli con caratteristiche negative. Questa tesi si colloca in questo contesto, e mostra l’applicazione di una tecnica semplice, la biocromatografia, per caratterizzare rapidamente il legame di librerie di composti alla sieroalbumina umana (HSA). Inoltre mostra l’utilizzo di un’altra tecnica indipendente, il dicroismo circolare, che permette di studiare gli stessi sistemi farmaco-proteina, in soluzione, dando informazioni supplementari riguardo alla stereochimica del processo di legame. La HSA è la proteina più abbondante presente nel sangue. Questa proteina funziona da carrier per un gran numero di molecole, sia endogene, come ad esempio bilirubina, tiroxina, ormoni steroidei, acidi grassi, che xenobiotici. Inoltre aumenta la solubilità di molecole lipofile poco solubili in ambiente acquoso, come ad esempio i tassani. Il legame alla HSA è generalmente stereoselettivo e ad avviene a livello di siti di legame ad alta affinità. Inoltre è ben noto che la competizione tra farmaci o tra un farmaco e metaboliti endogeni, possa variare in maniera significativa la loro frazione libera, modificandone l’attività e la tossicità. Per queste sue proprietà la HSA può influenzare sia le proprietà farmacocinetiche che farmacodinamiche dei farmaci. Non è inusuale che un intero progetto di sviluppo di un farmaco possa venire abbandonato a causa di un’affinità troppo elevata alla HSA, o a un tempo di emivita troppo corto, o a una scarsa distribuzione dovuta ad un debole legame alla HSA. Dal punto di vista farmacocinetico, quindi, la HSA è la proteina di trasporto del plasma più importante. Un gran numero di pubblicazioni dimostra l’affidabilità della tecnica biocromatografica nello studio dei fenomeni di bioriconoscimento tra proteine e piccole molecole [2-6]. Il mio lavoro si è focalizzato principalmente sull’uso della biocromatografia come metodo per valutare le caratteristiche di legame di alcune serie di composti di interesse farmaceutico alla HSA, e sul miglioramento di tale tecnica. Per ottenere una miglior comprensione dei meccanismi di legame delle molecole studiate, gli stessi sistemi farmaco-HSA sono stati studiati anche con il dicroismo circolare (CD). Inizialmente, la HSA è stata immobilizzata su una colonna di silice epossidica impaccata 50 x 4.6 mm di diametro interno, utilizzando una procedura precedentemente riportata in letteratura [7], con alcune piccole modifiche. In breve, l’immobilizzazione è stata effettuata ponendo a ricircolo, attraverso una colonna precedentemente impaccata, una soluzione di HSA in determinate condizioni di pH e forza ionica. La colonna è stata quindi caratterizzata per quanto riguarda la quantità di proteina correttamente immobilizzata, attraverso l’analisi frontale di L-triptofano [8]. Di seguito, sono stati iniettati in colonna alcune soluzioni raceme di molecole note legare la HSA in maniera enantioselettiva, per controllare che la procedura di immobilizzazione non avesse modificato le proprietà di legame della proteina. Dopo essere stata caratterizzata, la colonna è stata utilizzata per determinare la percentuale di legame di una piccola serie di inibitori della proteasi HIV (IPs), e per individuarne il sito(i) di legame. La percentuale di legame è stata calcolata attraverso il fattore di capacità (k) dei campioni. Questo parametro in fase acquosa è stato estrapolato linearmente dal grafico log k contro la percentuale (v/v) di 1-propanolo presente nella fase mobile. Solamente per due dei cinque composti analizzati è stato possibile misurare direttamente il valore di k in assenza di solvente organico. Tutti gli IPs analizzati hanno mostrato un’elevata percentuale di legame alla HSA: in particolare, il valore per ritonavir, lopinavir e saquinavir è risultato maggiore del 95%. Questi risultati sono in accordo con dati presenti in letteratura, ottenuti attraverso il biosensore ottico [9]. Inoltre, questi risultati sono coerenti con la significativa riduzione di attività inibitoria di questi composti osservata in presenza di HSA. Questa riduzione sembra essere maggiore per i composti che legano maggiormente la proteina [10]. Successivamente sono stati eseguiti degli studi di competizione tramite cromatografia zonale. Questo metodo prevede di utilizzare una soluzione a concentrazione nota di un competitore come fase mobile, mentre piccole quantità di analita vengono iniettate