409 resultados para Catania (Italy) Regia università degli studi. Orto botanico]


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Introduzione L’importanza clinica, sociale ed economica del trattamento dell’ipertensione arteriosa richiede la messa in opera di strumenti di monitoraggio dell’uso dei farmaci antiipertensivi che consentano di verificare la trasferibilità alla pratica clinica dei dati ottenuti nelle sperimentazioni. L’attuazione di una adatta strategia terapeutica non è un fenomeno semplice da realizzare perché le condizioni in cui opera il Medico di Medicina Generale sono profondamente differenti da quelle che si predispongono nell’esecuzione degli studi randomizzati e controllati. Emerge, pertanto, la necessità di conoscere le modalità con cui le evidenze scientifiche trovano reale applicazione nella pratica clinica routinaria, identificando quei fattori di disturbo che, nei contesti reali, limitano l’efficacia e l’appropriatezza clinica. Nell’ambito della terapia farmacologica antiipertensiva, uno di questi fattori di disturbo è costituito dalla ridotta aderenza al trattamento. Su questo tema, recenti studi osservazionali hanno individuato le caratteristiche del paziente associate a bassi livelli di compliance; altri hanno focalizzato l’attenzione sulle caratteristiche del medico e sulla sua capacità di comunicare ai propri assistiti l’importanza del trattamento farmacologico. Dalle attuali evidenze scientifiche, tuttavia, non emerge con chiarezza il peso relativo dei due diversi attori, paziente e medico, nel determinare i livelli di compliance nel trattamento delle patologie croniche. Obiettivi Gli obiettivi principali di questo lavoro sono: 1) valutare quanta parte della variabilità totale è attribuibile al livello-paziente e quanta parte della variabilità è attribuibile al livello-medico; 2) spiegare la variabilità totale in funzione delle caratteristiche del paziente e in funzione delle caratteristiche del medico. Materiale e metodi Un gruppo di Medici di Medicina Generale che dipendono dall’Azienda Unità Sanitaria Locale di Ravenna si è volontariamente proposto di partecipare allo studio. Sono stati arruolati tutti i pazienti che presentavano almeno una misurazione di pressione arteriosa nel periodo compreso fra il 01/01/1997 e il 31/12/2002. A partire dalla prima prescrizione di farmaci antiipertensivi successiva o coincidente alla data di arruolamento, gli assistiti sono stati osservati per 365 giorni al fine di misurare la persistenza in trattamento. La durata del trattamento antiipertensivo è stata calcolata come segue: giorni intercorsi tra la prima e l’ultima prescrizione + proiezione, stimata sulla base delle Dosi Definite Giornaliere, dell’ultima prescrizione. Sono stati definiti persistenti i soggetti che presentavano una durata del trattamento maggiore di 273 giorni. Analisi statistica I dati utilizzati per questo lavoro presentano una struttura gerarchica nella quale i pazienti risultano “annidati” all’interno dei propri Medici di Medicina Generale. In questo contesto, le osservazioni individuali non sono del tutto indipendenti poiché i pazienti iscritti allo stesso Medico di Medicina Generale tenderanno ad essere tra loro simili a causa della “storia comune” che condividono. I test statistici tradizionali sono fortemente basati sull’assunto di indipendenza tra le osservazioni. Se questa ipotesi risulta violata, le stime degli errori standard prodotte dai test statistici convenzionali sono troppo piccole e, di conseguenza, i risultati che si ottengono appaiono “impropriamente” significativi. Al fine di gestire la non indipendenza delle osservazioni, valutare simultaneamente variabili che “provengono” da diversi livelli della gerarchia e al fine di stimare le componenti della varianza per i due livelli del sistema, la persistenza in trattamento antiipertensivo è stata analizzata attraverso modelli lineari generalizzati multilivello e attraverso modelli per l’analisi della sopravvivenza con effetti casuali (shared frailties model). Discussione dei risultati I risultati di questo studio mostrano che il 19% dei trattati con antiipertensivi ha interrotto la terapia farmacologica durante i 365 giorni di follow-up. Nei nuovi trattati, la percentuale di interruzione terapeutica ammontava al 28%. Le caratteristiche-paziente individuate dall’analisi multilivello indicano come la probabilità di interrompere il trattamento sia più elevata nei soggetti che presentano una situazione clinica generale migliore (giovane età, assenza di trattamenti concomitanti, bassi livelli di pressione arteriosa diastolica). Questi soggetti, oltre a non essere abituati ad assumere altre terapie croniche, percepiscono in minor misura i potenziali benefici del trattamento antiipertensivo e tenderanno a interrompere la terapia farmacologica alla comparsa dei primi effetti collaterali. Il modello ha inoltre evidenziato come i nuovi trattati presentino una più elevata probabilità di interruzione terapeutica, verosimilmente spiegata dalla difficoltà di abituarsi all’assunzione cronica del farmaco in una fase di assestamento della terapia in cui i principi attivi di prima scelta potrebbero non adattarsi pienamente, in termini di tollerabilità, alle caratteristiche del paziente. Anche la classe di farmaco di prima scelta riveste un ruolo essenziale nella determinazione dei livelli di compliance. Il fenomeno è probabilmente legato ai diversi profili di tollerabilità delle numerose alternative terapeutiche. L’appropriato riconoscimento dei predittori-paziente di discontinuità (risk profiling) e la loro valutazione globale nella pratica clinica quotidiana potrebbe contribuire a migliorare il rapporto medico-paziente e incrementare i livelli di compliance al trattamento. L’analisi delle componenti della varianza ha evidenziato come il 18% della variabilità nella persistenza in trattamento antiipertensivo sia attribuibile al livello Medico di Medicina Generale. Controllando per le differenze demografiche e cliniche tra gli assistiti dei diversi medici, la quota di variabilità attribuibile al livello medico risultava pari al 13%. La capacità empatica dei prescrittori nel comunicare ai propri pazienti l’importanza della terapia farmacologica riveste un ruolo importante nel determinare i livelli di compliance al trattamento. La crescente presenza, nella formazione dei medici, di corsi di carattere psicologico finalizzati a migliorare il rapporto medico-paziente potrebbe, inoltre, spiegare la relazione inversa, particolarmente evidente nella sottoanalisi effettuata sui nuovi trattati, tra età del medico e persistenza in trattamento. La proporzione non trascurabile di variabilità spiegata dalla struttura in gruppi degli assistiti evidenzia l’opportunità e la necessità di investire nella formazione dei Medici di Medicina Generale con l’obiettivo di sensibilizzare ed “educare” i medici alla motivazione ma anche al monitoraggio dei soggetti trattati, alla sistematica valutazione in pratica clinica dei predittori-paziente di discontinuità e a un appropriato utilizzo della classe di farmaco di prima scelta. Limiti dello studio Uno dei possibili limiti di questo studio risiede nella ridotta rappresentatività del campione di medici (la partecipazione al progetto era su base volontaria) e di pazienti (la presenza di almeno una misurazione di pressione arteriosa, dettata dai criteri di arruolamento, potrebbe aver distorto il campione analizzato, selezionando i pazienti che si recano dal proprio medico con maggior frequenza). Questo potrebbe spiegare la minore incidenza di interruzioni terapeutiche rispetto a studi condotti, nella stessa area geografica, mediante database amministrativi di popolazione. Conclusioni L’analisi dei dati contenuti nei database della medicina generale ha consentito di valutare l’impiego dei farmaci antiipertensivi nella pratica clinica e di stabilire la necessità di porre una maggiore attenzione nella pianificazione e nell’ottenimento dell’obiettivo che il trattamento si prefigge. Alla luce dei risultati emersi da questa valutazione, sarebbe di grande utilità la conduzione di ulteriori studi osservazionali volti a sostenere il progressivo miglioramento della gestione e del trattamento dei pazienti a rischio cardiovascolare nell’ambito della medicina generale.

