71 resultados para Approssimazione, interpolazione, polinomi,funzioni,regolarizzazione
Resumo:
La tesi mira ad analizzare e valutare le attuali relazioni esistenti tra le regioni e l’Unione europea, alla luce dei processi di riforma in atto sia sul versante interno sia su quello europeo. In particolare, essa prende spunto dalla riforma del Titolo V della Costituzione italiana e dalle leggi di attuazione della stessa, che hanno ridisegnato i contorni del regionalismo italiano. Nell’introduzione si analizza il contesto europeo delle relazioni dell’Unione con le entità sub-statali; in tal senso si è voluto preliminarmente chiarire il senso in cui si è utilizzato il termine “regione”: non tutti gli Stati europei infatti accolgono una tale nozione nel senso in cui essa è utilizzata nell’ordinamento italiano, né i poteri conferiti alle regioni sono i medesimi in tutti gli Stati che utilizzano ripartizioni territoriali simili alle regioni italiane. Prendendo come punto di riferimento per la prima parte della ricerca le entità territoriali dotate di competenze legislative, trascurando le relazioni dell’UE con i soggetti sub-statali con attribuzioni meramente amministrative. La ricerca prende dunque le mosse dal concetto di “regionalismo comunitario”. La questione regionale ha sempre costituito un problema aperto per le istituzioni comunitarie (legato alla problematica del “deficit democratico” dei processi legislativi comunitari). Le istituzioni, soprattutto agli inizi del cammino di integrazione europea, risentivano infatti delle origini internazionali delle Comunità, e consideravano quale unici interlocutori possibili i governi centrali degli Stati membri. Si è quindi voluta mettere in luce la rapida evoluzione dell’attitudine regionale dell’Unione, provocata da una nuova coscienza comunitaria legata alla prima fase di attuazione della politica dei fondi strutturali, ma soprattutto all’ingresso sulla scena europea del principio di sussidiarietà, e degli effetti che esso è stato in grado di produrre sull’intero sistema di relazioni Stati/Regioni/Unione europea: l’Unione è giunta di recente ad accogliere una nozione più ampia di Stato, comprensiva – anche se in modo limitato e solo per alcuni fini – delle entità sub-statali. Lo studio si concentra poi sull’ordinamento italiano, presentando lo stato attuale della legislazione nazionale relativa alla partecipazione delle regioni al sistema del diritto comunitario. All’inizio del capitolo si precisa la fondamentale distinzione tra fase ascendente, cioè partecipazione di rappresentanti regionali alle procedure legislative dell’Unione, e fase discendente, cioè relativa al ruolo delle regioni nell’attuazione del diritto comunitario; tale distinzione appare necessaria al fine di chiarire le diverse modalità che può assumere il ruolo delle regioni nel sistema comunitario, e sarà ripresa durante tutta la ricerca. Il secondo capitolo esamina la riforma costituzionale del 2001, complessivamente orientata verso una ridefinizione del nostro sistema delle autonomie e delle loro relazioni con l’Unione europea. Nel nuovo testo costituzionale le prerogative regionali risultano ormai “costituzionalizzate”, trovano ora definitiva collocazione nell’art. 117 Cost. La riforma del 2001 comporta alcuni elementi innovativi circa la complessiva strutturazione del rapporto tra l’ordinamento nazionale e quello comunitario, in particolare prevedendo che “le regioni, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari, nel rispetto delle norme di procedura stabilite con legge dello Stato”. Grazie a questa previsione il coinvolgimento delle regioni assume rango costituzionale e si impone al legislatore ordinario, il quale può continuare a determinarne le modalità procedurali ma non cancellarlo o pregiudicarlo in modo sostanziale. In secondo luogo l’art. 117 Cost. propone, all’interno del nostro ordinamento, una definizione complessiva del rapporto tra le fonti statali e quelle regionali, rimodulando le sfere e le modalità di “interferenza” tra lo Stato e le autonomie regionali. Con riferimento alla ripartizione di competenze, l’evoluzione è evidente: da un sistema in cui la competenza generale era statale, e veniva fornita un’elencazione di dettaglio delle materie che facevano eccezione, si è giunti oggi ad un sistema capovolto, in cui per ogni materia non contenuta nell’elencazione dell’articolo 117 la competenza può essere regionale; in tale sistema può leggersi una forma di “sussidiarietà legislativa”, come messo in luce dalla ricerca. Lo studio passa poi ad analizzare le concrete modalità di partecipazione regionale nelle disposizioni delle leggi primarie che hanno dato attuazione alla novella costituzionale, con riferimento tanto alla fase ascendete quanto a quella discendente. La fase ascendente, osservata nel secondo capitolo della tesi, può verificarsi tramite la partecipazione diretta di rappresentanti regionali alle riunioni del Consiglio, così come previsto da una disposizione della legge n. 131/2003 (“La Loggia”), i cui risultati si sono rivelati però piuttosto modesti e privi, in assenza di una radicale revisione dei Trattati, di serie prospettive di sviluppo. Ma esiste altresì un'altra tipologia di relazioni sviluppabili in fase ascendente, relazioni “indirette”, cioè svolte tramite l’intermediazione dello Stato, che si fa portavoce delle istanze regionali a Bruxelles. In tale prospettiva, la ricerca si concentra sulle disposizioni della legge n. 11/2005 (“Buttiglione”), che riformano il sistema delle conferenze, prevedono precisi obblighi informativi per il Governo nei confronti delle regioni in relazione all’adozione di atti comunitari ed introducono nel panorama legislativo italiano l’istituto della riserva d’esame, al fine di dare maggior peso alle istituzioni regionali al momento dell’adozione di atti comunitari. La tesi passa poi all’analisi della fase discendente. Le funzioni regionali in materia di attuazione del diritto comunitario risultano altresì ampliate non soltanto alla luce della nuova formulazione dell’art. 117 Cost., ma anche e soprattutto grazie ad una disposizione della legge “Buttiglione”, che introduce la possibilità di adottare “leggi comunitarie regionali”, da adottarsi sul modello di legge comunitaria nazionale vigente nel nostro ordinamento fin dal 1989. Tale disposizione ha dato il via ad una serie di processi di riforma all’interno degli ordinamenti giuridici regionali, volti a predisporre tutti gli strumenti legislativi utili all’adozione delle leggi comunitarie regionali, di gran lunga la novità più importante contenuta nella disciplina della legge “Buttiglione”. Perciò, dopo un’analisi approfondita relativa al nuovo riparto di competenze tra Stato e regioni, oggetto della prima parte del capitolo terzo, ed uno studio relativo al locus standi delle regioni nel sistema giurisdizionale europeo, svolto nella seconda parte dello stesso capitolo, l’ultima parte della tesi è rivolta ad individuare gli atti regionali di maggior interesse nella prospettiva dell’attuazione del diritto comunitario realizzata tramite leggi comunitarie regionali. In quest’ambito particolare attenzione è stata rivolta alla legislazione della regione Emilia-Romagna, che si è dimostrata una delle regioni più attente e capaci di cogliere le potenzialità presenti nel “nuovo” sistema di relazioni delle regioni con il sistema comunitario.