nella colonna funzionalizzata con HSA. I competitori sono stati selezionati in base al loro legame selettivo ad uno dei principali siti di legame sulla proteina. In particolare, sono stati utilizzati salicilato di sodio, ibuprofene e valproato di sodio come marker dei siti I, II e sito della bilirubina, rispettivamente. Questi studi hanno mostrato un legame indipendente dei PIs ai siti I e II, mentre è stata osservata una debole anticooperatività per il sito della bilirubina. Lo stesso sistema farmaco-proteina è stato infine investigato in soluzione attraverso l’uso del dicroismo circolare. In particolare, è stato monitorata la variazione del segnale CD indotto di un complesso equimolare [HSA]/[bilirubina], a seguito dell’aggiunta di aliquote di ritonavir, scelto come rappresentante della serie. I risultati confermano la lieve anticooperatività per il sito della bilirubina osservato precedentemente negli studi biocromatografici. Successivamente, lo stesso protocollo descritto precedentemente è stato applicato a una colonna di silice epossidica monolitica 50 x 4.6 mm, per valutare l’affidabilità del supporto monolitico per applicazioni biocromatografiche. Il supporto monolitico monolitico ha mostrato buone caratteristiche cromatografiche in termini di contropressione, efficienza e stabilità, oltre che affidabilità nella determinazione dei parametri di legame alla HSA. Questa colonna è stata utilizzata per la determinazione della percentuale di legame alla HSA di una serie di poliamminochinoni sviluppati nell’ambito di una ricerca sulla malattia di Alzheimer. Tutti i composti hanno mostrato una percentuale di legame superiore al 95%. Inoltre, è stata osservata una correlazione tra percentuale di legame è caratteristiche della catena laterale (lunghezza e numero di gruppi amminici). Successivamente sono stati effettuati studi di competizione dei composti in esame tramite il dicroismo circolare in cui è stato evidenziato un effetto anticooperativo dei poliamminochinoni ai siti I e II, mentre rispetto al sito della bilirubina il legame si è dimostrato indipendente. Le conoscenze acquisite con il supporto monolitico precedentemente descritto, sono state applicate a una colonna di silice epossidica più corta (10 x 4.6 mm). Il metodo di determinazione della percentuale di legame utilizzato negli studi precedenti si basa su dati ottenuti con più esperimenti, quindi è necessario molto tempo prima di ottenere il dato finale. L’uso di una colonna più corta permette di ridurre i tempi di ritenzione degli analiti, per cui la determinazione della percentuale di legame alla HSA diventa molto più rapida. Si passa quindi da una analisi a medio rendimento a una analisi di screening ad alto rendimento (highthroughput- screening, HTS). Inoltre, la riduzione dei tempi di analisi, permette di evitare l’uso di soventi organici nella fase mobile. Dopo aver caratterizzato la colonna da 10 mm con lo stesso metodo precedentemente descritto per le altre colonne, sono stati iniettati una serie di standard variando il flusso della fase mobile, per valutare la possibilità di utilizzare flussi elevati. La colonna è stata quindi impiegata per stimare la percentuale di legame di una serie di molecole con differenti caratteristiche chimiche. Successivamente è stata valutata la possibilità di utilizzare una colonna così corta, anche per studi di competizione, ed è stata indagato il legame di una serie di composti al sito I. Infine è stata effettuata una valutazione della stabilità della colonna in seguito ad un uso estensivo. L’uso di supporti cromatografici funzionalizzati con albumine di diversa origine (ratto, cane, guinea pig, hamster, topo, coniglio), può essere proposto come applicazione futura di queste colonne HTS. Infatti, la possibilità di ottenere informazioni del legame dei farmaci in via di sviluppo alle diverse albumine, permetterebbe un migliore paragone tra i dati ottenuti tramite esperimenti in vitro e i dati ottenuti con esperimenti sull’animale, facilitando la successiva estrapolazione all’uomo, con la velocità di un metodo HTS. Inoltre, verrebbe ridotto anche il numero di animali utilizzati nelle sperimentazioni. Alcuni lavori presenti in letteratura dimostrano l’affidabilita di colonne funzionalizzate con albumine di diversa origine [11-13]: l’utilizzo di colonne più corte potrebbe aumentarne le applicazioni.