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Negli ultimi anni, un crescente numero di studiosi ha focalizzato la propria attenzione sullo sviluppo di strategie che permettessero di caratterizzare le proprietà ADMET dei farmaci in via di sviluppo, il più rapidamente possibile. Questa tendenza origina dalla consapevolezza che circa la metà dei farmaci in via di sviluppo non viene commercializzato perché ha carenze nelle caratteristiche ADME, e che almeno la metà delle molecole che riescono ad essere commercializzate, hanno comunque qualche problema tossicologico o ADME [1]. Infatti, poco importa quanto una molecola possa essere attiva o specifica: perché possa diventare farmaco è necessario che venga ben assorbita, distribuita nell’organismo, metabolizzata non troppo rapidamente, ne troppo lentamente e completamente eliminata. Inoltre la molecola e i suoi metaboliti non dovrebbero essere tossici per l’organismo. Quindi è chiaro come una rapida determinazione dei parametri ADMET in fasi precoci dello sviluppo del farmaco, consenta di risparmiare tempo e denaro, permettendo di selezionare da subito i composti più promettenti e di lasciar perdere quelli con caratteristiche negative. Questa tesi si colloca in questo contesto, e mostra l’applicazione di una tecnica semplice, la biocromatografia, per caratterizzare rapidamente il legame di librerie di composti alla sieroalbumina umana (HSA). Inoltre mostra l’utilizzo di un’altra tecnica indipendente, il dicroismo circolare, che permette di studiare gli stessi sistemi farmaco-proteina, in soluzione, dando informazioni supplementari riguardo alla stereochimica del processo di legame. La HSA è la proteina più abbondante presente nel sangue. Questa proteina funziona da carrier per un gran numero di molecole, sia endogene, come ad esempio bilirubina, tiroxina, ormoni steroidei, acidi grassi, che xenobiotici. Inoltre aumenta la solubilità di molecole lipofile poco solubili in ambiente acquoso, come ad esempio i tassani. Il legame alla HSA è generalmente stereoselettivo e ad avviene a livello di siti di legame ad alta affinità. Inoltre è ben noto che la competizione tra farmaci o tra un farmaco e metaboliti endogeni, possa variare in maniera significativa la loro frazione libera, modificandone l’attività e la tossicità. Per queste sue proprietà la HSA può influenzare sia le proprietà farmacocinetiche che farmacodinamiche dei farmaci. Non è inusuale che un intero progetto di sviluppo di un farmaco possa venire abbandonato a causa di un’affinità troppo elevata alla HSA, o a un tempo di emivita troppo corto, o a una scarsa distribuzione dovuta ad un debole legame alla HSA. Dal punto di vista farmacocinetico, quindi, la HSA è la proteina di trasporto del plasma più importante. Un gran numero di pubblicazioni dimostra l’affidabilità della tecnica biocromatografica nello studio dei fenomeni di bioriconoscimento tra proteine e piccole molecole [2-6]. Il mio lavoro si è focalizzato principalmente sull’uso della biocromatografia come metodo per valutare le caratteristiche di legame di alcune serie di composti di interesse farmaceutico alla HSA, e sul miglioramento di tale tecnica. Per ottenere una miglior comprensione dei meccanismi di legame delle molecole studiate, gli stessi sistemi farmaco-HSA sono stati studiati anche con il dicroismo circolare (CD). Inizialmente, la HSA è stata immobilizzata su una colonna di silice epossidica impaccata 50 x 4.6 mm di diametro interno, utilizzando una procedura precedentemente riportata in letteratura [7], con alcune piccole modifiche. In breve, l’immobilizzazione è stata effettuata ponendo a ricircolo, attraverso una colonna precedentemente impaccata, una soluzione di HSA in determinate condizioni di pH e forza ionica. La colonna è stata quindi caratterizzata per quanto riguarda la quantità di proteina correttamente immobilizzata, attraverso l’analisi frontale di L-triptofano [8]. Di seguito, sono stati iniettati in colonna alcune soluzioni raceme di molecole note legare la HSA in maniera enantioselettiva, per controllare che la procedura di immobilizzazione non avesse modificato le proprietà di legame della proteina. Dopo essere stata caratterizzata, la colonna è stata utilizzata per determinare la percentuale di legame di una piccola serie di inibitori della proteasi HIV (IPs), e per individuarne il sito(i) di legame. La percentuale di legame è stata calcolata attraverso il fattore di capacità (k) dei campioni. Questo parametro in fase acquosa è stato estrapolato linearmente dal grafico log k contro la percentuale (v/v) di 1-propanolo presente nella fase mobile. Solamente per due dei cinque composti analizzati è stato possibile misurare direttamente il valore di k in assenza di solvente organico. Tutti gli IPs analizzati hanno mostrato un’elevata percentuale di legame alla HSA: in particolare, il valore per ritonavir, lopinavir e saquinavir è risultato maggiore del 95%. Questi risultati sono in accordo con dati presenti in letteratura, ottenuti attraverso il biosensore ottico [9]. Inoltre, questi risultati sono coerenti con la significativa riduzione di attività inibitoria di questi composti osservata in presenza di HSA. Questa riduzione sembra essere maggiore per i composti che legano maggiormente la proteina [10]. Successivamente sono stati eseguiti degli studi di competizione tramite cromatografia zonale. Questo metodo prevede di utilizzare una soluzione a concentrazione nota di un competitore come fase mobile, mentre piccole quantità di analita vengono iniettate nella colonna funzionalizzata con HSA. I competitori sono stati selezionati in base al loro legame selettivo ad uno dei principali siti di legame sulla proteina. In particolare, sono stati utilizzati salicilato di sodio, ibuprofene e valproato di sodio come marker dei siti I, II e sito della bilirubina, rispettivamente. Questi studi hanno mostrato un legame indipendente dei PIs ai siti I e II, mentre è stata osservata una debole anticooperatività per il sito della bilirubina. Lo stesso sistema farmaco-proteina è stato infine investigato in soluzione attraverso l’uso del dicroismo circolare. In particolare, è stato monitorata la variazione del segnale CD indotto di un complesso equimolare [HSA]/[bilirubina], a seguito dell’aggiunta di aliquote di ritonavir, scelto come rappresentante della serie. I risultati confermano la lieve anticooperatività per il sito della bilirubina osservato precedentemente negli studi biocromatografici. Successivamente, lo stesso protocollo descritto precedentemente è stato applicato a una colonna di silice epossidica monolitica 50 x 4.6 mm, per valutare l’affidabilità del supporto monolitico per applicazioni biocromatografiche. Il supporto monolitico monolitico ha mostrato buone caratteristiche cromatografiche in termini di contropressione, efficienza e stabilità, oltre che affidabilità nella determinazione dei parametri di legame alla HSA. Questa colonna è stata utilizzata per la determinazione della percentuale di legame alla HSA di una serie di poliamminochinoni sviluppati nell’ambito di una ricerca sulla malattia di Alzheimer. Tutti i composti hanno mostrato una percentuale di legame superiore al 95%. Inoltre, è stata osservata una correlazione tra percentuale di legame è caratteristiche della catena laterale (lunghezza e numero di gruppi amminici). Successivamente sono stati effettuati studi di competizione dei composti in esame tramite il dicroismo circolare in cui è stato evidenziato un effetto anticooperativo dei poliamminochinoni ai siti I e II, mentre rispetto al sito della bilirubina il legame si è dimostrato indipendente. Le conoscenze acquisite con il supporto monolitico precedentemente descritto, sono state applicate a una colonna di silice epossidica più corta (10 x 4.6 mm). Il metodo di determinazione della percentuale di legame utilizzato negli studi precedenti si basa su dati ottenuti con più esperimenti, quindi è necessario molto tempo prima di ottenere il dato finale. L’uso di una colonna più corta permette di ridurre i tempi di ritenzione degli analiti, per cui la determinazione della percentuale di legame alla HSA diventa molto più rapida. Si passa quindi da una analisi a medio rendimento a una analisi di screening ad alto rendimento (highthroughput- screening, HTS). Inoltre, la riduzione dei tempi di analisi, permette di evitare l’uso di soventi organici nella fase mobile. Dopo aver caratterizzato la colonna da 10 mm con lo stesso metodo precedentemente descritto per le altre colonne, sono stati iniettati una serie di standard variando il flusso della fase mobile, per valutare la possibilità di utilizzare flussi elevati. La colonna è stata quindi impiegata per stimare la percentuale di legame di una serie di molecole con differenti caratteristiche chimiche. Successivamente è stata valutata la possibilità di utilizzare una colonna così corta, anche per studi di competizione, ed è stata indagato il legame di una serie di composti al sito I. Infine è stata effettuata una valutazione della stabilità della colonna in seguito ad un uso estensivo. L’uso di supporti cromatografici funzionalizzati con albumine di diversa origine (ratto, cane, guinea pig, hamster, topo, coniglio), può essere proposto come applicazione futura di queste colonne HTS. Infatti, la possibilità di ottenere informazioni del legame dei farmaci in via di sviluppo alle diverse albumine, permetterebbe un migliore paragone tra i dati ottenuti tramite esperimenti in vitro e i dati ottenuti con esperimenti sull’animale, facilitando la successiva estrapolazione all’uomo, con la velocità di un metodo HTS. Inoltre, verrebbe ridotto anche il numero di animali utilizzati nelle sperimentazioni. Alcuni lavori presenti in letteratura dimostrano l’affidabilita di colonne funzionalizzate con albumine di diversa origine [11-13]: l’utilizzo di colonne più corte potrebbe aumentarne le applicazioni.