Resumo:
E’ stato in primo luogo definito il criterio di efficienza dal punto di vista economico (con una accenno anche ai parametri elaborati dagli studiosi di discipline aziendali), nelle sue varie accezioni, ponendo altresì ciascuna di queste in relazione alle condizioni di concorrenza perfetta. Le nozioni di efficienza che sono state definite a tal fine sono quelle di efficienza allocativa, efficienza tecnica, efficienza dinamica ed efficienza distributiva. Ciascuna di esse é stata inquadrata a livello teorico secondo le definizioni fornite dalla letteratura, esaminandone le ipotesi sottostanti. E’ stata altresì descritta, contestualizzandola temporalmente, l’evoluzione della nozione, e ne sono state evidenziate le implicazioni ai fini della ricerca della forma di mercato più “efficiente”. Sotto quest’ultimo aspetto l’attenzione dello scrivente si é incentrata sul rapporto tra le diverse accezioni di efficienza economica oggetto di analisi e la desiderabilità o meno di un regime di concorrenza perfetta. Il capitolo si conclude con una breve panoramica sulle metodologie di misurazione finalizzata ad individuare i principali parametri utilizzati per determinare il livello di efficienza, di un mercato, di un’attività produttiva o di un’impresa, posto che, come verrà specificato nel prosieguo della tesi, la valutazione di efficienza in ambito antitrust deve essere verificata, ove possibile, anche basandosi sull’evidenza empirica delle singole imprese esaminate, come richiede il criterio della rule of reason. Capitolo 2 Presupposto per avere una regolazione che persegua l’obiettivo di avere una regolazione efficiente ed efficace, è, a parere di chi scrive, anche l’esistenza di autorità pubbliche deputate a esercitare la funzione regolatoria che rispettino al proprio interno e nel proprio agire la condizione di efficienza definita rispetto ai pubblici poteri. Lo sviluppo di questa affermazione ha richiesto in via preliminare, di definire il criterio di efficienza in ambito pubblicistico individuandone in particolare l’ambito di applicazione, il suo rapporto con gli altri principi che reggono l’azione amministrativa (con particolare riferimento al criterio di efficacia). Successivamente é stato collocato nel nostro ordinamento nazionale, ponendolo in relazione con il principio di buon andamnento della Pubblica Amministrazione, benchè l’ordinamento italiano, per la sua specificità non costituisca un esempio estendibile ad ordinamenti. Anche con riferimento al criterio di efficienza pubblica, un paragrafo é stato dedicato alle metodologie di misurazione di questa, e, nello specifico sull’Analisi Costi-Benefici e sull’Analisi di Impatto della Regolazione Una volta inquadrata la definizione di efficienza pubblica, questa é stata analizzata con specifico riferimento all’attività di regolazione dell’economia svolta dai soggetti pubblici, ambito nella quale rientra la funzione antitrust. Si é provato in particolare ad evidenziare, a livello generale, quali sono i requisiti necessari ad un’autorità amministrativa antitrust, costituita e dotata di poteri ad hoc, affinché essa agisca, nella sua attività di regolazione, secondo il principio di efficienza, Il capitolo si chiude allargando l’orizzonte della ricerca verso una possibile alternativa metodologica al criterio di efficienza precedentemente definito: vi si é infatti brevemente interrogati circa lo schema interpretativo nel quale ci muoviamo, affrontando la questione definitoria del criterio di efficienza, ponendolo in relazione con l’unico modello alternativo esistente, quello sviluppatosi nella cultura cinese. Non certo per elaborare un’applicazione in “salsa cinese” del criterio di efficienza alla tutela della concorrenza, compito al quale lo scrivente non sarebbe stato in grado di ottemperare, bensì, più semplicemente per dare conto di un diverso approccio alla questione che il futuro ruolo di superpotenza economica della Cina imporrà di prendere in considerazione. Capitolo 3 Nel terzo capitolo si passa a definire il concetto di concorrenza come istituto oggetto di tutela da parte della legge antitrust, per poi descrivere la nascita e l’evoluzione di tale legislazione negli Stati Uniti e della sua applicazione, posto che il diritto antitrust statunitense ancora oggi costituisce il necessario punto di riferimento per lo studioso di questa materia. L’evoluzione del diritto antitrust statunitense é stata analizzata parallelamente allo sviluppo delle principali teorie di law and economics che hanno interpretato il diritto della concorrenza quale possibile strumento per conseguire l’obiettivo dell’efficienza economica: la Scuola di Harvard e il paradigma strutturalista, la teoria evoluzionista della Scuola Austriaca, la Scuola di Chicago; le c.d. teorie “Post-Chicago”. Nel terzo capitolo, in altri termini, si é dato conto dell’evoluzione del pensiero economico con riferimento alla sua applicazione al diritto antitrust, focalizzando l’attenzione su quanto avvenuto negli Stati Uniti, paese nel quale sono nati sia l’istituto giuridico della tutela della concorrenza sia l’analisi economica del diritto. A conclusione di questa ricostruzione dottrinale ho brevemente esaminato quelle che sono le nuove tendenze dell’analisi economica del diritto, e specificatamente la teoria del comportamento irrazionale, benché esse non abbiano ancora ricevuto applicazione al diritto antitrust. Chi scrive ritiene infatti che queste teorie avranno ricadute anche in questa materia poiché essa costituisce uno dei principali ambiti applicativi della law and economics. Capitolo 4 Nel quarto capitolo é stata effettuata una disanima della disciplina comunitaria antitrust sottolineando come l’Unione Europea si proponga attraverso la sua applicazione, soprattutto in materia di intese, di perseguire fini eterogenei, sia economici che non economici, tra loro diversi e non di rado contrastanti, e analizzando come questa eterogeneità di obiettivi abbia influito sull’applicazione del criterio di efficienza. Attenendomi in questo capitolo al dato normativo, ho innanzitutto evidenziato l’ampiezza dell’ambito di applicazione della disciplina comunitaria antitrust sia dal punto di vista soggettivo che territoriale (dottrina dell’effetto utile), sottolineando come la norma giustifichi esplicitamente il ricorso al criterio di efficienza solo nella valutazione delle intese: il comma 3 dell’art. 81 del Trattato include, infatti, tra i requisiti di una possibile esenzione dall’applicazione del divieto per le intese qualificate come restrittive della concorrenza, la possibilità di ottenere incrementi di efficienza tecnica e/o dinamica attraverso l’implementazione delle intese in questione. Tuttavia la previsione da parte dello stesso art. 81 (3) di altri requisiti che devono contemporaneamente essere soddisfatti affinché un intesa restrittiva della concorrenza possa beneficiare dell’esenzione, nonché la possibile diversa interpretazione della locuzione “progresso tecnico ed economico”, impone, o comunque ammette, il perseguimento di altri obiettivi, contestualmente a quello dell’efficienza, giustificando così quell’eterogeneità dei fini che contraddistingue la politica della concorrenza dell’Unione Europea. Se la disciplina delle intese aiuta a comprendere il ruolo del criterio di efficienza nell’applicazione dei precetti antitrust da parte degli organi comunitari, l’art. 82 del Trattato non contiene invece alcun riferimento alla possibilità di utilizzare il criterio di efficienza nella valutazione delle condotte unilaterali poste in essere da imprese in posizione dominante sul mercato rilevante. Si è peraltro dato conto della consultazione recentemente avviata dalla Commissione Europea finalizzata all’elaborazione di Linee Guida che definiscano i criteri di interpretazione che l’organo comunitario dovrà seguire nella valutazione dei comportamenti unilaterali. A parere dello scrivente, anzi, l’assenza di un preciso schema cui subordinare la possibilità di ricorrere al criterio di efficienza nella valutazione della fattispecie, attribuisce alle autorità competenti un più ampio margine di discrezionalità nell’utilizzo del suddetto criterio poiché manca il vincolo della contestuale sussistenza delle altre condizioni di cui all’art. 81(3). Per quanto concerne infine la disciplina delle concentrazioni, essa, come abbiamo visto, prevede un riferimento ai possibili incrementi di efficienza (tecnica e dinamica) derivanti da operazioni di fusione, utilizzando la nozione utilizzata per le intese, così come nel precedente Regolamento 4064/89. Si é infine analizzato il nuovo Regolamento in materia di concentrazioni che avrebbe potuto costituire l’occasione per recepire nella disciplina comunitaria l’attribuzione della facoltà di ricorrere all’efficiency defense in presenza di una fattispecie, quella della fusione tra imprese, suscettibile più di altre di essere valutata secondo il criterio di efficienza, ma che si é invece limitato a riprendere la medesima locuzione presente nell’art. 81(3). Il capitolo attesta anche l’attenzione verso l’istanza di efficienza che ha riguardato il meccanismo di applicazione della norma antitrust e non il contenuto della norma stessa; a questo profilo attiene, infatti, l’innovazione apportata dal Regolamento 1/2003 che ha permesso, a parere dello scrivente, un’attribuzione più razionale della competenza nella valutazione dei casi tra la Commissione e le autorità nazionali degli Stati membri; tuttavia pone alcune questioni che investono direttamente il tema dei criteri di valutazione utilizzati dalle autorità competenti. Capitolo 5 L’analisi del quarto capitolo é stata condotta, sebbene in forma più sintetica, con riferimento alle normative antitrust dei principali Stati membri della Comunità Europea (Germania, Gran Bretagna, Spagna, Francia e Italia), rapportando anche queste al criterio di efficienza, ove possibile. Particolare attenzione é stata dedicata ai poteri e alle competenze attribuite alle autorità nazionali antitrust oggetto di studio dall’ordinamento giuridico cui appartengono e al contesto, in termini di sistema giuridico, nel quale esse operano. Capitolo 6 Si é provato ad effettuare una valutazione del livello di efficienza delle autorità prese in esame, la Commissione e le diverse autorità nazionali e ciò con particolare riferimento alla idoneità di queste a svolgere i compiti istituzionali loro affidati (criterio di efficienza dal punto di vista giuridico): affinchè un’autorità si possa ispirare al criterio di efficienza economica nell’adozione delle decisioni, infatti, è preliminarmente necessario che essa sia idonea a svolgere il compito che le è stato