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La valutazione progressiva e il monitoraggio di una ferita difficile impongono misurazioni periodiche per valutare in modo qualitativo e quantitativo l'esistenza e l'entita della riepitelizzazione in rapporto alle pratiche terapeutiche effettuate. L'entità della guarigione nei primi 1530 giorni di trattamento, intesa come riduzione di area percentuale, nelle lesioni ulcerative di origine venosa permette secondo alcuni autori della letteratura scientifica, di avere delle informazioni prognostiche di guarigione completa a sei mesi. Altri autori invece mostrano casistiche analoghe indicando come nelle ulcere venose non si possa predire con facilità la guarigione a sei mesi.Le metodiche di misurazione delle ferite possono essere suddivise in bidimensionali e tridimensionali: nel primo gruppo troviamo la misurazione semplice, le metodiche di tracciamento, planimetria, analisi fotografica analogica e digitale. Queste metodiche misurano i diametri, il perimetro e l'area delle ferite. Nel secondo gruppo si collocano l'uso di righello Kundin, le metodiche di riempimento con alginato o con soluzione fisiologica, le metodiche stereofotogrammetriche e l'uso di strumenti laser. Queste metodiche permettono di calcolare con varie approssimazioni anche il volume delle ferite studiate. La tesi ha preso in esame un gruppo di 17 pazienti affetti da ulcere venose croniche effettuando misurazioni con lo strumento più accurato e preciso disponibile (minolta Vivid 900 laser + sensore) e acquisendo i dati con il software Derma. I pazienti sono stati misurati al primo accesso in ambulatorio, dopo 15 giorni e dopo sei mesi. Sono stati acquisiti i dati di area, perimetro, volume, profondità e guarigione a 6 mesi. L'analisi statistica condotta con modalità non parametriche di analisi dei ranghi non ha associato nessuno di questi valori ne' valori derivati ( delta V /delta A; Delta V/ Delta P) alla guarigione a 6 mesi. Secondo le analisi da noi effettuate, sebbene con l'incertezza derivata da un gruppo ridotto di pazienti, la guarigione delle lesioni ulcerative venose non è predicibile a 6 mesi utilizzando sistemi di misurazione di dimensioni, area e volume.

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Questa tesi di dottorato di ricerca ha come oggetto la nozione di fatto urbano elaborata e presentata da Aldo Rossi nel libro L’architettura della città edito nel 1966. Ne L’architettura della città sono molteplici le definizioni e le forme con cui è enunciata la nozione di fatto urbano. Nel corso della tesi si è indagato come la costruzione nel tempo di questo concetto è stata preceduta da diversi studi giovanili intrapresi dal 1953, poi riorganizzati e sintetizzati a partire dal 1963 in un quaderno manoscritto dal titolo “Manuale di urbanistica”, in diversi appunti e in due quaderni manoscritti. Il lavoro di ricerca ha ricostruito la formulazione della nozione di fatto urbano attraverso gli scritti di Rossi. In questa direzione la rilevazione della partecipazione di Rossi a dibattiti, seminari, riviste, corsi universitari o ricerche accademiche è apparsa di fondamentale importanza, per comprendere la complessità di un lavoro non riconducibile a dei concetti disciplinari, ma alla formazione di una teoria trasmissibile. Il tentativo di comprendere e spiegare la nozione di fatto urbano ha condotto ad esaminare l’accezione con cui Rossi compone L’architettura della città, che egli stesso assimila ad un trattato. L’analisi ha identificato come la composizione del libro non è direttamente riferibile ad un uso classico della stesura editoriale del trattato, la quale ha tra i riferimenti più noti nel passato la promozione di una pratica corretta come nel caso vitruviano o un’impalcatura instauratrice di una nuova categoria come nel caso dell’Alberti. La mancanza di un sistema globale e prescrittivo a differenza dei due libri fondativi e il rimando non immediato alla stesura di un trattato classico è evidente ne L’architettura della città. Tuttavia la possibilità di condurre la ricerca su una serie di documenti inediti ha permesso di rilevare come negli scritti a partire dal 1953, sia maturata una trattazione delle questioni centrali alla nozione di fatto urbano ricca di intuizioni, che aspirano ad un’autonomia, sintetizzate, seppure in modo non sistematico, nella stesura del celebre libro. Si è così cercato di mettere in luce la precisazione nel tempo della nozione di fatto urbano e della sua elaborazione nei molteplici scritti antecedenti la pubblicazione de L’architettura della città, precisando come Rossi, pur costruendo su basi teoriche la nozione di fatto urbano, ne indichi una visione progressiva, ossia un uso operativo sulla città. La ricerca si è proposta come obiettivo di comprendere le radici culturali della nozione di fatto urbano sia tramite un’esplorazione degli interessi di Rossi nel suo percorso formativo sia rispetto alla definizione della struttura materiale del fatto urbano che Rossi individua nelle permanenze e che alimenta nella sua definizione con differenti apporti derivanti da altre discipline. Compito di questa ricerca