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Descrizione, tema e obiettivi della ricerca La ricerca si propone lo studio delle possibili influenze che la teoria di Aldo Rossi ha avuto sulla pratica progettuale nella Penisola Iberica, intende quindi affrontare i caratteri fondamentali della teoria che sta alla base di un metodo progettuale ed in particolar modo porre l'attenzione alle nuove costruzioni quando queste si confrontano con le città storiche. Ha come oggetto principale lo studio dei documenti, saggi e scritti riguardanti il tema della costruzione all'interno delle città storiche. Dallo studio di testi selezionati di Aldo Rossi sulla città si vuole concentrare l'attenzione sull'influenza che tale teoria ha avuto nei progetti della Penisola Iberica, studiare come è stata recepita e trasmessa successivamente, attraverso gli scritti di autori spagnoli e come ha visto un suo concretizzarsi poi nei progetti di nuove costruzioni all'interno delle città storiche. Si intende restringere il campo su un periodo ed un luogo precisi, Spagna e Portogallo a partire dagli anni Settanta, tramite la lettura di un importante evento che ha ufficializzato il contatto dell'architetto italiano con la Penisola Iberica, quale il Seminario di Santiago de Compostela tenutosi nel 1976. Al Seminario parteciparono numerosi architetti che si confrontarono su di un progetto per la città di Santiago e furono invitati personaggi di fama internazionale a tenere lezioni introduttive sul tema di dibattito in merito al progetto e alla città storica. Il Seminario di Santiago si colloca in un periodo storico cruciale per la Penisola Iberica, nel 1974 cade il regime salazarista in Portogallo e nel 1975 cade il regime franchista in Spagna ed è quindi di rilevante importanza capire il legame tra l'architettura e la nuova situazione politica. Dallo studio degli interventi, dei progetti che furono prodotti durante il Seminario, della relazione tra questo evento ed il periodo storico in cui esso va contestualizzato, si intende giungere alla individuazione delle tracce della reale presenza di tale eredità. Presupposti metodologici. Percorso e strumenti di ricerca La ricerca può quindi essere articolata in distinte fasi corrispondenti per lo più ai capitoli in cui si articola la tesi: una prima fase con carattere prevalentemente storica, di ricerca del materiale per poter definire il contesto in cui si sviluppano poi le vicende oggetto della tesi; una seconda fase di impronta teorica, ossia di ricerca bibliografica del materiale e delle testimonianze che provvedono alla definizione della reale presenza di effetti scaturiti dai contatti tra Rossi e la Penisola Iberica, per andare a costruire una eredità ; una terza fase che entra nel merito della composizione attraverso lo studio e la verifica delle prime due parti, tramite l'analisi grafica applicata ad uno specifico esempio architettonico selezionato; una quarta fase dove il punto di vista viene ribaltato e si indaga l'influenza dei luoghi visitati e dei contatti intrattenuti con alcuni personaggi della Penisola Iberica sull'architettura di Rossi, ricercandone i riferimenti. La ricerca è stata condotta attraverso lo studio di alcuni eventi selezionati nel corso degli anni che si sono mostrati significativi per l'indagine, per la risonanza che hanno avuto sulla storia dell'architettura della Penisola. A questo scopo si sono utilizzati principalmente tre strumenti: lo studio dei documenti, le pubblicazioni e le riviste prodotte in Spagna, gli scritti di Aldo Rossi in merito, e la testimonianza diretta attraverso interviste di personaggi chiave. La ricerca ha prodotto un testo suddiviso per capitoli che rispetta l'organizzazione in fasi di lavoro. A seguito di determinate condizioni storiche e politiche, studiate nella ricerca a supporto della tesi espressa, nella Penisola Iberica si è verificato il diffondersi della necessità e del desiderio di guardare e prendere a riferimento l'architettura europea e in particolar modo quella italiana. Il periodo sul quale viene focalizzata l'attenzione ha inizio negli anni Sessanta, gli ultimi prima della caduta delle dittature, scenario dei primi viaggi di Aldo Rossi nella Penisola Iberica. Questi primi contatti pongono le basi per intense e significative relazioni future. Attraverso l'approfondimento e la studio dei materiali relativi all'oggetto della tesi, si è cercato di mettere in luce il contesto culturale, l'attenzione e l'interesse per l'apertura di un dibattito intorno all'architettura, non solo a livello nazionale, ma europeo. Ciò ha evidenziato il desiderio di innescare un meccanismo di discussione e scambio di idee, facendo leva sull'importanza dello sviluppo e ricerca di una base teorica comune che rende coerente i lavori prodotti nel panorama architettonico iberico, seppur ottenendo risultati che si differenziano gli uni dagli altri. E' emerso un forte interesse per il discorso teorico sull'architettura, trasmissibile e comunicabile, che diventa punto di partenza per un metodo progettuale. Ciò ha reso palese una condivisione di intenti e l'assunzione della teoria di Aldo Rossi, acquisita, diffusa e discussa, attraverso la pubblicazione dei suoi saggi, la conoscenza diretta con l'architetto e la sua architettura, conferenze, seminari, come base teorica su cui fondare il proprio sapere architettonico ed il processo metodologico progettuale da applicare di volta in volta negli interventi concreti. Si è giunti così alla definizione di determinati eventi che hanno permesso di entrare nel profondo della questione e di sondare la relazione tra Rossi e la Penisola Iberica, il materiale fornito dallo studio di tali episodi, quali il I SIAC, la diffusione della rivista "2C. Construccion de la Ciudad", la Coleccion Arquitectura y Critica di Gustavo Gili, hanno poi dato impulso per il reperimento di una rete di ulteriori riferimenti. E' stato possibile quindi individuare un gruppo di architetti spagnoli, che si identificano come allievi del maestro Rossi, impegnato per altro in quegli anni nella formazione di una Scuola e di un insegnamento, che non viene recepito tanto nelle forme, piuttosto nei contenuti. I punti su cui si fondano le connessioni tra l'analisi urbana e il progetto architettonico si centrano attorno due temi di base che riprendono la teoria esposta da Rossi nel saggio L'architettura della città : - relazione tra l'area-studio e la città nella sua globalità, - relazione tra la tipologia edificatoria e gli aspetti morfologici. La ricerca presentata ha visto nelle sue successive fasi di approfondimento, come si è detto, lo sviluppo parallelo di più tematiche. Nell'affrontare ciascuna fase è stato necessario, di volta in volta, operare una verifica delle tappe percorse precedentemente, per mantenere costante il filo del discorso col lavoro svolto e ritrovare, durante lo svolgimento stesso della ricerca, gli elementi di connessione tra i diversi episodi analizzati. Tale operazione ha messo in luce talvolta nodi della ricerca rimasti in sospeso che richiedevano un ulteriore approfondimento o talvolta solo una rivisitazione per renderne possibile un più proficuo collegamento con la rete di informazioni accumulate. La ricerca ha percorso strade diverse che corrono parallele, per quanto riguarda il periodo preso in analisi: - i testi sulla storia dell'architettura spagnola e la situazione contestuale agli anni Settanta - il materiale riguardante il I SIAC - le interviste ai partecipanti al I SIAC - le traduzioni di Gustavo Gili nella Coleccion Arquitectura y Critica - la rivista "2C. Construccion de la Ciudad" Esse hanno portato alla luce una notevole quantità di tematiche, attraverso le quali, queste strade vengono ad intrecciarsi e a coincidere, verificando l'una la veridicità dell'altra e rafforzandone il valore delle affermazioni. Esposizione sintetica dei principali contenuti esposti dalla ricerca Andiamo ora a vedere brevemente i contenuti dei singoli capitoli. Nel primo capitolo Anni Settanta. Periodo di transizione per la Penisola Iberica si è cercato di dare un contesto storico agli eventi studiati successivamente, andando ad evidenziare gli elementi chiave che permettono di rintracciare la presenza della predisposizione ad un cambiamento culturale. La fase di passaggio da una condizione di chiusura rispetto alle contaminazioni provenienti dall'esterno, che caratterizza Spagna e Portogallo negli anni Sessanta, lascia il posto ad un graduale abbandono della situazione di isolamento venutasi a creare intorno al Paese a causa del regime dittatoriale, fino a giungere all'apertura e all'interesse nei confronti degli apporti culturali esterni. E' in questo contesto che si gettano le basi per la realizzazione del I Seminario Internazionale di Architettura Contemporanea a Santiago de Compostela, del 1976, diretto da Aldo Rossi e organizzato da César Portela e Salvador Tarragó, di cui tratta il capitolo secondo. Questo è uno degli eventi rintracciati nella storia delle relazioni tra Rossi e la Penisola Iberica, attraverso il quale è stato possibile constatare la presenza di uno scambio culturale e l'importazione in Spagna delle teorie di Aldo Rossi. Organizzato all'indomani della caduta del franchismo, ne conserva una reminescenza formale. Il capitolo è organizzato in tre parti, la prima si occupa della ricostruzione dei momenti salienti del Seminario Proyecto y ciudad historica, dagli interventi di architetti di fama internazionale, quali lo stesso Aldo Rossi, Carlo Aymonino, James Stirling, Oswald Mathias Ungers e molti altri, che si confrontano sul tema delle città storiche, alle giornate seminariali dedicate all’elaborazione di un progetto per cinque aree individuate all’interno di Santiago de Compostela e quindi dell’applicazione alla pratica progettuale dell’inscindibile base teorica esposta. Segue la seconda parte dello stesso capitolo riguardante La selezione di interviste ai partecipanti al Seminario. Esso contiene la raccolta dei colloqui avuti con alcuni dei personaggi che presero parte al Seminario e attraverso le loro parole si è cercato di approfondire la materia, in particolar modo andando ad evidenziare l’ambiente culturale in cui nacque l’idea del Seminario, il ruolo avuto nella diffusione della teoria di Aldo Rossi in Spagna e la ripercussione che ebbe nella pratica costruttiva. Le diverse interviste, seppur rivolte a persone che oggi vivono in contesti distanti e che in seguito a questa esperienza collettiva hanno intrapreso strade diverse, hanno fatto emergere aspetti comuni, tale unanimità ha dato ancor più importanza al valore di testimonianza offerta. L’elemento che risulta più evidente è il lascito teorico, di molto prevalente rispetto a quello progettuale che si è andato mescolando di volta in volta con la tradizione e l’esperienza dei cosiddetti allievi di Aldo Rossi. Negli stessi anni comincia a farsi strada l’importanza del confronto e del dibattito circa i temi architettonici e nel capitolo La fortuna critica della teoria di Aldo Rossi nella Penisola Iberica è stato affrontato proprio questo rinnovato interesse per la teoria che in quegli anni si stava diffondendo. Si è portato avanti lo studio delle pubblicazioni di Gustavo Gili nella Coleccion Arquitectura y Critica che, a partire dalla fine degli anni Sessanta, pubblica e traduce in lingua spagnola i più importanti saggi di architettura, tra i quali La arquitectura de la ciudad di Aldo Rossi, nel 1971, e Comlejidad y contradiccion en arquitectura di Robert Venturi nel 1972. Entrambi fondamentali per il modo di affrontare determinate tematiche di cui sempre più in quegli anni si stava interessando la cultura architettonica iberica, diventando così ¬ testi di riferimento anche nelle scuole. Le tracce dell’influenza di Rossi sulla Penisola Iberica si sono poi ricercate nella rivista “2C. Construccion de la Ciudad” individuata come strumento di espressione di una teoria condivisa. Con la nascita nel 1972 a Barcellona di questa rivista viene portato avanti l’impegno di promuovere la Tendenza, facendo riferimento all’opera e alle idee di Rossi ed altri architetti europei, mirando inoltre al recupero di un ruolo privilegiato dell’architettura catalana. A questo proposito sono emersi due fondamentali aspetti che hanno legittimato l’indagine e lo studio di questa fonte: - la diffusione della cultura architettonica, il controllo ideologico e di informazione operato dal lavoro compiuto dalla rivista; - la documentazione circa i criteri di scelta della redazione a proposito del materiale pubblicato. E’ infatti attraverso le pubblicazioni di “2C. Construccion de la Ciudad” che è stato possibile il ritrovamento delle notizie sulla mostra Arquitectura y razionalismo. Aldo Rossi + 21 arquitectos españoles, che accomuna in un’unica esposizione le opere del maestro e di ventuno giovani allievi che hanno recepito e condiviso la teoria espressa ne “L’architettura della città”. Tale mostra viene poi riproposta nella Sezione Internazionale di Architettura della XV Triennale di Milano, la quale dedica un Padiglione col titolo Barcelona, tres epocas tres propuestas. Dalla disamina dei progetti presentati è emerso un interessante caso di confronto tra le Viviendas para gitanos di César Portela e la Casa Bay di Borgo Ticino di Aldo Rossi, di cui si è occupato l’ultimo paragrafo di questo capitolo. Nel corso degli studi è poi emerso un interessante risvolto della ricerca che, capovolgendone l’oggetto stesso, ne ha approfondito gli aspetti cercando di scavare più in profondità nell’analisi della reciproca influenza tra la cultura iberica e Aldo Rossi, questa parte, sviscerata nell’ultimo capitolo, La Penisola Iberica nel “magazzino della memoria” di Aldo Rossi, ha preso il posto di quello che inizialmente doveva presentarsi come il risvolto progettuale della tesi. Era previsto infatti, al termine dello studio dell’influenza di Aldo Rossi sulla Penisola Iberica, un capitolo che concentrava l’attenzione sulla produzione progettuale. A seguito dell’emergere di un’influenza di carattere prettamente teorica, che ha sicuramente modificato la pratica dal punto di vista delle scelte architettoniche, senza però rendersi esplicita dal punto di vista formale, si è preferito, anche per la difficoltà di individuare un solo esempio rappresentativo di quanto espresso, sostituire quest’ultima parte con lo studio dell’altra faccia della medaglia, ossia l’importanza che a sua volta ha avuto la cultura iberica nella formazione della collezione dei riferimenti di Aldo Rossi. L’articolarsi della tesi in fasi distinte, strettamente connesse tra loro da un filo conduttore, ha reso necessari successivi aggiustamenti nel percorso intrapreso, dettati dall’emergere durante la ricerca di nuovi elementi di indagine. Si è pertanto resa esplicita la ricercata eredità di Aldo Rossi, configurandosi però prevalentemente come un’influenza teorica che ha preso le sfumature del contesto e dell’esperienza personale di chi se ne è fatto ricevente, diventandone così un continuatore attraverso il proprio percorso autonomo o collettivo intrapreso in seguito. Come suggerisce José Charters Monteiro, l’eredità di Rossi può essere letta attraverso tre aspetti su cui si basa la sua lezione: la biografia, la teoria dell’architettura, l’opera. In particolar modo per quanto riguarda la Penisola Iberica si può parlare dell’individuazione di un insegnamento riferito alla seconda categoria, i suoi libri di testo, le sue partecipazioni, le traduzioni. Questo è un lascito che rende possibile la continuazione di un dibattito in merito ai temi della teoria dell’architettura, della sue finalità e delle concrete applicazioni nelle opere, che ha permesso il verificarsi di una apertura mentale che mette in relazione l’architettura con altre discipline umanistiche e scientifiche, dalla politica, alla sociologia, comprendendo l’arte, le città la morfologia, la topografia, mediate e messe in relazione proprio attraverso l’architettura.