affidato dall’ordinamento. In questo senso si é osservata la difficoltà dei paesi di civil law a inquadrare le autorità indipendenti all’interno di un modello, quello appunto di civil law, ispirato a una rigida tripartizione dei poteri. Da qui la difficile collocazione di queste autorità che, al contrario, costituiscono un potere “ibrido” che esercita una funzione di vigilanza e garanzia non attribuibile integralmente né al potere esecutivo né a quello giurisdizionale. Si rileva inoltre una certa sovrapposizione delle competenze e dei poteri tra autorità antitrust e organi ministeriali, in particolare nel campo delle concentrazioni che ingenera un rischio di confusione e bassa efficienza del sistema. Mantenendo, infatti, un parziale controllo politico si rischia, oltre all’introduzione di criteri di valutazione politica che prescindono dagli effetti delle fattispecie concrete sul livello di concorrenza ed efficienza del mercato, anche di dare luogo a conflitti tra le diverse autorità del sistema che impediscano l’adozione e l’implementazione di decisioni definitive, incrementando altresì i costi dell’intervento pubblico. Un giudizio a parte è stato infine formulato con riguardo alla Commissione Europea, istituzione, in quanto avente caratteristiche e poteri peculiari. Da un lato l’assenza di vincolo di mandato dei Commissari e l’elevata preparazione tecnica dei funzionari costituiscono aspetti che avvicinano la Commissione al modello dell’autorità indipendenti, e l’ampiezza dei poteri in capo ad essa le permette di operare efficientemente grazie anche alla possibilità di valersi dell’assistenza delle autorità nazionali. Dall’altra parte, tuttavia la Commissione si caratterizza sempre di più come un organo politico svolgente funzioni esecutive, di indirizzo e di coordinamento che possono influenzare gli obiettivi che essa persegue attraverso l’attività antitrust, deviandola dal rispetto del criterio di efficienza. Capitolo 7 Una volta definito il contesto istituzionale di riferimento e la sua idoneità a svolgere la funzione affidatagli dall’ordinamento comunitario, nonché da quelli nazionali, si è proceduto quindi all’analisi delle decisioni adottate da alcune delle principali autorità nazionali europee competenti ad applicare la disciplina della concorrenza dal punto di vista dell’efficienza. A tal fine le fattispecie rilevanti a fini antitrust dal punto di vista giuridico sono state classificate utilizzando un criterio economico, individuando e definendo quelle condotte che presentano elementi comuni sotto il profilo economico e per ciascuna di esse sono state inquadrate le problematiche rilevanti ai fini dell’efficienza economica sulla scorta dei contributi teorici e delle analisi empiriche svolte dalla letteratura. 6 Con riferimento a ciascuna condotta rilevante ho esaminato il contenuto di alcune delle decisioni antitrust più significative e le ho interpretate in base al criterio di efficienza. verificando se e in quale misura le autorità antitrust prese in esame utilizzano tale criterio, cercando altresì di valutare l’evoluzione dei parametri di valutazione occorsa nel corso degli anni. Le decisioni analizzate sono soprattutto quelle adottate dalla Commissione e le eventuali relative sentenze della Corte di Giustizia Europea; ciò sia per la maggior rilevanza dei casi trattati a livello comunitario, sia in quanto le autorità nazionali, con qualche rara eccezione, si conformano generalmente ai criteri interpretativi della Commissione. Riferimenti a decisioni adottate dalle autorità nazionali sono stati collocati allorquando i loro criteri interpretativi si discostino da quelli utilizzati dagli organi comunitari. Ne è emerso un crescente, anche se ancora sporadico e incostante, ricorso al criterio di efficienza da parte degli organi europei preposti alla tutela della concorrenza. Il tuttora scarso utilizzo del criterio di efficienza nello svolgimento dell’attività antitrust è motivato, a parere di chi scrive, in parte dall’eterogeneità degli obiettivi che l’Unione Europea persegue attraverso la politica della concorrenza comunitaria (completamento del mercato unico, tutela del consumatore, politica industriale, sviluppo delle aree svantaggiate), in parte dall’incapacità (o dall’impossibilità) delle autorità di effettuare coerenti analisi economiche delle singole fattispecie concrete. Anche le principali autorità nazionali mostrano una crescente propensione a tendere conto dell’efficienza nella valutazione dei casi, soprattutto con riferimento agli accordi verticali e alle concentrazioni, sulla scia della prassi comunitaria. Più innovativa nell’applicazione del criterio di efficienza economica così come nella ricerca di uso ottimale delle risorse si è finora dimostrato l’OFT, come vedremo anche nel prossimo capitolo. Al contrario sembra più lenta l’evoluzione in questo senso dell’Ufficio dei Cartelli tedesco sia a causa delle già citate caratteristiche della legge antitrust tedesca, sia a causa del persistente principio ordoliberale della prevalenza del criterio della rule of law sulla rule of reason. Peraltro, anche nei casi in cui le Autorità siano propense ad utilizzare il criterio di efficienza nelle loro valutazioni, esse si limitano generalmente ad un’analisi teorica dell’esistenza di precondizioni che consentano alle imprese in questione di ottenere guadagni di efficienza. La sussistenza di tali pre-condizioni viene infatti rilevata sulla base della capacità potenziale della condotta dell’impresa (o delle imprese) di avere un effetto positivo in termini di efficienza, nonché sulla base delle caratteristiche del mercato rilevante. Raramente, invece, si tiene conto della capacità reale dei soggetti che pongono in essere la pratica suscettibile di essere restrittiva della concorrenza di cogliere effettivamente queste opportunità, ovvero se la struttura e l’organizzazione interna dell’impresa (o delle imprese) non è in grado di mettere in pratica ciò che la teoria suggerisce a causa di sue carenza interne o comunque in ragione delle strategie che persegue. Capitolo 8 Poiché l’approccio ispirato al criterio di efficienza economica non può prescindere dalle caratteristiche del settore e del mercato in cui operano l’impresa o le imprese che hanno posto in essere la condotta sotto esame, e poiché una valutazione approfondita di tutti i settori non era effettuabile per quantità di decisioni adottate dalle autorità, ho infine ritenuto di svolgere un’analisi dettagliata dell’attività delle autorità con riferimento ad uno specifico settore. La scelta è caduta sul settore dei trasporti in quanto esso presenta alcune problematiche che intrecciano l’esigenza di efficienza con la tutela della concorrenza, nonché per la sua importanza ai fini dello sviluppo economico. Tanto più alla luce del fenomeno della crescente apertura dei mercati che ha enfatizzato la triplice funzione dei trasporti di merci, di livellamento nello spazio dei prezzi di produzione, di redistribuzione nello spazio dell’impiego dei fattori della produzione, e soprattutto di sollecitazione al miglioramento delle tecnologie utilizzate nella produzione stessa in quanto contribuiscono alla divisione territoriale del lavoro e alla specializzazione produttiva. A loro volta, d’altra parte, i miglioramenti tecnici e organizzativi intervenuti nel settore negli ultimi trenta anni hanno reso possibile il fenomeno della globalizzazione nella misura in cui lo conosciamo. Così come le riduzioni di costo e di tempo conseguite nel trasporto di persone hanno consentito massicci spostamenti di lavoratori e più in generale di capitale umano da una parte all’altra del globo, e favorito altresì la spettacolare crescita del settore turistico. Ho quindi condotto un’analisi delle decisioni antitrust relative al settore dei trasporti, suddividendo la casistica in base al comparto al quale esse si riferivano, cercando sempre di non perdere di vista i crescenti legami che esistono tra i vari comparti alla luce dell’ormai affermato fenomeno del trasporto multimodale. Dall’analisi svolta emerge innanzitutto come l’assoggettamento del settore dei trasporti alla disciplina di tutela della concorrenza sia un fenomeno relativamente recente rispetto alle altre attività economiche, laddove la ragione di tale ritardo risiede nel fatto che tradizionalmente questo settore era caratterizzato da un intervento pubblico diretto e da una pervasiva regolamentazione, a sua volta giustificata da vari fattori economici: le caratteristiche di monopolio naturale delle infrastrutture; le esigenze di servizio pubblico connesse all’erogazione di molti servizi di trasporto; il ruolo strategico svolto dal trasporto sia di persone che di merci ai fini della crescita economica di un sistema. Si concretizza, inoltre, con riferimento ai trasporti marittimi e aerei, l’inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che spesso hanno effetti letteralmente globali. Le imprese marittime e aeree coinvolte nelle fattispecie da noi esaminate, infatti, in molti casi predisponevano, direttamente o mediatamente, tramite “alleanze”, collegamenti tra tutte le aree del mondo, individuando nell’Europa solo un nodo di un network ben più ampio Da questa constatazione discende, a parere dello scrivente, l’impossibilità per l’autorità comunitaria e ancor più per quella nazionale di individuare tutti gli effetti in termini di efficienza che la fattispecie concreta può provocare, non includendo pertanto solo quelli evidenti sul mercato comunitario. Conseguentemente una reale applicazione del criterio di efficienza all’attività antitrust nel settore dei trasporti non può prescindere da una collaborazione tra autorità a livello mondiale sia a fini di indagine che a fini di individuazione di alcuni principi fondamentali cui ispirarsi nello svolgimento della loro missione istituzionale. Capitolo 9. Conclusioni L’opera si chiude con l’individuazione delle evidenze e degli elementi emersi dalla trattazione considerati dallo scrivente maggiormente rilevanti nell’ambito dell’attuale dibattito di economia positiva circa le principali problematiche che affiggono l’intervento antitrust con particolare riferimento al suo rispetto del criterio di efficienza. Sono state altresì proposte alcune soluzioni a quelle che sono, a parere dello scrivente, le principali carenze dell’attuale configurazione dell’intervento antitrust a livello europeo, sempre in una prospettiva di efficienza sia delle autorità competenti sia dei mercati in cui le autorità stesse cercano di mantenere o ripristinare condizioni di concorrenza effettiva. Da un lato il modello costituito dalla Commissione Europea, l’autorità antitrust comunitaria, non