è stato rileggere criticamente il percorso formativo compiuto da Rossi, a partire dal 1953, sottolinearne gli ambiti innovativi e precisarne i limiti descrittivi che non vedranno mai la determinazione di una nozione esatta, ma piuttosto la strutturazione di una sintesi complessa e ricca di riferimenti ad altri studi. In sintesi la tesi si compone di tre parti: 1. la prima parte, dal titolo “La teoria dei fatti urbani ne L’architettura della città”, analizza il concetto di fatto urbano inserendolo all’interno del più generale contesto teorico contenuto nel libro L’architettura della città. Questo avviene tramite la scomposizione del libro, la concatenazione delle sue argomentazioni e la molteplicità delle fonti esplicitamente citate da Rossi. In questo ambito si precisa la struttura del libro attraverso la rilettura dei riferimenti serviti a Rossi per comporre il suo progetto teorico. Inoltre si ripercorre la sua vita attraverso le varie edizioni, le ristampe, le introduzioni e le illustrazioni. Infine si analizza il ruolo del concetto di fatto urbano nel libro rilevando come sia posto in un rapporto paritetico con il titolo del libro, conseguendone un’accezione di «fatto da osservare» assimilabile all’uso proposto dalla geografia urbana francese dei primi del Novecento. 2. la seconda parte, dal titolo “La formazione della nozione di fatto urbano 1953-66”, è dedicata alla presentazione dell’elaborazione teorica negli scritti di Rossi prima de L’architettura della città, ossia dal 1953 al 1966. Questa parte cerca di descrivere le radici culturali di Rossi, le sue collaborazioni e i suoi interessi ripercorrendo la progressiva definizione della concezione di città nel tempo. Si è analizzato il percorso maturato da Rossi e i documenti scritti fin dagli anni in cui era studente alla Facoltà di Architettura Politecnico di Milano. Emerge un quadro complesso in cui i primi saggi, gli articoli e gli appunti testimoniano una ricerca intellettuale tesa alla costruzione di un sapere sullo sfondo del realismo degli anni Cinquanta. Rossi matura infatti un impegno culturale che lo porta dopo la laurea ad affrontare discorsi più generali sulla città. In particolare la sua importante collaborazione con la rivista Casabella-continuità, con il suo direttore Ernesto Nathan Rogers e tutto il gruppo redazionale segnano il periodo successivo in cui compare l’interesse per la letteratura urbanistica, l’arte, la sociologia, la geografia, l’economia e la filosofia. Seguono poi dal 1963 gli anni di lavoro insieme al gruppo diretto da Carlo Aymonino all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, e in particolare le ricerche sulla tipologia edilizia e la morfologia urbana, che portano Rossi a compiere una sintesi analitica per la fondazione di una teoria della città. Dall’indagine si rileva infatti come gli scritti antecedenti L’architettura della città sviluppano lo studio dei fatti urbani fino ad andare a costituire il nucleo teorico di diversi capitoli del libro. Si racconta così la genesi del libro, la cui scrittura si è svolta nell’arco di due anni, e le aspirazioni che hanno portato quello che era stato concepito come un “manuale d’urbanistica” a divenire quello che Rossi definirà “l’abbozzo di un trattato” per la formulazione di una scienza urbana. 3. la terza parte, dal titolo “La struttura materiale dei fatti urbani: la teoria della permanenza”, indaga monograficamente lo studio della città come un fatto materiale, un manufatto, la cui costruzione è avvenuta nel tempo e del tempo mantiene le tracce. Sul tema della teoria della permanenza è stato importante impostare un confronto con il dibattito vivo negli anni della ricostruzione dopo la guerra intorno ai temi delle preesistenze ambientali nella ricostruzione negli ambienti storici. Sono emersi fin da subito importanti la relazione con Ernesto Nathan Rogers, le discussioni sulle pagine di Casabella-Continuità, la partecipazione ad alcuni dibatti e ricerche. Si è inoltre Rilevato l’uso di diversi termini mutuati dalle tesi filosofiche di alcune personalità come Antonio Banfi e Enzo Paci, poi elaborati dal nucleo redazionale di Casabella-Continuità, di cui faceva parte anche Rossi. Sono così emersi alcuni spostamenti di senso e la formulazione di un vocabolario di termini all’interno della complessa vicenda della cultura architettonica degli anni Cinquanta e Sessanta. 