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Definizione del problema: Nonostante il progresso della biotecnologia medica abbia consentito la sopravvivenza del feto, fuori dall’utero materno, ad età gestazionali sempre più basse, la prognosi a breve e a lungo termine di ogni nuovo nato resta spesso incerta e la medicina non è sempre in grado di rimediare completamente e definitivamente ai danni alla salute che spesso contribuisce a causare. Sottoporre tempestivamente i neonati estremamente prematuri alle cure intensive non ne garantisce la sopravvivenza; allo stesso modo, astenervisi non ne garantisce la morte o almeno la morte immediata; in entrambi i casi i danni alla salute (difetti della vista e dell’udito, cecità, sordità, paralisi degli arti, deficit motori, ritardo mentale, disturbi dell’apprendimento e del comportamento) possono essere gravi e permanenti ma non sono prevedibili con certezza per ogni singolo neonato. Il futuro ignoto di ogni nuovo nato, insieme allo sgretolamento di terreni morali condivisi, costringono ad affrontare laceranti dilemmi morali sull’inizio e sul rifiuto, sulla continuazione e sulla sospensione delle cure. Oggetto: Questo lavoro si propone di svolgere un’analisi critica di alcune strategie teoriche e pratiche con le quali, nell’ambito delle cure intensive ai neonati prematuri, la comunità scientifica, i bioeticisti e il diritto tentano di aggirare o di risolvere l’incertezza scientifica e morale. Tali strategie sono accomunate dalla ricerca di criteri morali oggettivi, o almeno intersoggettivi, che consentano ai decisori sostituti di pervenire ad un accordo e di salvaguardare il vero bene del paziente. I criteri esaminati vanno dai dati scientifici riguardanti la prognosi dei prematuri, a “fatti” di natura più strettamente morale come la sofferenza del paziente, il rispetto della libertà di coscienza del medico, l’interesse del neonato a sopravvivere e a vivere bene. Obiettivo: Scopo di questa analisi consiste nel verificare se effettivamente tali strategie riescano a risolvere l’incertezza morale o se invece lascino aperto il dilemma morale delle cure intensive neonatali. In quest’ultimo caso si cercherà di trovare una risposta alla domanda “chi deve decidere per il neonato?” Metodologia e strumenti: Vengono esaminati i più importanti documenti scientifici internazionali riguardanti le raccomandazioni mediche di cura e i pareri della comunità scientifica; gli studi scientifici riguardanti lo stato dell’arte delle conoscenze e degli strumenti terapeutici disponibili ad oggi; i pareri di importanti bioeticisti e gli approcci decisionali più frequentemente proposti ed adoperati; alcuni documenti giuridici internazionali riguardanti la regolamentazione della sperimentazione clinica; alcune pronunce giudiziarie significative riguardanti casi di intervento o astensione dall’intervento medico senza o contro il consenso dei genitori; alcune indagini sulle opinioni dei medici e sulla prassi medica internazionale; le teorie etiche più rilevanti riguardanti i criteri di scelta del legittimo decisore sostituto del neonato e la definizione dei suoi “migliori interessi” da un punto di vista filosofico-morale. Struttura: Nel primo capitolo si ricostruiscono le tappe più importanti della storia delle cure intensive neonatali, con particolare attenzione agli sviluppi dell’assistenza respiratoria negli ultimi decenni. In tal modo vengono messi in luce sia i cambiamenti morali e sociali prodotti dalla meccanizzazione e dalla medicalizzazione dell’assistenza neonatale, sia la continuità della medicina neonatale con il tradizionale paternalismo medico, con i suoi limiti teorici e pratici e con lo sconfinare della pratica terapeutica nella sperimentazione incontrollata. Nel secondo capitolo si sottopongono ad esame critico le prime tre strategie di soluzione dell’incertezza scientifica e morale. La prima consiste nel decidere la “sorte” di un singolo paziente in base ai dati statistici riguardanti la prognosi di tutti i nati in condizioni cliniche analoghe (“approccio statistico”); la seconda, in base alla risposta del singolo paziente alle terapie (“approccio prognostico individualizzato”); la terza, in base all’evoluzione delle condizioni cliniche individuali osservate durante un periodo di trattamento “aggressivo” abbastanza lungo da consentire la raccolta dei dati clinici utili a formulare una prognosi sicura(“approccio del trattamento fino alla certezza”). Viene dedicata una più ampia trattazione alla prima strategia perché l’uso degli studi scientifici per predire la prognosi di ogni nuovo nato accomuna i tre approcci e costituisce la strategia più diffusa ed emblematica di aggiramento dell’incertezza. Essa consiste nella costruzione di un’ “etica basata sull’evidenza”, in analogia alla “medicina basata sull’evidenza”, in quanto ambisce a fondare i doveri morali dei medici e dei genitori solo su fatti verificabili (le prove scientifiche di efficacia delle cure)apparentemente indiscutibili, avalutativi o autocertificativi della moralità delle scelte. Poiché la forza retorica di questa strategia poggia proprio su una (parziale) negazione dell’incertezza dei dati scientifici e sulla presunzione di irrilevanza della pluralità e della complessità dei valori morali nelle decisioni mediche, per metterne in luce i limiti si è scelto di dedicare la maggior parte del secondo capitolo alla discussione dei limiti di validità scientifica degli studi prognostici di cui i medici si avvalgono per predire la prognosi di ogni nuovo nato. Allo stesso scopo, in questo capitolo vengono messe in luce la falsa neutralità morale dei giudizi scientifici di “efficacia”, “prognosi buona”, “prognosi infausta” e di “tollerabilità del rischio” o dei “costi”. Nel terzo capitolo viene affrontata la questione della natura sperimentale delle cure intensive per i neonati prematuri al fine di suggerire un’ulteriore ragione dell’incertezza morale, dell’insostenibilità di obblighi medici di trattamento e della svalutazione dell’istituto del consenso libero e informato dei genitori del neonato. Viene poi documentata l’esistenza di due atteggiamenti opposti manifestati dalla comunità scientifica, dai bioeticisti e dal diritto: da una parte il silenzio sulla natura sperimentale delle terapie e dall’altra l’autocertificazione morale della sperimentazione incontrollata. In seguito si cerca di mostrare come entrambi, sebbene opposti, siano orientati ad occultare l’incertezza e la complessità delle cure ai neonati prematuri, per riaffermare, in tal modo, la precedenza dell’autorità decisionale del medico rispetto a quella dei genitori. Il quarto capitolo, cerca di rispondere alla domanda “chi deve decidere in condizioni di incertezza?”. Viene delineata, perciò, un’altra strategia di risoluzione dell’incertezza: la definizione del miglior interesse (best interest) del neonato, come oggetto, limite e scopo ultimo delle decisioni mediche, qualsiasi esse siano. Viene verificata l’ipotesi che il legittimo decisore ultimo sia colui che conosce meglio di ogni altro i migliori interessi del neonato. Perciò, in questo capitolo vengono esposte e criticate alcune teorie filosofiche sul concetto di “miglior interesse” applicato allo speciale status del neonato. Poiché quest’analisi, rivelando l’inconoscibilità del best interest del neonato, non consente di stabilire con sicurezza chi sia intitolato a prendere la decisione ultima, nell’ultimo capitolo vengono esaminate altre ragioni per le quali i genitori dovrebbero avere l’ultima parola nelle decisioni di fine o di proseguimento della vita. Dopo averle scartate, viene proposta una ragione alternativa che, sebbene non risolutiva, si ritiene abbia il merito di riconoscere e di non mortificare l’irriducibilità dell’incertezza e l’estrema complessità delle scelte morali, senza rischiare, però, la paralisi decisionale, il nichilismo morale e la risoluzione non pacifica dei conflitti.