replicabile né esente da critiche: la Commissione, infatti, rappresenta il Governo dell’Unione Europea e come tale non può ovviamente costituire un esempio di autorità indipendente e neutrale recepibile da parte degli Stati membri. Ciò anche a prescindere dalla questione della sua legittimazione, che in questa sede non affrontiamo. Dall’altro in una prospettiva di efficienza dei mercati la crescente applicazione delle teorie economiche da parte delle autorità esaminate è rimasta a un livello astratto, senza porre la dovuta attenzione alle specificità dei mercati rilevanti né tantomeno alle dinamiche interne alle singole imprese, con particolare riferimento alla loro capacità di rendere effettivi i guadagni di efficienza individuabili a livello potenziale, così come prescrive la più recente teoria economica applicata al diritto antitrust. Sotto il profilo dell’applicazione del criterio di efficienza si può comunque affermare che l’evoluzione che ha avuto la prassi decisionale e la giurisprudenza, comunitaria e degli Stati membri, in materia antitrust è stata caratterizzata dal loro progressivo avvicinamento alle tendenze sviluppatesi nelle agencies e nella giurisprudenza statunitense a partire dagli anni’70, caratterizzate dalla valutazione degli effetti, piuttosto che della forma giuridica, dal riconoscimento del criterio di efficienza e dalla rule of reason quale approccio metodologico. L’effetto è stato quello di determinare una significativa riduzione delle differenze inizialmente emerse tra le due esperienze, nate inizialmente sotto diverse prospettive politiche. Per quanto concerne specificatamente i trasporti sono emersi sotto il profilo economico due aspetti rilevanti, oltre al perdurante ritardo con cui il processo di liberalizzazione del trasporto ferroviario che limita fortemente l’intervento antitrust nel comparto, ma che esula dalla competenza delle stesse autorità antitrust. Il primo consiste nella spesso troppo rigida separazione tra comparti adottata dalle autorità. Il secondo è l’estensivo ricorso all’essential facility doctrine nelle fattispecie riguardanti infrastrutture portuali e aeroportuali: la massimizzazione dell’efficienza dinamica consiglierebbe in questi casi una maggiore cautela, in quanto si tratta di un paradigma che, una volta applicato, disincentiva la duplicazione e l’ampliamento di tali infrastrutture autoalimentandone il carattere di essenzialità. Ciò soprattutto laddove queste infrastrutture possono essere sostituite o duplicate piuttosto facilmente da un punto di vista tecnico (meno da un punto di vista economico e giuridico), essendo esse nodi e non reti. E’stata infine sottolineata l’inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che con riferimento ai trasporti marittimi ed aerei hanno effetti letteralmente globali. E’ di tutta evidenza che le autorità comunitarie e tantomeno quelle nazionali non sono da sole in grado di condurre le analisi quantitative necessarie ad una valutazione di tali condotte ispirata a un criterio di efficienza che tenga conto degli effetti di lungo periodo della fattispecie concreta. Né tali autorità sono sufficientemente neutre rispetto alla nazionalità delle imprese indagate per poter giudicare sulla liceità o meno della condotta in questione senza considerare gli effetti della loro decisione sull’economia interna, rendendo così ancora più improbabile un corretto utilizzo del criterio di efficienza. Da ultimo ho constatato come l’applicazione del concetto di efficienza giuridica imporrebbe di concepire autorità antitrust del tutto nuove, sganciate quanto più possibile dall’elemento territoriale, in grado di elaborare regole e standards minimi comuni e di permettere il controllo dei comportamenti di impresa in un contesto ampliato rispetto al tradizionale mercato unico, nonchè ai singoli mercati nazionali. Il processo di armonizzazione a livello globale è difficile e il quadro che attualmente viene formato è ancora confuso e incompleto. Vi sono tuttavia sparsi segnali attraverso i quali é possibile intravedere i lineamenti di una futura global governance della concorrenza che permetterà, sperabilmente, di incrementare l’efficienza di un sistema, quello antitrust, che tanto più piccolo è l’ambito in cui opera quanto più si sta dimostrando inadeguato a svolgere il compito affidatogli. Solo il futuro, peraltro, ci consentirà di verificare la direzione di sviluppo di questi segnali.
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Lo studio “Mercato, diritti e consumi: la tutela del consumatore nella disciplina antitrust”, ricostruisce e analizza i rapporti intercorrenti tra pubbliche amministrazioni e consumatore, singolo e associato, concentrando l’attenzione sulla protezione del consumatore quale soggetto che opera nel mercato, titolare di un diritto economico, in relazione all’attività regolativa svolta dall’amministrazione nella cura dell’interesse pubblico alla tutela della concorrenza. Il lavoro è strutturato in quattro parti. Una prima parte, di carattere generale, è dedicata alla nozione di consumatore e ai diritti in capo allo stesso contemplati, nonché alle associazioni dei consumatori ed al ruolo istituzionale ad esse affidato. Nella seconda parte si concentra l’attenzione, da un lato, sulla posizione assunta dalle Regioni per quel che concerne la competenza legislativa ad esse riconosciuta nell’ambito della tutela dei consumatori e degli utenti e, dall’altro lato, sul versante degli strumenti più propriamente di diritto amministrativo, sull’attività amministrativa di controllo, vigilanza e disciplina delle attività economiche private rilevanti per i consumatori, attuata dalle autorità indipendenti e, per ciò che attiene alle loro funzioni, dalle Camere di commercio. La terza parte riferisce in ordine al quadro normativo in cui si colloca l’attività di regolazione del mercato soprattutto avendo riguardo alle recenti modifiche legislative che hanno profondamente modificato il Codice del consumo relativamente ai suddetti temi ed al ruolo svolto dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, per poi dar conto dell’evoluzione giurisprudenziale cui si è assistito recentemente circa la rilevanza dell’interesse del consumatore nella disciplina Antitrust. Nell’ultima parte, anche alla luce delle osservazioni svolte, si affronta il fondamento giuridico – costituzionale dell’interesse del consumatore anche alla luce del nuovo assetto dei rapporti con l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e si tenta, attraverso una reinterpretazione del concetto di iniziativa economica, di ricondurlo al primo comma dell’articolo 41 della Costituzione.
Resumo:
Questa tesi di dottorato ha per suo oggetto la ricognizione degli elementi teorici, di linguaggio politico e di influenza concettuale che le scienze sociali tra Ottocento e Novecento hanno avuto nell’opera di Antonio Gramsci. La ricerca si articola in cinque capitoli, ciascuno dei quali intende ricostruire, da una parte, la ricezione gramsciana dei testi classici della sociologia e della scienza politica del suo tempo, dall’altra, far emergere quelle filiazioni concettuali che permettano di valutare la portata dell’influenza delle scienze sociali sugli scritti gramsciani. Il lungo processo di sedimentazione concettuale del lessico delle scienze sociali inizia in Gramsci già negli anni della formazione politica, sullo sfondo di una Torino positivista che esprime le punte più avanzate del “progetto grande borghese” per lo studio scientifico della società e per la sua “organizzazione disciplinata”; di questa tradizione culturale Gramsci incrocia a più riprese il percorso. La sua formazione più propriamente politica si svolge però all’interno del Partito socialista, ancora imbevuto del lessico positivista ed evoluzionista. Questi due grandi filoni culturali costituiscono il brodo di coltura, rifiutato politicamente ma al tempo stesso assunto concettualmente, per quelle suggestioni sociologiche che Gramsci metterà a frutto in modo più organico nei Quaderni. La ricerca e la fissazione di una specifica antropologia politica implicita al discorso gramsciano è il secondo stadio della ricerca, nella direzione di un’articolazione complessiva delle suggestioni sociologiche che i Quaderni assumono come elementi di analisi politica. L’analisi si sposta sulla storia intellettuale della Francia della Terza Repubblica, più precisamente sulla nascita del paradigma sociologico durkheimiano come espressione diretta delle necessità di integrazione sociale. Vengono così messe in risalto alcune assonanze lessicali e concettuali tra il discorso di Durkheim, di Sorel e quello di Gramsci. Con il terzo capitolo si entra più in profondità nella struttura concettuale che caratterizza il laboratorio dei Quaderni. Si ricostruisce la genesi di concetti come «blocco storico», «ideologia» ed «egemonia» per farne risaltare quelle componenti che rimandano direttamente alle funzioni di integrazione di un sistema sociale. La declinazione gramsciana di questo problema prende le forme di un discorso sull’«organicità» che rende più che mai esplicito il suo debito teorico nei confronti dell’orizzonte concettuale delle scienze sociali. Il nucleo di problemi connessi a questa trattazione fa anche emergere l’assunzione di un vero e proprio lessico sociologico, come per i concetti di «conformismo» e «coercizione», comunque molto distante dallo spazio semantico proprio del marxismo contemporaneo a Gramsci. Nel quarto capitolo si affronta un caso paradigmatico per quanto riguarda l’assunzione non solo del lessico e dei concetti delle scienze sociali, ma anche dei temi e delle modalità della ricerca sociale. Il quaderno 22 intitolato Americanismo e fordismo è il termine di paragone rispetto alla realtà che Gramsci si prefigge di indagare. Le consonanze delle analisi gramsciane con quelle weberiane dei saggi su Selezione e adattamento forniscono poi gli spunti necessari per valutare le novità emerse negli Stati Uniti con la razionalizzazione produttiva taylorista, specialmente in quella sua parte che riguarda la pervasività delle tecniche di controllo della vita extra-lavorativa degli operai. L’ultimo capitolo affronta direttamente la questione delle aporie che la ricezione della teoria sociologica di Weber e la scienza politica italiana rappresentata dagli elitisti Mosca, Pareto e Michels, sollevano per la riformulazione dei concetti politici gramsciani. L’orizzonte problematico in cui si inserisce questa ricerca è l’individuazione di una possibile “sociologia del politico” gramsciana che metta a tema quel rapporto, che è sempre stato di difficile composizione, tra marxismo e scienze sociali.