1. Si è poi affrontato questo tema analizzando le forme con cui Rossi presenta la definizione della teoria della permanenza e i contributi desunti da alcuni autori per la costruzione scientifica di una teoria dell’architettura, il cui fine è quello di essere trasmissibile e di offrire strumenti di indagine concreti. Questa ricerca ha permesso di ipotizzare come il lavoro dei geografi francesi della prima metà del XX secolo, e in particolare il contributo più rilevante di Marcel Poëte e di Pierre Lavedan, costituiscono le fonti principali e il campo d’indagine maggiormente esplorato da Rossi per definire la teoria della permanenza e i monumenti. Le permanenze non sono dunque presentate ne L’architettura della città come il “tutto”, ma emergono da un metodo che sceglie di isolare i fatti urbani permanenti, consentendo così di compiere un’ipotesi su “ciò che resta” dopo le trasformazioni continue che operano nella città. Le fonti su cui ho lavorato sono state quelle annunciate da Rossi ne L’architettura della città, e più precisamente i testi nelle edizioni da lui consultate. Anche questo lavoro ha permesso un confronto dei testi che ha fatto emergere ne L’architettura della città l’uso di termini mutuati da linguaggi appartenenti ad altre discipline e quale sia l’uso di concetti estrapolati nella loro interezza. Presupposti metodologici Della formulazione della nozione di fatto urbano si sono indagate l’originalità dell’espressione, le connessioni presunte o contenute negli studi di Rossi sulla città attraverso la raccolta di fonti dirette e indirette che sono andate a formare un notevole corpus di scritti. Le fonti dirette più rilevanti sono state trovare nelle collezioni speciali del Getty Research Institute di Los Angeles in cui sono conservati gli Aldo Rossi Papers, questo archivio comprende materiali inediti dal 1954 al 1988. La natura dei materiali si presenta sotto forma di manoscritti, dattiloscritti, quaderni, documenti ciclostilati, appunti sparsi e una notevole quantità di corrispondenza. Negli Aldo Rossi Papers si trovano anche 32 dei 47 Quaderni Azzurri, le bozze de L’architettura della città e dell’ Autobiografia Scientifica. Per quanto riguarda in particolare L’architettura della città negli Aldo Rossi Papers sono conservati: un quaderno con il titolo “Manuale d’urbanistica, giugno 1963”, chiara prima bozza del libro, degli “Appunti per libro urbanistica estate/inverno 1963”, un quaderno con la copertina rossa datato 20 settembre 1964-8 agosto 1965 e un quaderno con la copertina blu datato 30 agosto 1965-15 dicembre 1965. La possibilità di accedere a questo archivio ha permesso di incrementare la bibliografia relativa agli studi giovanili consentendo di rileggere il percorso culturale in cui Rossi si è formato. E’ così apparsa fondamentale la rivalutazione di alcune questioni relative al realismo socialista che hanno portato a formare un più preciso quadro dei primi scritti di Rossi sullo sfondo di un complesso scenario intellettuale. A questi testi si è affiancata la raccolta delle ricerche universitarie, degli articoli pubblicati su riviste specializzate e degli interventi a dibattiti e seminari. A proposito de L’architettura della città si è raccolta un’ampia letteratura critica riferita sia al testo in specifico che ad una sua collocazione nella storia dell’architettura, mettendo in discussione alcune osservazioni che pongono L’architettura della città come un libro risolutivo e definitivo. Per quanto riguarda il capitolo sulla teoria della permanenza l’analisi è stata svolta a partire dai testi che Rossi stesso indicava ne L’architettura della città rivelando i diversi apporti della letteratura urbanistica francese, e permettendo alla ricerca di precisare le relazioni con alcuni scritti centrali e al contempo colti da Rossi come opportunità per intraprendere l’elaborazione dell’idea di tipo. Per quest’ultima parte si può precisare come Rossi formuli la sua idea di tipo in un contesto culturale dove l’interesse per questo tema era fondamentale. Dunque le fonti che hanno assunto maggior rilievo in quest’ultima fase emergono da un ricco panorama in cui Rossi compie diverse ricerche sia con il gruppo redazionale di Casabella-continuità, sia all’interno della scuola veneziana negli anni Sessanta, ma anche negli studi per l’ILSES e per l’Istituto Nazionale d’Urbanistica. RESEARCH ON THE NOTION OF URBAN ARTIFACT IN THE ARCHITECTURE OF THE CITY BY ALDO ROSSI. Doctoral candidate: Letizia Biondi Tutor: Valter Balducci The present doctoral dissertation deals with the notion of urban artifact that was formulated and presented by Aldo Rossi in his book The Architecture of the City, published in 1966. In The Architecture of the City, the notion of urban artifact is enunciated through a wide range of definitions and forms. In this thesis, a research was done on how the construction of this concept over time was preceded by various studies started in 1953 during the author’s youth, then re-organized and synthesized since 1963 in a manuscript titled “Manual of urban planning” and in two more manuscripts later on. The work of research re-constructed the formulation of the notion of urban artifact through Rossi’s writings. In this sense, the examination of Rossi’s participation in debates, seminars, reviews, university courses or academic researches was of fundamental importance to understand the complexity of a work which is not to be attributed to disciplinary concepts, but to the formulation of a communicable theory. The effort to understand and to explain the notion of urban artifact led to an examination of the meaning used by Rossi to compose The Architecture of the City, which he defines as similar to a treatise. Through this analysis, it emerged that the composition of the book is not directly ascribable to the classical use of editorial writing of a treatise, whose most famous references in the past are the