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La ricerca svolta ha individuato fra i suoi elementi promotori l’orientamento determinato da parte della comunità europea di dare vita e sostegno ad ambiti territoriali intermedi sub nazionali di tipo regionale all’interno dei quali i sistemi di città potessero raggiungere le massime prestazioni tecnologiche per cogliere gli effetti positivi delle innovazioni. L’orientamento europeo si è confrontato con una realtà storica e geografica molto variata in quanto accanto a stati membri, nei quali le gerarchie fra città sono storicamente radicate e funzionalmente differenziate secondo un ordine che vede la città capitale dominante su città subalterne nelle quali la cultura di dominio del territorio non è né continua né gerarchizzata sussistono invece territori nazionali compositi con una città capitale di riconosciuto potere ma con città di minor dimensione che da secoli esprimono una radicata incisività nella organizzazione del territorio di appartenenza. Alla prima tipologia di stati appartengono ad esempio i Paesi del Nord Europa e l’Inghilterra, esprimendo nella Francia una situazione emblematica, alla seconda tipologia appartengono invece i Paesi dell’aera mediterranea, Italia in primis, con la grande eccezione della Germania. Applicando gli intendimenti comunitari alla realtà locale nazionale, questa tesi ha avviato un approfondimento di tipo metodologico e procedurale sulla possibile organizzazione a sistema di una regione fortemente policentrica nel suo sviluppo e “artificiosamente” rinata ad unità, dopo le vicende del XIX secolo: l’Emilia-Romagna. Anche nelle regioni che si presentano come storicamente organizzate sulla pluralità di centri emergenti, il rapporto col territorio è mediato da centri urbani minori che governano il tessuto cellulare delle aggregazioni di servizi di chiara origine agraria. Questo stato di cose comporta a livello politico -istituzionale una dialettica vivace fra territori voluti dalle istituzioni e territori legittimati dal consolidamento delle tradizioni confermato dall’uso attuale. La crescente domanda di capacità di governo dello sviluppo formulata dagli operatori economici locali e sostenuta dalle istituzioni europee si confronta con la scarsa capacità degli enti territoriali attuali: Regioni, Comuni e Province di raggiungere un livello di efficienza sufficiente ad organizzare sistemi di servizi adeguati a sostegno della crescita economica. Nel primo capitolo, dopo un breve approfondimento sulle “figure retoriche comunitarie”, quali il policentrismo, la governance, la coesione territoriale, utilizzate per descrivere questi fenomeni in atto, si analizzano gli strumenti programmatici europei e lo S.S.S.E,. in primis, che recita “Per garantire uno sviluppo regionale equilibrato nella piena integrazione anche nell’economia mondiale, va perseguito un modello di sviluppo policentrico, al fine di impedire un’ulteriore eccessiva concentrazione della forza economica e della popolazione nei territori centrali dell’UE. Solo sviluppando ulteriormente la struttura, relativamente decentrata, degli insediamenti è possibile sfruttare il potenziale economico di tutte le regioni europee.” La tesi si inserisce nella fase storica in cui si tenta di definire quali siano i nuovi territori funzionali e su quali criteri si basa la loro riconoscibilità; nel tentativo di adeguare ad essi, riformandoli, i territori istituzionali. Ai territori funzionali occorre riportare la futura fiscalità, ed è la scala adeguata per l'impostazione della maggior parte delle politiche, tutti aspetti che richiederanno anche la necessità di avere una traduzione in termini di rappresentanza/sanzionabilità politica da parte dei cittadini. Il nuovo governo auspicato dalla Comunità Europea prevede una gestione attraverso Sistemi Locali Territoriali (S.Lo.t.) definiti dalla combinazione di milieu locale e reti di attori che si comportano come un attore collettivo. Infatti il secondo capitolo parte con l’indagare il concetto di “regione funzionale”, definito sulla base della presenza di un nucleo e di una corrispondente area di influenza; che interagisce con altre realtà territoriali in base a relazioni di tipo funzionale, per poi arrivare alla definizione di un Sistema Locale territoriale, modello evoluto di regione funzionale che può essere pensato come una rete locale di soggetti i quali, in funzione degli specifici rapporti che intrattengono fra loro e con le specificità territoriali del milieu locale in cui operano e agiscono, si comportano come un soggetto collettivo. Identificare un sistema territoriale, è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per definire qualsiasi forma di pianificazione o governance territoriale, perchè si deve soprattutto tener conto dei processi di integrazione funzionale e di networking che si vengono a generare tra i diversi sistemi urbani e che sono specchio di come il territorio viene realmente fruito., perciò solo un approccio metodologico capace di sfumare e di sovrapporre le diverse perimetrazioni territoriali riesce a definire delle aree sulle quali definire un’azione di governo del territorio. Sin dall’inizio del 2000 il Servizio Sviluppo Territoriale dell’OCSE ha condotto un’indagine per capire come i diversi paesi identificavano empiricamente le regioni funzionali. La stragrande maggioranza dei paesi adotta una definizione di regione funzionale basata sul pendolarismo. I confini delle regioni funzionali sono stati definiti infatti sulla base di “contorni” determinati dai mercati locali del lavoro, a loro volta identificati sulla base di indicatori relativi alla mobilità del lavoro. In Italia, la definizione di area urbana funzionale viene a coincidere di fatto con quella di Sistema Locale del Lavoro (SLL). Il fatto di scegliere dati statistici legati a caratteristiche demografiche è un elemento fondamentale che determina l’ubicazione di alcuni servizi ed attrezzature e una mappa per gli investimenti nel settore sia pubblico che privato. Nell’ambito dei programmi europei aventi come obiettivo lo sviluppo sostenibile ed equilibrato del territorio fatto di aree funzionali in relazione fra loro, uno degli studi di maggior rilievo è stato condotto da ESPON (European Spatial Planning Observation Network) e riguarda l’adeguamento delle politiche alle caratteristiche dei territori d’Europa, creando un sistema permanente di monitoraggio del territorio europeo. Sulla base di tali indicatori vengono costruiti i ranking dei diversi FUA e quelli che presentano punteggi (medi) elevati vengono classificati come MEGA. In questo senso, i MEGA sono FUA/SLL particolarmente performanti. In Italia ve ne sono complessivamente sei, di cui uno nella regione Emilia-Romagna (Bologna). Le FUA sono spazialmente interconnesse ed è possibile sovrapporre le loro aree di influenza. Tuttavia, occorre considerare il fatto che la prossimità spaziale è solo uno degli aspetti di interazione tra le città, l’altro aspetto importante è quello delle reti. Per capire quanto siano policentrici o monocentrici i paesi europei, il Progetto Espon ha esaminato per ogni FUA tre differenti parametri: la grandezza, la posizione ed i collegamenti fra i centri. La fase di analisi della tesi ricostruisce l’evoluzione storica degli strumenti della pianificazione regionale analizzandone gli aspetti organizzativi del livello intermedio, evidenziando motivazioni e criteri adottati nella suddivisione del territorio emilianoromagnolo (i comprensori, i distretti industriali, i sistemi locali del lavoro…). La fase comprensoriale e quella dei distretti, anche se per certi versi effimere, hanno avuto comunque il merito di confermare l’esigenza di avere un forte organismo intermedio di programmazione e pianificazione. Nel 2007 la Regione Emilia Romagna, nell’interpretare le proprie articolazioni territoriali interne, ha adeguato le proprie tecniche analitiche interpretative alle direttive contenute nel Progetto E.S.P.O.N. del 2001, ciò ha permesso di individuare sei S.Lo.T ( Sistemi Territoriali ad alta polarizzazione urbana; Sistemi Urbani Metropolitani; Sistemi Città – Territorio; Sistemi a media polarizzazione urbana; Sistemi a bassa polarizzazione urbana; Reti di centri urbani di piccole dimensioni). Altra linea di lavoro della tesi di dottorato ha riguardato la controriprova empirica degli effettivi confini degli S.Lo.T del PTR 2007 . Dal punto di vista metodologico si è utilizzato lo strumento delle Cluster Analisys per impiegare il singolo comune come polo di partenza dei movimenti per la mia analisi, eliminare inevitabili approssimazioni introdotte dalle perimetrazioni legate agli SLL e soprattutto cogliere al meglio le sfumature dei confini amministrativi dei diversi comuni e province spesso sovrapposti fra loro. La novità è costituita dal fatto che fino al 2001 la regione aveva definito sullo stesso territorio una pluralità di ambiti intermedi non univocamente circoscritti per tutte le funzioni ma definiti secondo un criterio analitico matematico dipendente dall’attività settoriale dominante. In contemporanea col processo di rinnovamento della politica locale in atto nei principali Paesi dell’Europa Comunitaria si va delineando una significativa evoluzione per adeguare le istituzioni pubbliche che in Italia comporta l’attuazione del Titolo V della Costituzione. In tale titolo si disegna un nuovo assetto dei vari livelli Istituzionali, assumendo come criteri di riferimento la semplificazione dell’assetto amministrativo e la razionalizzazione della spesa pubblica complessiva. In questa prospettiva la dimensione provinciale parrebbe essere quella tecnicamente più idonea per il minimo livello di pianificazione territoriale decentrata ma nel contempo la provincia come ente amministrativo intermedio palesa forti carenze motivazionali in quanto l’ente storico di riferimento della pianificazione è il comune e l’ente di gestione delegato dallo stato è la regione: in generale troppo piccolo il comune per fare una programmazione di sviluppo, troppo grande la regione per cogliere gli impulsi alla crescita dei territori e delle realtà locali. Questa considerazione poi deve trovare elementi di compatibilità con la piccola dimensione territoriale delle regioni italiane se confrontate con le regioni europee ed i Laender tedeschi. L'individuazione di criteri oggettivi (funzionali e non formali) per l'individuazione/delimitazione di territori funzionali e lo scambio di prestazioni tra di essi sono la condizione necessaria per superare l'attuale natura opzionale dei processi di cooperazione interistituzionale (tra comuni, ad esempio appartenenti allo stesso territorio funzionale). A questo riguardo molto utile è l'esperienza delle associazioni, ma anche delle unioni di comuni. Le esigenze della pianificazione nel riordino delle istituzioni politico territoriali decentrate, costituiscono il punto finale della ricerca svolta, che vede confermato il livello intermedio come ottimale per la pianificazione. Tale livello è da intendere come dimensione geografica di riferimento e non come ambito di decisioni amministrative, di governance e potrebbe essere validamente gestito attraverso un’agenzia privato-pubblica dello sviluppo, alla quale affidare la formulazione del piano e la sua gestione. E perché ciò avvenga è necessario che il piano regionale formulato da organi politici autonomi, coordinati dall’attività dello stato abbia caratteri definiti e fattibilità economico concreta.