Resumo:
La tesi si occupa della teoria delle ranking functions di W. Spohn, dottrina epistemologica il cui fine è dare una veste logica rigorosa ai concetti di causalità, legge di natura, spiegazione scientifica, a partire dalla nozione di credenza. Di tale teoria manca ancora una esposizione organica e unitaria e, soprattutto, formulata in linguaggio immediatamente accessibile. Nel mio lavoro, che si presenta come introduzione ad essa, è anche messa a raffronto con le teorie che maggiormente l’hanno influenzata o rispetto alle quali si pone come avversaria. Il PRIMO CAPITOLO si concentra sulla teoria di P. Gärdenfors, il più diretto predecessore e ispiratore di Spohn. Questo consente al lettore di acquisire familiarità con le nozioni di base della logica epistemica. La conoscenza, nella teoria del filosofo svedese, è concepita come processo di acquisizione ed espulsione di credenze, identificate con proposizioni, da un insieme. I tre maggiori fenomeni epistemici sono l’espansione, la revisione e la contrazione. Nel primo caso si immagazzina una proposizione in precedenza sconosciuta, nel secondo se ne espelle una a causa dell’acquisizione della sua contraddittoria, nel terzo si cancella una proposizione per amore di ipotesi e si investigano le conseguenze di tale cancellazione. Controparte linguistica di quest’ultimo fenomeno è la formulazione di un condizionale controfattuale. L’epistemologo, così come Gärdenfors concepisce il suo compito, è fondamentalmente un logico che deve specificare funzioni: vale a dire, le regole che deve rispettare ciascun passaggio da un insieme epistemico a un successivo per via di espansione, revisione e contrazione. Il SECONDO CAPITOLO tratta infine della teoria di Spohn, cercando di esporla in modo esauriente ma anche molto semplice. Anche in Spohn evidentemente il concetto fondamentale è quello di funzione: si tratta però in questo caso di quella regola di giudizio soggettivo che, a ciascuna credenza, identificata con una proposizione, associa un grado (un rank), espresso da un numero naturale positivo o dallo zero. Un rank è un grado di non-credenza (disbelief). Perché la non-credenza (che comporta un notevole appesantimento concettuale)? Perché le leggi della credenza così concepite presentano quella che Spohn chiama una “pervasiva analogia” rispetto alle leggi della probabilità (Spohn la chiama persino “armonia prestabilita” ed è un campo su cui sta ancora lavorando). Essenziale è il concetto di condizionalizzazione (analogo a quello di probabilità condizionale): a una credenza si associa un rank sulla base di (almeno) un’altra credenza. Grazie a tale concetto Spohn può formalizzare un fenomeno che a Gärdenfors sfugge, ossia la presenza di correlazioni interdoxastiche tra le credenze di un soggetto. Nella logica epistemica del predecessore, infatti, tutto si riduce all’inclusione o meno di una proposizione nell’insieme, non si considerano né gradi di credenza né l’idea che una credenza sia creduta sulla base di un’altra. Il TERZO CAPITOLO passa alla teoria della causalità di Spohn. Anche questa nozione è affrontata in prospettiva epistemica. Non ha senso, secondo Spohn, chiedersi quali siano i tratti “reali” della causalità “nel mondo”, occorre invece studiare che cosa accade quando si crede che tra due fatti o eventi sussista una correlazione causale. Anche quest’ultima è fatta oggetto di una formalizzazione logica rigorosa (e diversificata, infatti Spohn riconosce vari tipi di causa). Una causa “innalza lo status epistemico” dell’effetto: vale a dire, quest’ultimo è creduto con rank maggiore (ossia minore, se ci si concentra sulla non-credenza) se condizionalizzato sulla causa. Nello stesso capitolo espongo la teoria della causalità di Gärdenfors, che però è meno articolata e minata da alcuni errori. Il QUARTO CAPITOLO è tutto dedicato a David Lewis e alla sua teoria controfattuale della causalità, che è il maggiore avversario tanto di Spohn quanto di Gärdenfors. Secondo Lewis la migliore definizione di causa può essere data in termini controfattuali: la causa è un evento tale che, se non fosse accaduto, nemmeno l’effetto sarebbe accaduto. Naturalmente questo lo obbliga a specificare una teoria delle condizioni di verità di tale classe di enunciati che, andando contro i fatti per definizione, non possono essere paragonati alla realtà. Lewis ricorre allora alla dottrina dei mondi possibili e della loro somiglianza comparativa, concludendo che un controfattuale è vero se il mondo possibile in cui il suo antecedente e il suo conseguente sono veri è più simile al mondo attuale del controfattuale in cui il suo antecedente è vero e il conseguente è falso. Il QUINTO CAPITOLO mette a confronto la teoria di Lewis con quelle di Spohn e Gärdenfors. Quest’ultimo riduce i controfattuali a un fenomeno linguistico che segnala il processo epistemico di contrazione, trattato nel primo capitolo, rifiutando così completamente la dottrina dei mondi possibili. Spohn non affronta direttamente i controfattuali (in quanto a suo dire sovraccarichi di sottigliezze linguistiche di cui non vuole occuparsi – ha solo un abbozzo di teoria dei condizionali) ma dimostra che la sua teoria è superiore a quella di Lewis perché riesce a rendere conto, con estrema esattezza, di casi problematici di causalità che sfuggono alla formulazione controfattuale. Si tratta di quei casi in cui sono in gioco, rafforzandosi a vicenda o “concorrendo” allo stesso effetto, più fattori causali (casi noti nella letteratura come preemption, trumping etc.). Spohn riesce a renderne conto proprio perché ha a disposizione i rank numerici, che consentono un’analisi secondo cui a ciascun fattore causale è assegnato un preciso ruolo quantitativamente espresso, mentre la dottrina controfattuale è incapace di operare simili distinzioni (un controfattuale infatti è vero o falso, senza gradazioni). Il SESTO CAPITOLO si concentra sui modelli di spiegazione scientifica di Hempel e Salmon, e sulla nozione di causalità sviluppata da quest’ultimo, mettendo in luce soprattutto il ruolo (problematico) delle leggi di natura e degli enunciati controfattuali (a questo proposito sono prese in considerazione anche le famose critiche di Goodman e Chisholm). Proprio dalla riflessione su questi modelli infatti è scaturita la teoria di Gärdenfors, e tanto la dottrina del filosofo svedese quanto quella di Spohn possono essere viste come finalizzate a rendere conto della spiegazione scientifica confrontandosi con questi modelli meno recenti. Il SETTIMO CAPITOLO si concentra sull’analisi che la logica epistemica fornisce delle leggi di natura, che nel capitolo precedente sono ovviamente emerse come elemento fondamentale della spiegazione scientifica. Secondo Spohn le leggi sono innanzitutto proposizioni generali affermative, che sono credute in modo speciale. In primo luogo sono credute persistentemente, vale a dire, non sono mai messe in dubbio (tanto che se si incappa in una loro contro-istanza si va alla ricerca di una violazione della normalità che la giustifichi). In secondo luogo, guidano e fondano la credenza in altre credenze specifiche, che sono su di esse condizionalizzate (si riprendono, con nuovo rigore logico, le vecchie idee di Wittgenstein e di Ramsey e il concetto di legge come inference ticket). In terzo luogo sono generalizzazioni ricavate induttivamente: sono oggettivazioni di schemi induttivi. Questo capitolo si sofferma anche sulla teoria di legge offerta da Gärdenfors (analoga ma embrionale) e sull’analisi che Spohn fornisce della nozione di clausola ceteris paribus. L’OTTAVO CAPITOLO termina l’analisi cominciata con il sesto, considerando finalmente il modello epistemico della spiegazione scientifica. Si comincia dal modello di Gärdenfors, che si mostra essere minato da alcuni errori o comunque caratterizzato in modo non sufficientemente chiaro (soprattutto perché non fa ricorso, stranamente, al concetto di legge). Segue il modello di Spohn; secondo Spohn le spiegazioni scientifiche sono caratterizzate dal fatto che forniscono (o sono finalizzate a fornire) ragioni stabili, vale a dire, riconducono determinati fenomeni alle loro cause e tali cause sono credute in modo persistente. Con una dimostrazione logica molto dettagliata e di acutezza sorprendente Spohn argomenta che simili ragioni, nel lungo periodo, devono essere incontrate. La sua quindi non è solo una teoria della spiegazione scientifica che elabori un modello epistemico di che cosa succede quando un fenomeno è spiegato, ma anche una teoria dello sviluppo della scienza in generale, che incoraggia a perseguire la ricerca delle cause come necessariamente coronata da successo. Le OSSERVAZIONI CONCLUSIVE fanno il punto sulle teorie esposte e sul loro raffronto. E’ riconosciuta la superiorità della teoria di Spohn, di cui si mostra anche che raccoglie in pieno l’eredità costruttiva di Hume, al quale gli avversari si rifanno costantemente ma in modo frammentario. Si analizzano poi gli elementi delle teorie di Hempel e Salmon che hanno precorso l’impostazione epistemica. La teoria di Spohn non è esente però da alcuni punti ancora problematici. Innanzitutto, il ruolo della verità; in un primo tempo Spohn sembra rinunciare, come fa esplicitamente il suo predecessore, a trattare la verità, salvo poi invocarla quando si pone il grave problema dell’oggettivazione delle ranking functions (il problema si presenta poiché di esse inizialmente si dice che sono regole soggettive di giudizio e poi si identificano in parte con le leggi di natura). C’è poi la dottrina dei gradi di credenza che Spohn dice presentarsi “unitamente alle proposizioni” e che costituisce un inutile distacco dal realismo psicologico (critica consueta alla teoria): basterebbe osservare che i gradi di credenza sono ricavati o per condizionalizzazione automatica sulla base del tipo di fonte da cui una proposizione proviene, o per paragone immaginario con altre fonti (la maggiore o minore credenza infatti è un concetto relazionale: si crede di più o di meno “sulla base di…” o “rispetto a…”). Anche la trattazione delle leggi di natura è problematica; Spohn sostiene che sono ranking functions: a mio avviso invece esse concorrono a regole di giudizio, che prescrivono di impiegare le leggi stesse per valutare proposizioni o aspettative. Una legge di natura è un ingranaggio, per così dire, di una valutazione di certezza ma non si identifica totalmente con una legge di giudizio. I tre criteri che Spohn individua per distinguere le leggi poi non sono rispettati da tutte e sole le leggi stesse: la generalizzazione induttiva può anche dare adito a pregiudizi, e non di tutte le leggi si sono viste, individualmente, istanze ripetute tanto da giustificarle induttivamente. Infine, un episodio reale di storia della scienza come la scoperta della sintesi dell’urea da parte di F. Wöhler (1828 – ottenendo carbammide, organico, da due sostanze inorganiche, dimostra che non è vera la legge di natura fini a quel momento presunta tale secondo cui “sostanze organiche non possono essere ricavate da sostanze inorganiche”) è indice che le leggi di natura non sono sempre credute in modo persistente, cosicché per comprendere il momento della scoperta è pur sempre necessario rifarsi a una teoria di tipo popperiano, rispetto alla quale Spohn presenta invece la propria in assoluta antitesi.