promotion of a correct practice as in the case of Vitruvio’s treatise, or the use of a structure that introduces a new category as in the Alberti case. Contrary to the two founding books, the lack of a global and prescriptive system and the not immediate reference to the writing of a classical treatise are evident in The Architecture of the City. However, the possibility of researching on some unpublished documents allowed to discover that in the writings starting from 1953 the analysis of the questions that are at the core of the notion of urban artifact is rich of intuitions, that aim to autonomy and that would be synthesized, even though not in a systematic way, in his famous book. The attempt was that of highlighting the specification over time of the notion of urban artifact and its elaboration in the various writings preceding the publication of The Architecture of the City. It was also specified that, despite building on theoretical grounds, Rossi indicates a progressive version of the notion of urban artifact, that is a performing use in the city. The present research aims to understand the cultural roots of the notion of urban artifact in two main directions: analyzing, firstly, Rossi’s interests along his formation path and, secondly, the definition of material structure of an urban artifact identified by Rossi in the permanences and enriched by various contributions from other disciplines. The purpose of the present research is to revise the formation path made by Rossi in a critical way, starting by 1953, underlining its innovative aspects and identifying its describing limits, which will never lead to the formulation of an exact notion, but rather to the elaboration of a complex synthesis, enriched by references to other studies. In brief, the thesis is composed of three parts: 1. The first part, titled “The Theory of urban artifacts in The Architecture of the City”, analyzes the concept of urban artifact in the more general theoretical context of the book The Architecture of the City. Such analysis is done by “disassembling” the book, and by linking together the argumentations and the multiplicity of the sources which are explicitly quoted by Rossi. In this context, the book’s structure is defined more precisely through the revision of the references used by Rossi to compose his theoretical project. Moreover, the author’s life is traced back through the various editions, re-printings, introductions and illustrations. Finally, it is specified which role the concept of urban artifact has in the book, pointing out that it is placed in an equal relation with the book’s title; by so doing, the concept of urban artifact gets the new meaning of “fact to be observed”, similar to the use that was suggested by the French urban geography at the beginning of the 20th century. 2. The second part, titled “The formation of the notion of urban artifact 1953-66”, introduces the theoretical elaboration in Rossi’s writings before The Architecture of the City, that is from 1953 to 1966. This part tries to describe Rossi’s cultural roots, his collaborations and his interests, tracing back the progressive definition of his conception of city over time. The analysis focuses on the path followed by Rossi and on the documents that he wrote since the years as a student at the Department of Architecture at the Politecnico in Milan. This leads to a complex scenario of first essays, articles and notes that bear witness to the intellectual research aiming to the construction of a knowledge on the background of the Realism of the 1950s. Rossi develops, in fact, a cultural engagement that leads him after his studies to deal with more general issues about the city. In particular, his important collaboration with the architecture magazine “Casabella-continuità”, with the director Ernesto Nathan Rogers and with the whole redaction staff mark the following period when he starts getting interested in city planning literature, art, sociology, geography, economics and philosophy. Since 1963, Rossi has worked with the group directed by Carlo Aymonino at the “Istituto Universitario di Architettura” (University Institute of Architecture) in Venice, especially researching on building typologies and urban morphology. During these years, Rossi elaborates an analytical synthesis for the formulation of a theory about the city. From the present research, it is evident that the writings preceding The Architecture of the City develop the studies on urban artifacts, which will become theoretical core of different chapters of the book. In conclusion, the genesis of the book is described; written in two years, what was conceived to be an “urban planning manual” became a “treatise draft” for the formulation of an urban science, as Rossi defines it. 3. The third part is titled “The material structure of urban artifacts: the theory of permanence”. This research is made on the study of the city as a material fact, a manufacture, whose construction was made over time, bearing the traces of time. As far as the topic of permanence is concerned, it was also important to draw a comparison with the debate about the