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Il presente lavoro affronta il problema della traduzione dei termini culturo-specifici nella letteratura contemporanea di lingua tedesca ambientata nella DDR. L’analisi della produzione narrativa della Wendeliteratur consente di osservare come il lessico e le espressioni tipiche della DDR vengano utilizzati nelle opere letterarie in funzione citazionale per denotare e connotare la realtà della Germania dell’Est. Attraverso un approccio integrato che coniuga i contributi teorici degli studi sulla traduzione con gli aspetti della pratica traduttiva il lavoro indaga il tema dei realia attraverso una presentazione delle ricerche esistenti, propone una classificazione specifica per i realia della DDR e procede a una ricognizione delle strategie e dei procedimenti traduttivi concreti, che consente di evidenziare le diverse scelte adottate dai traduttori. Attraverso un’analisi ermeneutica dei testi e lo strumento dell’isotopia come indicatore di coerenza le traduzioni italiane delle opere della Wendeliteratur sono oggetto di un’analisi critica. I risultati dell’analisi vengono infine utilizzati come riferimento per la traduzione dei realia nel racconto di F.C. Delius, Die Birnen von Ribbeck.

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Lo scopo di questa dissertazione è quello di costruire un modello di promozione della salute nel contesto di lavoro in relazione al consumo di sostanze psicoattive fra lavoratori, attraverso il confronto tra la situazione italiana e inglese. L’ipotesi di fondo rimanda all’idea che i luoghi di lavoro possano rappresentare setting d’elezione per i progetti di prevenzione non solo perché alcuni studi dimostrano l’esistenza di fattori di rischio connessi alla mansione rispetto alle condotte relative allo stile di vita, ma anche perché il consumo di alcol e droghe è altamente diffuso tra i lavoratori e questo comporta rischi per la sicurezza e la salute personale nonché quella dei colleghi di lavoro. Si tratta quindi di indagare il rapporto tra contesto lavorativo e utilizzo di sostanze al fine di suggerire  alla luce degli studi internazionali in materia e delle riflessioni condotte dai soggetti coinvolti nella ricerca che si andrà a presentare  linee guida e indicazioni operative per la realizzazione di interventi di promozione alla salute nei contesti professionali. A tal fine, saranno analizzati gli esiti di 13 focus group che hanno coinvolto esperti italiani e 6 interviste somministrate a esperti inglesi volti a definire la situazione attuale in Italia e Gran Bretagna in materia di prevenzione del consumo di alcol e droghe nei luoghi di lavoro. In particolare, l’analisi verterà sulle seguenti aree: - Percezione circa la diffusione dei consumi nei luoghi di lavoro - Presentazione delle politiche adottate, in logica comparativa, tra i due paesi. - Analisi critica degli interventi e problematiche aperte. L’analisi del materiale empirico permette di delineare due modelli costruiti sulla base dei focus group e delle interviste: - in Italia si può affermare che prevalga il cd. modello della sicurezza: di recente trasformazione, questo sistema enfatizza la dimensione del controllo, tanto che si parla di sorveglianza sanitaria. É orientato alla sicurezza concepita quale rimozione dei fattori di rischio. Il consumo di sostanze (anche sporadico) è inteso quale espressione di una patologia che richiede l’intervento sanitario secondo modalità previste dal quadro normativo: una procedura che annulla la discrezionalità sia del datore di lavoro sia del medico competente. Si connota inoltre per contraddizioni interne e trasversali rispetto alle categorie lavorative (i controlli non si applicano alle professioni associate a maggiore prestigio sociale sebbene palesemente associate a rischio, come per esempio i medici) e alle sostanze (atteggiamento repressivo soprattutto verso le droghe illegali); - in Gran Bretagna, invece, il modello si configura come responsabilità bilaterale: secondo questo modello, se è vero che il datore di lavoro può decidere in merito all’attuazione di misure preventive in materia di alcol e droghe nei luoghi di lavoro, egli è ritenuto responsabile della mancata vigilanza. D’altro canto, il lavoratore che non rispetta quanto previsto nella politica scritta può essere soggetto a licenziamento per motivi disciplinari. Questo modello, particolarmente attento al consumo di tutte le sostanze psicoattive (legali e illegali), considera il consumo quale esito di una libera scelta individuale attraverso la quale il lavoratore decide di consumare alcol e droghe così come decide di dedicarsi ad altre condotte a rischio. Si propone di ri-orientare le strategie analizzate nei due paesi europei presi in esame attraverso la realizzazione di un modello della promozione della salute fondato su alcuni punti chiave: – coinvolgimento di tutti i lavoratori (e non solo coloro che svolgono mansioni a rischio per la sicurezza) al fine di promuovere benessere secondo un approccio olistico di salute, orientato ad intervenire non soltanto in materia di consumo di sostanze psicoattive (legali e illegali), ma più in generale sulle condotte a rischio; – compartecipazione nelle diverse fasi (programmazione, realizzazione e valutazione del progetto) del lavoratore, datore di lavoro e medico competente secondo una logica di flessibilità, responsabilizzazione condivisa fra i diversi attori, personalizzazione e co-gestione dell’intervento; – azione volta a promuovere i fattori di protezione agendo simultaneamente sul contrasto dei fattori di rischio (stress, alienazione, scarso riconoscimento del ruolo svolto), attraverso interventi che integrano diverse strategie operative alla luce delle evidenze scientifiche (Evidence-Based Prevention); – ricorso a strumenti di controllo (drug testing) subordinato all’esigenza di tutelare l’incolumità fisica del lavoratore e dei colleghi, da attuarsi sempre e comunque attraverso prassi che non violino la privacy e attraverso strumenti in grado di verificare l’effettivo stato di alterazione psico-fisica sul luogo di lavoro; – demedicalizzazione delle situazioni di consumo che non richiedono un intervento prettamente sanitario, ma che al contrario potrebbero essere affrontate attraverso azioni incentrate sul care anziché la cure; – messa a disposizione di servizi ad hoc con funzione di supporto, counselling, orientamento per i lavoratori, non stigmatizzanti e con operatori di formazione non solamente sanitaria, sull’esempio degli EAPs (Employee Assistence Programs) statunitensi. Si ritiene che questo modello possa trasformare i contesti di lavoro da agenzie di controllo orientate alla sicurezza a luoghi di intervento orientati al benessere attraverso un’azione sinergica e congiunta volta a promuovere i fattori di protezione a discapito di quelli di rischio in modo tale da intervenire non soltanto sul consumo di sostanze psicotrope, ma più in generale sullo stile di vita che influenza la salute complessiva.

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La presente tesi dimostra che la letteratura nera canadese può costituire una critica al concetto di appartenenza, così come è stato sempre rappresentato nel Canada anglofono. Più specificatamente, prende in considerazione tre scrittori contemporanei – George Elliott Clarke, Austin Clarke e Dionne Brand – che mettono in evidenza, seppure non nei termini classici, ciò che Stuart Hall descrive come “quegli aspetti delle nostre identità che scaturiscono dal nostro ‘appartenere’ a distinte culture etniche, razziali, linguistiche, religiose e soprattutto nazionali” (Stuart Hall, Modernity 596). Ognuno di essi, infatti, pone in evidenza il senso di appartenenza culturale in modo incerto, ambivalente e perfino estremamente critico. L’analisi dei loro testi, inoltre, è imprescindibile, dallo studio di tre discorsi (termine da intendersi secondo la definizione proposta da Ian Angus): il nazionalismo, il multiculturalismo e la diaspora che sembrano condizionare e limitare i termini semantici, concettuali e politici dell’appartenenza culturale, specialmente nell’ambito degli studi canadesi e postcoloniali. In realtà, autori quali Austin Clarke e Dionne Brand, offrendo una prospettiva unica ed originale da cui avviare una critica a tali concetti, propongono dei ‘linguaggi di appartenenza’ diversi e, di conseguenza, modi alternativi di manifestare e concretizzare, non solo un attaccamento culturale, ma anche un impegno politico profondo. Il lavoro è composto dall’Introduzione, in cui vengono esplicitate le ragioni dell’argomento scelto; il Capitolo I, che funge da impianto metodologico alla ricerca, spiega il concetto di appartenenza; da tre Capitoli centrali, ciascuno dedicato ad un singolo autore, che esaminano una serie di opere, di ogni singolo autore, al fine di esaminare e giudicare i tre discorsi; e dalla Conclusione che contiene delle considerazioni sul ruolo della letteratura nera canadese all’interno degli studi canadesi contemporanei e postcoloniali.