Resumo:
L’uso frequente dei modelli predittivi per l’analisi di sistemi complessi, naturali o artificiali, sta cambiando il tradizionale approccio alle problematiche ambientali e di rischio. Il continuo miglioramento delle capacità di elaborazione dei computer facilita l’utilizzo e la risoluzione di metodi numerici basati su una discretizzazione spazio-temporale che permette una modellizzazione predittiva di sistemi reali complessi, riproducendo l’evoluzione dei loro patterns spaziali ed calcolando il grado di precisione della simulazione. In questa tesi presentiamo una applicazione di differenti metodi predittivi (Geomatico, Reti Neurali, Land Cover Modeler e Dinamica EGO) in un’area test del Petén, Guatemala. Durante gli ultimi decenni questa regione, inclusa nella Riserva di Biosfera Maya, ha conosciuto una rapida crescita demografica ed un’incontrollata pressione sulle sue risorse naturali. L’area test puó essere suddivisa in sotto-regioni caratterizzate da differenti dinamiche di uso del suolo. Comprendere e quantificare queste differenze permette una migliore approssimazione del sistema reale; é inoltre necessario integrare tutti i parametri fisici e socio-economici, per una rappresentazione più completa della complessità dell’impatto antropico. Data l’assenza di informazioni dettagliate sull’area di studio, quasi tutti i dati sono stati ricavati dall’elaborazione di 11 immagini ETM+, TM e SPOT; abbiamo poi realizzato un’analisi multitemporale dei cambi uso del suolo passati e costruito l’input per alimentare i modelli predittivi. I dati del 1998 e 2000 sono stati usati per la fase di calibrazione per simulare i cambiamenti nella copertura terrestre del 2003, scelta come data di riferimento per la validazione dei risultati. Quest’ultima permette di evidenziare le qualità ed i limiti per ogni modello nelle differenti sub-regioni.
Resumo:
La tesi è il frutto di un lavoro di ricerca sul rapporto tra educazione e politica sviluppato considerando letteratura, studi e ricerche in ambito pedagogico, sociologico e delle scienze politiche. I nuclei tematici oggetto delle letture preliminari e degli approfondimenti successivi che sono diventati il corpo della tesi sono i seguenti: • la crisi del ruolo dei partiti politici in Italia e in Europa: diminuiscono gli iscritti e la capacità di dare corpo a proposte politiche credibili che provengano dalla “base”dei partiti; • la crisi del sistema formativo1 in Italia e il fatto che l’educazione alla cittadinanza sia poco promossa e praticata nelle scuole e nelle istituzioni; • la diffusa mancanza di fiducia degli adolescenti e dei giovani nei confronti delle istituzioni (scuola inclusa) e della politica in molti Paesi del mondo2; i giovani sono in linea con il mondo adulto nel dimostrare i sintomi di “apatia politica” che si manifesta anche come avversione verso la politica; • il fatto che le teorie e gli studi sulla democrazia non siano stati in grado di prevenire la sistematica esclusione di larghi segmenti di cittadinanza dalle dinamiche decisionali dimostrando che la democrazia formale sia drasticamente differente da quella sostanziale. Una categoria tra le più escluse dalle decisioni è quella dei minori in età. Queste tematiche, se poste in relazione, ci inducono a riflettere sullo stato della democrazia e ci invitano a cercare nuovi orizzonti in cui inserire riflessioni sulla cittadinanza partendo dall’interesse centrale delle scienze pedagogiche: il ruolo dell’educazione. Essenziale è il tema dei diritti umani: per cominciare, rileviamo che sebbene la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia sia stata approvata da quasi vent’anni (nel 1989) e malgrado numerose istituzioni nazionali e internazionali (Onu, Consiglio d’Europa, Banca Mondiale, Unesco) continuino ad impegnarsi nella promozione dei diritti sanciti e ratificati con leggi da quasi tutti i Paesi del mondo, questi diritti sono spesso trascurati: in particolare i diritti di bambini, adolescenti e giovani fino a 18 anni ad essere ascoltati, ad esprimersi liberamente, a ricevere informazioni adeguate nonché il diritto ad associarsi. L’effetto di tale trascuratezza, ossia la scarsa partecipazione di adolescenti e giovani alla vita sociale e politica in ogni parte del mondo (Italia inclusa) è un problema su cui cercheremo di riflettere e trovare soluzioni. Dalle più recenti ricerche svolte sul rapporto tra giovani e politica3, risulta che sono in particolare i giovani tra i quindici e i diciassette anni a provare “disgusto” per la politica e a non avere alcune fiducia né nei confronti dei politici, né delle istituzioni. Il disgusto è strettamente legato alla sfiducia, alla delusione , alla disillusione che oltretutto porta al rifiuto per la politica e quindi anche a non informarsi volutamente, a tenere ciò che riguarda la politica lontano dalla propria sfera personale. In Italia, ciò non è una novità. Né i governi che si sono succeduti dagli anni dell’Unità ad oggi, né le teorie democratiche italiane e internazionali sono riusciti a cambiare l’approccio degli italiani alla politica: “fissità della cultura politica, indolenza di fronte alla mancanza di cultura della legalità, livelli bassi di informazione, di competenza, di fiducia nella democrazia”4. Tra i numerosi fattori presi in analisi nelle ricerche internazionali (cfr. Cap. I par.65) ve ne sono due che si è scoperto influenzano notevolmente la partecipazione politica della popolazione e che vedono l’Italia distante dalle altre democrazie europee: 1) la vicinanza alla religione istituzionale , 2) i caratteri della morale6. Religione istituzionale Non c’è studio o ricerca che non documenti la progressiva secolarizzazione degli stati. Eppure, dividendo la popolazione dei Paesi in: 1) non credenti, 2) credenti non praticanti e 3) credenti praticanti, fatto salvo per la Francia, si assiste ad una crescita dei “credenti non praticanti” in Europa e dei “credenti praticanti” in particolare in Italia (risultavano da un’indagine del 2005, il 42% della popolazione italiana). La spiegazione di questa “controtendenza” dell’Italia, spiega la Sciolla, “potrebbe essere il crescente ruolo pubblico assunto dalla Chiesa italiana e della sua sempre più pervasiva presenza su temi di interesse pubblico o direttamente politico (dalla fecondazione assistita alle unioni tra omosessuali) oltreché alla sua visibilità mediatica che, insieme al generale e diffuso disorientamento, potrebbe aver esercitato un autorevole richiamo”. Pluralismo morale Frutto innanzitutto del processo di individualizzazione che erode le forme assolute di autorità e le strutture gerarchiche e dell’affermarsi dei diritti umani con l’ampliamento degli spazi di libertà di coscienza dei singoli. Una conferma sul piano empirico di questo quadro è data dal monitoraggio di due configurazioni valoriali che più hanno a che vedere con la partecipazione politica: 1) Grado di civismo (in inglese civicness) che raggruppa giudizi sui comportamenti lesivi dell’interesse pubblico (non pagare le tasse, anteporre il proprio interesse e vantaggio personale all’interesse pubblico). 2) Libertarismo morale o cultura dei diritti ovvero difesa dei diritti della persona e della sua liberà di scelta (riguarda la sessualità, il corpo e in generale la possibilità di disporre di sé) In Italia, il civismo ha subito negli anni novanta un drastico calo e non è più tornato ai livelli precedenti. Il libertarismo è invece aumentato in tutti i Paesi ma Italia e Stati Uniti hanno tutt’ora un livello basso rispetto agli altri Stati. I più libertari sono gli strati giovani ed istruiti della popolazione. Queste caratteristiche degli italiani sono riconducibili alla storia del nostro Paese, alla sua identità fragile, mai compatta ed unitaria. Non è possibile tralasciare l’influenza che la Chiesa ha sempre avuto nelle scelte politiche e culturali del nostro Paese. Limitando il campo al secolo scorso, dobbiamo considerare che la Chiesa cattolica ha avuto continuativamente un ruolo di forte ingerenza nei confronti delle scelte dei governi (scelte che, come vedremo nel Cap. I, par.2 hanno influenzato le scelte sulla scuola e sull’educazione) che si sono succeduti dal 1948 ad oggi7. Ciò ha influito nei costumi della nostra società caratterizzandoci come Stato sui generis nel panorama europeo Inoltre possiamo definire l’Italia uno "Stato nazionale ed unitario" ma la sua identità resta plurinazionale: vi sono nazionalità, trasformate in minoranze, comprese e compresse nel suo territorio; lo Stato affermò la sua unità con le armi dell'esercito piemontese e questa unità è ancora da conquistare pienamente. Lo stesso Salvemini fu tra quanti invocarono un garante per le minoranze constatando che di fronte a leggi applicate da maggioranze senza controllo superiore, le minoranze non hanno sicurezza. Riteniamo queste riflessioni sull’identità dello Stato Italiano doverose per dare a questa ricerca sulla promozione della partecipazione politica di adolescenti e giovani, sull’educazione alla cittadinanza e sul ruolo degli enti locali una opportuna cornice culturale e di contesto. Educazione alla cittadinanza In questo scritto “consideriamo che lo stimolo al cambiamento e al controllo di ciò che succede nelle sfere della politica, la