issues of environmental pre-existence of re-construction in historical areas, which was very lively during the years of the Reconstruction. Right from the beginning, of fundamental importance were the relationship with Ernesto Nathan Rogers, the discussions on the pages of Casabella-Continuità and the participation to some debates and researches. It is to note that various terms were taken by the philosophical thesis by some personalities such as Antonio Banfi and Enzo Paci, and then re-elaborated by the redaction staff at Casabella-Continuità, which Rossi took part in as well. Through this analysis, it emerged that there were some shifts in meaning and the formulation of a vocabulary of terms within the complex area of the architectonic culture in the 1950s and 1960s. Then, I examined the shapes in which Rossi introduces the definition of the theory of permanence and the references by some authors for the scientific construction of an architecture theory whose aim is being communicable and offering concrete research tools. Such analysis allowed making a hypothesis about the significance for Rossi of the French geographers of the first half of the 20th century: in particular, the work by Marcel Poëte and by Pierre Lavedan is the main source and the research area which Rossi mostly explored to define the theory of permanence and monuments. Therefore, in The Architecture of the City, permanencies are not presented as the “whole”, but they emerge from a method which isolates permanent urban artifacts, in this way allowing making a hypothesis on “what remains” after the continuous transformations made in the city. The sources examined were quoted by Rossi in The Architecture of the City; in particular I analyzed them in the same edition which Rossi referred to. Through such an analysis, it was possible to make a comparison of the texts with one another, which let emerge the use of terms taken by languages belonging to other disciplines in The Architecture of the City and which the use of wholly extrapolated concepts is. Methodological premises As far as the formulation of the notion of urban artifact is concerned, the analysis focuses on the originality of the expression, the connections that are assumed or contained in Rossi’s writings about the city, by collecting direct and indirect sources which formed a significant corpus of writings. The most relevant direct sources were found in the special collections of the Getty Research Institute in Los Angeles, where the “Aldo Rossi Papers” are conserved. This archive contains unpublished material from 1954 to 1988, such as manuscripts, typescripts, notebooks, cyclostyled documents, scraps and notes, and several letters. In the Aldo Rossi Papers there are also 32 out of the 47 Light Blue Notebooks (Quaderni Azzurri), the rough drafts of The Architecture of the City and of the “A Scientific Autobiography”. As regards The Architecture of the City in particular, the Aldo Rossi Papers preserve: a notebook by the title of “Urban planning manual, June, 1963”, which is an explicit first draft of the book; “Notes for urban planning book summer/winter 1963”; a notebook with a red cover dated September 20th, 1964 – August 8th, 1965; and a notebook with a blue cover dated August 30th, 1965 – December 15th, 1965. The possibility of accessing this archive allowed to increase the bibliography related to the youth studies, enabling a revision of the cultural path followed by Rossi’s education. To that end, it was fundamental to re-evaluate some issues linked to the socialist realism which led to a more precise picture of the first writings by Rossi against the background of the intellectual scenario where he formed. In addition to these texts, the collection of university researches, the articles published on specialized reviews and the speeches at debates and seminars were also examined. About The Architecture of the City, a wide-ranging critical literature was collected, related both to the text specifics and to its collocation in the story of architecture, questioning some observations which define The Architecture of the City as a conclusive and definite book. As far as the chapter on the permanence theory is concerned, the analysis started by the texts that Rossi indicated in The Architecture of the City, revealing the different contributions from the French literature on urban planning. This allowed to the present research a more specific definition of the connections to some central writings which, at the same time, were seen by Rossi as an opportunity to start up the elaboration of the idea of type. For this last part, it can be specified that Rossi formulates his idea of type in a cultural context where the interest in this topic was fundamental. Therefore, the sources which played a central role in this final phase emerge from an extensive panorama in which Rossi researched not only with the redaction staff at Casablanca-continuità and within the School of Venice in the 1960s, but also in his studies for the ILSES (Institute of the Region Lombardia for Economics and Social Studies) and for the National Institute of Urban Planning.