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Punto di partenza per il lavoro presentato, sono le tematiche legate alle pratiche di consumo di cibo in un’ottica che superi una semplice visione utilitaristica delle stesse, mentre viene evidenziato invece il più profondo rapporto uomo-cibo e i fenomeni di socializzazione che ne scaturiscono. Si trovano pertanto a coniugarsi la sociologia dei consumi e la sociologia della cultura. La base per questa visione del cibo e delle pratiche di produzione e consumo ad esso collegate è l’ipotesi che nel rapporto uomo-cibo sia individuabile un livello di significato superiore al mero utilitarismo/nutrizionismo, che si compone di una dimensione strutturale, una dimensione simbolica ed una dimensione metaforica. Il cibo, e di conseguenza tutte le pratiche ad esso collegate (produzione, elaborazione, consumo), rientrano pertanto in maniera naturale nella categoria “cultura”, e quindi, accostandoci al paradigma del passaggio da natura a società, attraverso il cibo si crea e si alimenta la socialità del consorzio umano, e quindi l’umanità stessa. Accostando a queste concettualizzazioni l’idea che il consumo in generale possa diventare una prassi tramite cui esperire una più diffusa ricerca di sostenibilità nello sviluppo del territorio, (facendosi carico delle conseguenze socio-ambientali derivanti dalla fruizione di determinati oggetti piuttosto che altri), si è sviluppata l’ipotesi che al consumo alimentare possa competere un ruolo precipuamente attivo nella definizione di pratiche sociali orientate alla sostenibilità, capaci cioè di integrare attraverso il consumo – e in relazione all’indebolimento delle tradizionali agenzie di socializzazione – quella perdita di senso civico e solidarietà organizzata che sperimentiamo nelle prassi di vita quotidiana. Sul piano operativo, la tesi è articolata in sei capitoli: • Il percorso presentato prende le mosse dalla considerazione che il cibo, inteso in un’ottica sociologica, costituisce un fattore culturale non irrilevante, anzi fondamentale per il consorzio umano. Si fornisce quindi una breve descrizione del ruolo del cibo nei suoi accostamenti con la definizione di un territorio (e quindi con la sua storia, economia e società), con le arti visive, con il cinema, con la musica, ma anche con la sfera sensoriale (tatto, gusto, olfatto) ed emotivo-cognitiva (psiche) dell’uomo. • Successivamente, si analizza nello specifico la funzione socializzante delle pratiche alimentari, ripercorrendo le tappe principali degli studi classici di sociologia e antropologia dell’alimentazione e introducendo anche l’idea di cibo come simbolo e metafora, che si riflettono sul piano sociale e sulle relazioni tra gli individui. La constatazione che le pratiche legate al cibo sono le uniche attività umane da sempre e per sempre irrinunciabili è un chiaro indicatore di come esse giochino un ruolo fondamentale nella socializzazione umana. • Nel terzo capitolo, la prospettiva simbolico-metaforica è la base di un’analisi di tipo storico delle pratiche alimentari, nello specifico delle pratiche di consumo di cibo, dalle origini dell’umanità ai giorni nostri. Viene presentato un excursus essenziale in cui l’attenzione è focalizzata sulla tavola, sui cibi ivi serviti e sugli eventi di socializzazione che si sviluppano attorno ad essa, considerando situazioni storico-sociali oggettive di cui si è in grado, oggi, di ricostruire le dinamiche e le fasi più significative. • Il quarto capitolo costituisce un momento di riflessione teorica intorno al tema della globalizzazione nella contemporaneità. Sia per una logica progressione cronologica all’interno del lavoro presentato, sia per la rilevanza in quanto inerente alla società attuale in cui viviamo, non si è potuto infatti non soffermarsi un po’ più a fondo sull’analisi delle pratiche alimentari nella contemporaneità, e quindi nella società generalmente definita come “globalizzata” (o “mcdonaldizzata”, per dirla alla Ritzer) ma che in realtà è caratterizzata da un più sottile gioco di equilibri tra dimensione locale e dimensione globale, che si compenetrano come anche nel termine che indica tale equilibrio: il “glocale”. In questo capitolo vengono presentati i principali riferimenti teorici relativi a queste tematiche. • Nel quinto capitolo è stata analizzata, quindi, la declinazione in senso “alimentare” della relazione tra globale e locale, e quindi non solo i mutamenti intercorsi nella contemporaneità nelle pratiche di produzione, scambio e consumo di cibo con particolare riferimento ai sistemi culturali e al territorio, ma anche alcune proposte (sia teoriche che pratiche) a garanzia di uno sviluppo sostenibile del territorio, che trovi i suoi fondamenti sulla perpetuazione di modalità tradizionali di produzione, commercio e consumo di cibo. • Nel sesto capitolo viene analizzato un caso di studio significativo, (il movimento Slow Food, con il suo progetto Terra Madre) senza la pretesa di confermare o smentire né le ipotesi di partenza, né i concetti emersi in itinere, ma semplicemente con l’intenzione di approfondire il percorso svolto attraverso l’esemplificazione operativa e la ricerca entro un piccolo campione composto da testimoni significativi e intervistati, sottoposti a colloqui e interviste incentrate su item inerenti i temi generali di questo lavoro e sul caso di studio considerato. La scelta del caso è motivata dalla considerazione che, alla luce delle filosofia che lo anima e delle attività che svolge, il movimento Slow Food con il progetto Terra Madre costituisce una vera e propria eccellenza nella pianificazione di uno sviluppo sostenibile del territorio e delle sue risorse, tanto economiche quanto sociali e culturali. L’intera analisi è stata condotta tenendo presente l’importanza della comparazione e della collocazione del singolo caso non solo nel contesto sociale di riferimento, ma anche in sintonia con l’ipotesi della ricerca, e quindi con l’assunto che le pratiche alimentari possano guidare uno sviluppo sostenibile del territorio. Per analizzare la realtà individuata, si è in primo luogo proceduto alla raccolta e all’analisi di dati e informazioni volte alla ricostruzione della sua storia e del suo sviluppo attuale. Le informazioni sono state raccolte attraverso l’analisi di materiali, documenti cartacei e documenti multimediali. Si è poi proceduto con colloqui in profondità a testimoni significativi individuati nell’ambito delle attività promosse da Slow Food, con particolare riferimento alle attività di Terra Madre; le informazioni sono state elaborate con l’ausilio dell’analisi del contenuto. Alla luce di quanto analizzato, tanto a livello teorico quanto a livello empirico, la tesi si conclude con alcune considerazioni che, in linea con la finalità dichiarata di approfondire (più che di confermare o smentire) le ipotesi di partenza circa un ruolo fondamentale delle pratiche alimentari nello sviluppo sostenibile del territorio, non possono comunque non tendere ad una convalida dei concetti introduttivi. Si individuano pertanto spunti importanti per affermare che nelle pratiche alimentari, nei tre momenti in cui trovano specificazione (la produzione, lo scambio, il consumo), siano individuabili quei semi valoriali che possono dare solidità alle ipotesi di partenza, e che quindi - nell’intento di operare per uno sviluppo sostenibile del territorio - sia possibile farne un valido strumento al fine di costruire dei veri e propri percorsi di sostenibilità ancorati ai concetti di tutela della tradizione locale, recupero e salvaguardia dei metodi tradizionali di produzione e conservazione, certificazione di tipicità, controllo della distribuzione, riscatto e promozione delle modalità tradizionali di consumo con particolare riferimento alle culture locali.

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La tesi ha come oggetto lo studio dei legami culturali posti in essere tra la Russia e l’Italia nel Settecento effettuato a partire dall’analisi del teatro di Arkhangelskoe (nei pressi di Mosca), ideato da Pietro Gonzaga. Ciò ha consentito di inquadrare l’atmosfera culturale del periodo neoclassico a partire da un’angolazione insolita: il monumento in questione, a dispetto della scarsa considerazione di cui gode all’interno degli studi di storia dell’arte, racchiude diverse ed interessanti problematiche artistiche. Queste ultime sono state tenute in debito conto nel processo dell’organizzazione della struttura del lavoro in relazione ai differenti livelli di analisi emersi in riferimento alla tematica scelta. Ogni capitolo rappresenta un punto di partenza che va utilizzato al fine di approfondire problematiche relative all’arte ed al teatro nei due Paesi, il tutto reso possibile grazie all’applicazione di un originale orientamento analitico. All’interno della tesi vengono infatti adoperati approcci e tecniche metodologiche che vanno dalla storia dell’arte all’analisi diretta dei monumenti, dall’interpretazione iconografica alla semiotica, per arrivare agli studi sociologici. Ciò alla fine ha consentito di rielaborare il materiale già noto e ampiamente studiato in modo convincente ed efficace, grazie al ragionamento sintetico adottato e alla possibilità di costruire paralleli letterari e artistici, frutto delle ricerche svolte nei diversi contesti. Il punto focale della tesi è rappresentato dalla figura di Pietro Gonzaga. Tra i decoratori e gli scenografi italiani attivi presso la corte russa tra il Settecento e l’Ottocento, questi è stato senza dubbio la figura più rilevante ed affascinante, in grado di lasciare una ricca eredità culturale e materiale nell’ambito dell’arte scenografica russa. Dimenticata per lungo tempo, l’opera di Pietro Gonzaga è attualmente oggetto di una certa riconsiderazione critica, suscitando curiosità e interesse da più parti. Guidando la ricerca su di un duplice binario, sia artistico che interculturale, si è quindi cercato di trovare alcune risonanze tra l’arte ed il pensiero di Gonzaga ed altre figure di rilievo non solo del suo secolo ma anche del Novecento, periodo in cui la cultura scenografica russa è riuscita ad affrancarsi dai dettami impartiti dalla lezione settecentesca, seguendo nuove ed originali strade espressive. In questo contesto spicca, ad esempio, la figura di Vsevolod Meyerchold, regista teatrale (uno dei protagonisti dell’ultimo capitolo della tesi) che ha instaurato un legame del tutto originale con i principi della visione scenica comunicati da Pietro Gonzaga. Lo sviluppo dell’argomento scelto ha richiesto di assumere una certa responsabilità critica, basandosi sulla personale sicurezza metodologica ed esperienza multidisciplinare al fine di tener conto dall’architettura, della teoria e della pratica teatrale – dalla conoscenza delle fonti fino agli studi del repertorio teatrale, delle specifiche artistiche locali, del contesto sociale dei due paesi a cavallo tra il ‘700 e l’‘800. Le problematiche toccate nella tesi (tra le quali si ricordano il ruolo specifico rivestito dal committente, le caratteristiche proprie della villa neoclassica russa, il fenomeno di ‘spettacoli muti’, la “teatralità” presente nel comportamento dei russi nell’epoca dei Lumi, la risonanza delle teorie italiane all’interno del arte russa) sono di chiara attualità per quanto concerne le ricerche relative al dialogo storico-artistico tra i due Paesi.