difesa stessa della democrazia, è più facile che avvenga se i membri di una comunità, singolarmente o associandosi, si tengono bene informati, possiedono capacità riflessive e argomentative, sono dunque adeguatamente competenti e in grado di formarsi un’opinione autonoma e di esprimerla pubblicamente. In questo senso potremmo dire che proprio l’educazione alla democrazia, di chi nella democrazia vive, godendone i vantaggi, è stata rappresentata da Montiesquieu e da J.S Mill come uno dei caratteri basilari della democrazia stessa e la sua assenza come uno dei peggiori rischi in cui si può incorrere”8 L’educazione alla cittadinanza - considerata come cornice di un ampio spettro di competenze, complessivamente legate alla partecipazione e pienamente consapevole alla vita politica e sociale - e in particolare la formazione alla cittadinanza attiva sono da tempo riconosciute come elementi indispensabili per il miglioramento delle condizioni di benessere dei singoli e delle società e sono elementi imprescindibili per costituire un credibile patto sociale democratico. Ma che tipo di sistema formativo meglio si adatta ad un Paese dove - decennio dopo decennio - i decisori politici (la classe politica) sembrano progressivamente allontanarsi dalla vita dei cittadini e non propongono un’idea credibile di stato, un progetto lungimirante per l’Italia, dove la politica viene vissuta come distante dalla vita quotidiana e dove sfiducia e disgusto per la politica sono sentimenti provati in particolare da adolescenti e giovani? Dove la religione e il mercato hanno un potere concorrente a quello dei principi democratici ? La pedagogia può in questo momento storico ricoprire un ruolo di grande importanza. Ma non è possibile formulare risposte e proposte educative prendendo in analisi una sola istituzione nel suo rapporto con adolescenti e giovani. Famiglia, scuola, enti locali, terzo settore, devono essere prese in considerazione nella loro interdipendenza. Certo, rispetto all’educazione alla cittadinanza, la scuola ha avuto, almeno sulla carta, un ruolo preminente avendo da sempre l’obiettivo di formare “l’uomo e il cittadino” e prevedendo l’insegnamento dell’educazione civica. Ma oggi, demandare il ruolo della “formazione del cittadino” unicamente alla scuola, non è una scelta saggia. La comunità, il territorio e quindi le istituzioni devono avere un ruolo forte e collaborare con la scuola. Educazione formale, non formale e informale devono compenetrarsi. Gli studi e le riflessioni della scrivente hanno portato all’ individuazione degli enti locali come potenziali luoghi privilegiati della formazione politica dei giovani e dell’educazione alla cittadinanza. Gli enti locali I Comuni, essendo le Istituzioni più vicine ai cittadini, possono essere il primo luogo dove praticare cittadinanza attiva traducendo in pratiche anche le politiche elaborate a livello regionale e nazionale. Sostiene la Carta riveduta della partecipazione dei giovani9 “La partecipazione attiva dei giovani alle decisioni e alle attività a livello locale e regionale è essenziale se si vogliono costruire società più democratiche, solidali e prospere. Partecipare alla vita politica di una comunità, qualunque essa sia, non implica però unicamente il fatto di votare e presentarsi alle elezioni, per quanto importanti siano tali elementi. Partecipare ed essere un cittadino attivo vuol dire avere i diritti, gli strumenti intellettuali e materiali, il luogo, la possibilità, e, se del caso, il necessario sostegno per intervenire nelle decisioni, influenzarle ed impegnarsi in attività e iniziative che possano determinare la costruzione di una società migliore”. In Italia, il ruolo degli enti locali è stato per lo più dominante nella definizione delle politiche sociali, sanitarie ed educative ma è divenuto centrale soprattutto in seguito alla riforma del titolo V della Costituzione italiana operata nel 2001. Sono gli enti locali – le Regioni in primis – ad avere la funzione istituzionale di legiferare rispetto ai temi inerenti il sociale. Le proposte e le azioni di Province e Comuni dovrebbero ispirarsi al “principio di sussidiarietà” espresso nell’art. 118 della Costituzione: «Stato, Regioni, Province, Città metropolitane, Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà»10 e nei Trattati dell’Unione Europea. Il Trattato istitutivo della Comunità europea accoglie il principio nell’art.5 “La Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal presente trattato. Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell'azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario (…)”. Il principio di sussidiarietà può dunque essere recepito anche prevedendo, promuovendo e accogliendo la partecipazione dei cittadini alla vita della città in molteplici forme. Conseguentemente, facilitare l’avvicinamento degli adolescenti e dei giovani (in quanto cittadini) alla vita collettiva, al bene pubblico, alla politica considerandoli una risorsa e mettendoli nelle condizioni di essere socialmente e politicamente attivi rientra nelle possibili applicazioni del principio di sussidiarietà. L’oggetto della ricerca La ricerca condotta dalla scrivente prende le mosse dal paradigma ecologico e si ispira allo stile fenomenologico prendendo in analisi un contesto determinato da numerosi soggetti tra loro interrelati. La domanda di ricerca: “gli enti locali possono promuovere di progetti e interventi di educazione alla cittadinanza di cui adolescenti e giovani siano protagonisti? Se si, in che modo?”. Gli studi preliminari alla ricerca hanno mostrato uno scenario complesso che non era mai stato preso in analisi da chi si occupa di educazione. E’ stato dunque necessario comprendere: 1) Il ruolo e le funzioni degli enti locali rispetto alle politiche educative e di welfare in generale in Italia 2) La condizione di adolescenti e giovani in Italia e nel mondo 3) Che cos’è l’educazione alla cittadinanza 4) Che cosa si può intendere per partecipazione giovanile Per questo il lavoro di ricerca empirica svolto dalla scrivente è basato sulla realizzazione di due indagini esplorative (“Enti locali, giovani e politica (2005/2006)11 e “Nuovi cittadini di pace” (2006/2007)12) tramite le quali è stato possibile esaminare progetti e servizi di promozione della partecipazione degli adolescenti e dei giovani alla vita dei Comuni di quattro regioni italiane e in particolare della Regione Emilia-Romagna. L’oggetto dell’interesse delle due indagini è (attraverso l’analisi di progetti e servizi e di testimonianze di amministratori, tecnici e politici) esplorare le modalità con cui gli enti locali (i Comuni in particolare) esplicano la loro funzione formativa rivolta ad adolescenti e giovani in relazione all’educazione alla cittadinanza democratica. Ai fini delle nostre riflessioni ci siamo interessati di progetti, sevizi permanenti e iniziative rivolti alla fascia d’età che va dagli 11 ai 20/22 anni ossia quegli anni in cui si giocano molte delle sfide che portano i giovani ad accedere al mondo degli adulti in maniera “piena e autentica” o meno. Dall’analisi dei dati, emergono osservazioni su come gli enti locali possano educare alla cittadinanza in rete con altre istituzioni (la scuola, le associazioni), promuovendo servizi e progetti che diano ad adolescenti e giovani la possibilità di mettersi all’opera, di avere un ruolo attivo, realizzare qualche cosa ed esserne responsabili (e nel frattempo apprendere come funziona e che cos’è il governo di una città, di un territorio), intrecciare relazioni, lavorare in gruppo, in una cornice che va al di là delle politiche giovanili e che propone politiche integrate. In questo contesto il ruolo degli adulti (genitori, insegnanti, educatori, politici) è centrale: è dunque essenziale che le famiglie, il mondo della scuola, gli attivisti dei partiti politici, le istituzioni e il mondo dell’informazione attraverso l’agire quotidiano, dimostrino ad adolescenti e giovani coerenza tra azioni e idee dimostrando fiducia nelle istituzioni, tenendo comportamenti coerenti e autorevoli improntati sul rispetto assoluto della legalità, per esempio. Per questo, la prima fase di approfondimento qualitativo delle indagini è avvenuta tramite interviste in profondità a decisori politici e amministratori tecnici. Il primo capitolo affronta il tema della crisi della democrazia ossia il fatto che le democrazie odierne stiano vivendo una fase di dibattito interno e di riflessione verso una prospettiva di cambiamento necessaria. Il tema dell’inserimento dei diritti umani nel panorama del dibattito sulle società democratiche e sulla cittadinanza si intreccia con i temi della globalizzazione, della crisi dei partiti politici (fenomeno molto accentuato in Italia). In questa situazione di smarrimento e di incertezza, un’operazione politica e culturale che metta al primo posto l’educazione e i diritti umani potrebbe essere l’ancora di salvezza da gettare in un oceano di incoerenza e di speranze perdute. E’ necessario riformare il sistema formativo italiano investendo risorse sull’educazione alla cittadinanza in particolare per adolescenti e giovani ma anche per coloro che lavorano con e per i giovani: insegnanti, educatori, amministratori. La scolarizzazione, la formazione per