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This doctoral dissertation faces the debated topic of the traditions of Republicanism in the Modern Age assuming, as a point of view, the problem of the "mixed" government. The research therefore dwells upon the use of this model in Sixteenth-Century Italy, also in connection with the historical events of two standard Republics such as Florence and Venice. The work focuses on Donato Giannotti (1492-1573), Gasparo Contarini (1483-1542) and Paolo Paruta (1540-1598), as the main figures in order to reconstruct the debate on "mixed" constitution: in them, decisive in the attention paid to the peculiar structure of the Venetian Republic, the only of a certain dimension and power to survive after 1530. The research takes into account also the writings of Traiano Boccalini (1556-1613): he himself, though being involved in the same topics of debate, sets for some aspects his considerations in the framework of a new theme, that of Reason of State.

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La studio della distribuzione spaziale e temporale della associazioni a foraminiferi planctonici, campionati in zone con differente regime idrografico, ha permesso di comprendere che molte specie possono essere diagnostiche della presenza di diverse masse d’acqua superficiali e sottosuperficiali e di diversi regimi di nutrienti nelle acque oceaniche. Parte di questo lavoro di tesi si basa sullo studio delle associazioni a foraminiferi planctonici attualmente viventi nel Settore Pacifico dell’Oceano Meridionale (Mare di Ross e Zona del Fronte Polare) e nel Mare Mediterraneo (Mar Tirreno Meridionale). L’obiettivo di questo studio è quello di comprendere i fattori (temperatura, salinità, nutrienti etc.) che determinano la distribuzione attuale delle diverse specie al fine di valutarne il valore di “indicatori” (proxies) utili alla ricostruzione degli scenari paleoclimatici e paleoceanografici succedutisi in queste aree. I risultati documentano che la distribuzione delle diverse specie, il numero di individui e le variazioni nella morfologia di alcuni taxa sono correlate alle caratteristiche chimico-fisiche della colonna e alla disponibilità di nutrienti e di clorofilla. La seconda parte del lavoro di tesi ha previsto l’analisi degli isotopi stabili dell’ossigeno e del rapporto Mg/Ca in gusci di N. pachyderma (sin) prelevati da pescate di micro zooplancton (per tarare l’equazione di paleo temperatura) da un box core e da una carota provenienti dalla zona del Fronte Polare (Oceano Pacifico meridionale), al fine di ricostruire le variazioni di temperatura negli ultimi 13 ka e durante la Mid-Pleistocene Revolution. Le temperature, dedotte tramite i valori degli isotopi stabili dell’ossigeno, sono coerenti con le temperature attuali documentate in questa zona e il trend di temperatura è paragonabile a quelli riportati in letteratura anche per eventi climatici come lo Younger Dryas e il mid-Holocene Optimum. I valori del rapporto Mg/Ca misurato tramite due diverse tecniche di analisi (laser ablation e analisi in soluzione) sono risultati sempre molto più alti dei valori riportati in letteratura per la stessa specie. La laser ablation sembra carente dal punto di vista del cleaning del campione e da questo studio emerge che le due tecniche non sono comparabili e che non possono essere usate indifferentemente sullo stesso campione. Per quanto riguarda l’analisi dei campioni in soluzione è stato migliorato il protocollo di cleaning per il trattamento di campioni antartici, che ha permesso di ottenere valori veritieri e utili ai fini delle ricostruzioni di paleotemperatura. Tuttavia, rimane verosimile l’ipotesi che in ambienti particolari come questo, con salinità e temperature molto basse, l’incorporazione del Mg all’interno del guscio risenta delle condizioni particolari e che non segua quindi la relazione esponenziale con la temperatura ampiamente dimostrata ad altre latitudini.