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La ricerca si propone come studio teorico e analitico basato sulla traduzione letteraria e audiovisiva del genere diasporico, esemplificato nel romanzo The Namesake – L’omonimo di J. Lahiri e nel film The Namesake – Il destino nel nome di M. Nair. Si sviluppa, quindi, un doppio percorso di analisi, concentrandosi sulla traduzione interlinguistica di due modalità testuali differenti, quella letteraria (il testo narrativo) e quella audiovisiva (in particolare, il doppiaggio). L’approccio teorico è di stampo interdisciplinare, come risulta sempre più imprescindibile nel campo dei Translation Studies: infatti, si cerca di coniugare prospettive di natura più linguistica, quali i Descriptive Translation Studies (in particolare, Toury 1995) e lo sviluppo degli studi sui cosiddetti ‘universali traduttivi’, con approcci di stampo più culturalista, in particolare gli studi sulla traduzione post-coloniali, con le loro riflessioni sui concetti di ‘alterità’ e ‘ibridismo’. Completa il quadro teorico di riferimento una necessaria definizione e descrizione del genere diasporico relativo alla cultura indiana, in rapporto sia al contesto di partenza (statunitense) sia al contesto di arrivo (italiano) per entrambi i testi presi in considerazione. La metodologia scelta per l’indagine è principalmente di natura linguistica, con l’adozione del modello elaborato dallo studioso J. Malone (1988). L’analisi empirica, accompagnata da una serie di riflessioni teoriche e linguistiche specifiche, si concentra su tre aspetti cruciali per entrambe le tipologie testuali, quali: la resa della naturalezza dei dialoghi nel discorso letterario e in quello filmico, la rappresentazione del multiculturalismo e delle varietà linguistiche caratterizzanti i due testi di partenza e i numerosi riferimenti culturo-specifici delle due opere e la loro traduzione in italiano. Si propongono, infine, alcune considerazioni in ottica intersemiotica in relazione alle tre aree individuate, a integrazione dell’indagine in chiave interlinguistica.

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Il presente elaborato ha per oggetto la tematica del Sé, in particolar modo il Sé corporeo. Il primo capitolo illustrerà la cornice teorica degli studi sul riconoscimento del Sé corporeo, affrontando come avviene l’elaborazione del proprio corpo e del proprio volto rispetto alle parti corporee delle altre persone. Il secondo capitolo descriverà uno studio su soggetti sani che indaga l’eccitabilità della corteccia motoria nei processi di riconoscimento sé/altro. I risultati mostrano un incremento dell’eccitabilità corticospinale dell’emisfero destro in seguito alla presentazione di stimoli propri (mano e cellulare), a 600 e 900 ms dopo la presentazione dello stimolo, fornendo informazioni sulla specializzazione emisferica substrati neurali e sulla temporalità dei processi che sottendono all’elaborazione del sé. Il terzo capitolo indagherà il contributo del movimento nel riconoscimento del Sé corporeo in soggetti sani ed in pazienti con lesione cerebrale destra. Le evidenze mostrano come i pazienti, che avevano perso la facilitazione nell’elaborare le parti del proprio corpo statiche, presentano tale facilitazione in seguito alla presentazione di parti del proprio corpo in movimento. Il quarto capitolo si occuperà dello sviluppo del sé corporeo in bambini con sviluppo atipico, affetti da autismo, con riferimento al riconoscimento di posture emotive proprie ed altrui. Questo studio mostra come alcuni processi legati al sé possono essere preservati anche in bambini affetti da autismo. Inoltre i dati mostrano che il riconoscimento del sé corporeo è modulato dalle emozioni espresse dalle posture corporee sia in bambini con sviluppo tipico che in bambini affetti da autismo. Il quinto capitolo sarà dedicato al ruolo dei gesti nel riconoscimento del corpo proprio ed altrui. I dati di questo studio evidenziano come il contenuto comunicativo dei gesti possa facilitare l’elaborazione di parti del corpo altrui. Nella discussione generale i risultati dei diversi studi verranno considerati all’interno della loro cornice teorica.

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La fotografia viene utilizzata intermedialmente per la narrazione di contromemorie e memorie traumatiche ricorrendo a numerose modalità e strategie di inserzione e impiego diverse. Se l’intermedialità da un lato non è riconducibile ad una serie di pratiche convenzionali, ma dipende dal contesto narrativo, dall’altro essa detiene un’organicità che la allinea funzionalmente ai processi e alle indagini sulla rappresentabilità del trauma. Inoltre, per la versatilità della sua natura poliedrica, la pratica narrativa intermediale (nelle sue configurazioni più diverse) assume una valenza epistemologica e metodologica nei confronti degli studi sull’esternazione e rielaborazione del trauma. Questo studio si prefigge di mettere a confronto testi teorici e testi narrativi per metterne in rilievo il reciproco apporto.

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Introduzione L’efficacia dei chemio/radioterapici ha aumentato notevolmente l’aspettativa di vita delle pazienti oncologiche, tuttavia, questi trattamenti possono compromettere la funzionalità ovarica. La crioconservazione di tessuto ovarico, con il successivo reimpianto, ha lo scopo di preservare la fertilità delle pazienti a rischio di fallimento ovarico precoce. Scopo dello studio Definire la migliore procedura di crioconservazione e reimpianto in grado di ottenere la neovascolarizzazione del tessuto reimpiantato nel minor tempo possibile al fine di diminuire la perdita follicolare causata dall’ischemia durante la procedura. Materiali e metodi Per ciascuna paziente (3) le biopsie ovariche, sono state prelevate laparoscopicamente e crioconservate secondo il protocollo di congelamento lento/scongelamento rapido. Campioni di corticale ovarica sono stati processati per l’analisi istologica, ultrastrutturale, immuistochimica e confocale per valutare la preservazione morfologiaca del tessuto. Le fettine di corticale ovarica sono state scongelate e reimpiantate ortotopicamente (2), nelle ovaia e in due tasche peritoneali, o eterotopicamente (1), in due tasche create nel sottocute sovrapubico. Risultati Le analisi di microscopia hanno mostrato il mantenimento di una discreta morfologia dello stroma, e dei vasi criopreservati e un lieve ma non significativo danneggiamento dei follicoli scongelati. Tutte le pazienti hanno mostrato la ripresa della funzionalità endocrina rispettivamente dopo 2/4 mesi dal reimpianto. Il color-doppler, inoltre ha rivelato un significativo aumento della vascolarizzazione ovarica rispetto alla quasi totale assenza di vascolarizzazione prima del reimpianto, quando le pazienti mostravano una conclamata menopausa. Conclusioni Lo studio ha confermato la ripresa della vascolarizzazione dell’ovaio in seguito a reimpianto avascolare di fettine di corticale, senza l’impiego di fattori esogeni o meccanici aggiuntivi, in tempi concordanti con i dati della letteratura. I risultati sono incoraggianti e l’avanzare degli studi e della ricerca potranno contribuire allo sviluppo di nuove metodologie di reimpianto che possano avere un successo clinico ed una sicurezza superiori a quelle finora ottenute.

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La ricerca sulle cellule staminali apre nuove prospettive per approcci di terapia cellulare. Molta attenzione è concentrata sulle cellule staminali isolate da membrane fetali, per la facilità di recupero del materiale di partenza, le limitate implicazioni etiche e le caratteristiche delle popolazioni di cellule staminali residenti. In particolare a livello dell’epitelio amniotico si concentra una popolazione di cellule (hAECs) con interessanti caratteristiche di staminalità, pluripotenza e immunomodulazione. Restano però una serie di limiti prima di arrivare ad un’applicazione clinica: l’uso di siero di origine animale nei terreni di coltura e le limitate conoscenze legate alla reazione immunitaria in vivo. La prima parte di questo lavoro è focalizzata sulle caratteristiche delle hAECs coltivate in un terreno privo di siero, in confronto a un terreno di coltura classico. Lo studio è concentrato sull’analisi delle caratteristiche biologiche, immunomodulatorie e differenziative delle hAECs. L’interesse verso le caratteristiche immunomodulatorie è legato alla possibilità che l’uso di un terreno serum free riduca il rischio di rigetto dopo trapianto in vivo. La maggior parte degli studi in vivo con cellule isolate da membrane fetali sono stati realizzati con cellule di derivazione umana in trapianti xenogenici, ma poco si sa circa la sopravvivenza di queste cellule in trapianti allogenici, come nel caso di trapianti di cellule di derivazione murina in modelli di topo. La seconda parte dello studio è focalizzata sulla caratterizzazione delle cellule derivate da membrane fetali di topo (mFMSC). Le caratteristiche biologiche, differenziative e immunomodulatorie in vitro e in vivo delle mFMSC sono state confrontate con i fibroblasti embrionali di topo. In particolare è stata analizzata la risposta immunitaria a trapianti di mFMSC nel sistema nervoso centrale (CNS) in modelli murini immunocompetenti.