tutto l’arco della vita sono alcuni dei criteri su cui oggi nuovi approcci misurano il benessere dei Paesi e sono diritti inalienabili sanciti, per bambini e ragazzi dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia.13 La pedagogia e la politica devono avere in questo momento storico un ruolo di primo piano; gli obiettivi a cui dovrebbero tendere sono la diffusione di una cultura dei diritti, una cultura del rispetto dell’infanzia e di attenzione prioritaria ai temi del’educazione alla cittadinanza. “Rimuovere gli ostacoli sociali ed economici”14 a che questi diritti vengano rispettati è compito dello Stato e anche degli enti locali. Il secondo capitolo descrive la condizione dei giovani nel mondo e in Italia in rapporto ai diritti di partecipazione. Il contesto mondiale che la Banca Mondiale (organismo dell’Onu)15 dipinge è potenzialmente positivo: “il numero di giovani tra i 12 e i 24 anni è intorno a 1, 3 miliardi ossia il livello più elevato della storia; questo gruppo è in migliore salute e meglio istruito di sempre. I Paesi ricchi come quelli poveri devono approfittare di questa opportunità prima che l’invecchiamento della società metta fine a questo periodo potenzialmente assai fruttuoso per il mondo intero. In Italia invece “Viene dipinto un quadro deprimente in cui “gli adulti mandano segnali incerti, ambigui, contraddittori. Se si può dunque imputare qualcosa alle generazioni dei giovani oggi è di essere, per certi versi, troppo simili ai loro padri e alle loro madri”16 Nel capitolo vengono mostrati e commentati i dati emersi da rapporti e ricerche di organizzazioni internazionali che dimostrano come anche dal livello di istruzione, di accesso alla cultura, ma in particolare dal livello di partecipazione attiva alla vita civica dei giovani, dipenda il futuro del globo intero e dunque anche del nostro Paese . Viene inoltre descritto l’evolversi delle politiche giovanili in Italia anche in rapporto al mutare del significato del concetto controverso di “partecipazione”: il termine è presente in numerose carte e documenti internazionali nonché utilizzato nei programmi politici delle amministrazioni comunali ma sviscerarne il significato e collocarlo al di fuori dei luoghi comuni e dell’utilizzo demagogico obbliga ad un’analisi approfondita e multidimensionale della sua traduzione in azioni. Gli enti locali continuano ad essere l’oggetto principale del nostro interesse. Per questo vengono riportati i risultati di un’indagine nazionale sui servizi pubblici per adolescenti che sono utili per contestualizzare le indagini regionali svolte dalla scrivente. Nel terzo capitolo si esamina l’ “educazione alla cittadinanza” a partire dalla definizione del Consiglio d’Europa (EDC) cercando di fornire un quadro accurato sui contenuti che le pertengono ma soprattutto sulle metodologie da intraprendere per mettere autenticamente in pratica l’EDC. La partecipazione di adolescenti e giovani risulta essere un elemento fondamentale per promuovere e realizzare l’educazione alla cittadinanza in contesti formali, non formali e informali. Il quarto capitolo riporta alcune riflessioni sulla ricerca pedagogica in Italia e nel panorama internazionale e pone le basi ontologiche ed epistemologiche della ricerca svolta dalla scrivente. Nel quinto capitolo vengono descritte dettagliatamente le due indagini svolte dalla scrivente per raccogliere dati e materiali di documentazione sui progetti di promozione della partecipazione dei giovani promossi dagli Enti locali emiliano-romagnoli ai fini dell’educazione alla cittadinanza. “Enti locali, giovani e politica” indagine sui progetti di promozione della partecipazione sociale e politica che coinvolgono ragazzi tra i 15 e i 20 anni. E “Nuovi cittadini di pace”, un’indagine sui Consigli dei ragazzi nella Provincia di Bologna. Nel sesto capitolo la scrivente formula alcune conclusioni e proposte operative concentrando la propria attenzione in particolare sulle questione della formazione di educatori e facilitatori che operano in contesti di educazione non formale interistituzionale, sulla necessità di una ampia diffusione di una cultura dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nel mondo della politica e della scuola e su un utilizzo del dialogo autentico (in quanto principio democratico) per far sì che adolescenti, giovani e adulti possano collaborare e contribuire insieme alla formulazione di politiche e alla realizzazione di progetti comuni. Ci sembra infine che si debba riconoscere che è tempo di puntare con tutte le forze e in tutti i setting educativi disponibili su un impegno formativo in cui la dimensione politica non solo sia chiaramente e consapevolmente presente, ma sia considerata una delle sue caratteristiche principali. Il nostro tempo lo richiede con urgenza: l’alternativa rischia di essere la disfatta dell’intera umanità e dunque l’impossibilità per l’uomo di realizzarsi nel suo più elevato significato e nel suo autentico valore. I giovani sempre più lo chiedono anche se non sempre utilizzano linguaggi decifrabili dagli adulti.
Resumo:
L’oggetto della tesi di dottorato è costituito, nel quadro delle reciproche relazioni tra assetti territoriali e sviluppo economico, dalla dimensione giuridica del governo del territorio. Il diritto del governo del territorio, infatti, sta attraversando, con un ritmo ed una intensità crescenti, una fase di profonde e non sempre lineari trasformazioni. Questi mutamenti, lungi dal limitarsi ad aspetti specifici e particolari, incidono sui «fondamentali» stessi della «materia», arrivando a mettere in discussione le ricostruzioni teoriche più accreditate e le prassi applicative maggiormente consolidate. A dispetto della rilevanza delle innovazioni, però, la dimensione giuridica del governo del territorio seguita ad essere un campo segnato da una notevole continuità ed ambiguità di fondo, dove le innovazioni stesse procedono di pari passo con le contraddizioni. Un’ambiguità che, fatalmente, si riflette sull’azione delle pubbliche amministrazioni cui sono attribuiti compiti in materia. Queste, infatti, trovandosi spesso tra l’«incudine» (delle innovazioni) ed il «martello» (delle contraddizioni), sono costrette ad operare in un contesto fortemente disomogeneo e disarticolato già sul piano normativo. Da qui deriva, altresì, la difficoltà di restituirne una cifra complessiva che non sia la riproposizione di piatte descrizioni del processo di progressivo, ma costante incremento della «complessità» - normativa, organizzativa e funzionale - del sistema giuridico di disciplina del territorio, a cui corrisponde ciò che appare sempre di più come una forma implicita di «rinuncia» a logiche e moduli d’azione più o meno unitari nella definizione degli assetti territoriali: in questo senso, pertanto, vanno lette le ricorrenti affermazioni relative allo stato di crisi che, anche prescindendo dai difetti congeniti della disciplina per come si è venuta giuridicamente a configurare, caratterizza il sistema di pianificazione territoriale ed urbanistica. Si spiega così perché, nonostante il profluvio di interventi da parte dei diversi legislatori, specialmente regionali, si sia ancora ben lontani dal fornire una risposta adeguata ai molteplici profili di criticità del sistema giuridico di disciplina del territorio: tra i quali, su tutti, va sicuramente menzionata la sempre più marcata asimmetria tra la configurazione «ontologicamente» territoriale e spaziale degli strumenti cui si tende a riconoscere la funzione di «motore immobile» dei processi di governo del territorio - i piani - e la componente temporale degli stessi in relazione alle vorticose modificazioni del contesto socio-economico di riferimento. Né, a dire il vero, gli «antidoti» alla complessità, via via introdotti in sede regionale, sembrano aver sortito - almeno fino ad ora - gli effetti sperati. L’esito di tutto ciò, però, non può che essere il progressivo venir meno di logiche unitarie e, soprattutto, «sistemiche» nella definizione degli assetti territoriali. Fenomeno, questo, che - paradossalmente - si manifesta con maggiore intensità proprio nel momento in cui, stante il legame sempre più stretto tra sviluppo socio-economico e competitività dei singoli sistemi territoriali, l’ordinamento dovrebbe muovere nella direzione opposta. Date le premesse, si è dunque strutturato il percorso di ricerca e analisi nel modo seguente. In primo luogo, si sono immaginati due capitoli nei quali sono trattati ed affrontati i temi generali dell’indagine e lo sfondo nel quale essa va collocata: le nozioni di governo del territorio e di urbanistica, nonché quella, eminentemente descrittiva, di governo degli assetti territoriali, i loro contenuti e le funzioni maggiormente rilevanti riconducibili a tali ambiti; la tematica della competitività e degli interessi, pubblici, privati e collettivi correlati allo sviluppo economico dei singoli sistemi territoriali; la presunta centralità riconosciuta, in questo quadro, al sistema di pianificazione territoriale ed urbanistica in una prospettiva promozionale dello sviluppo economico; ma, soprattutto, i riflessi ed i mutamenti indotti al sistema giuridico di disciplina del territorio dall’azione delle dinamiche cosiddette glocal: questo, sia per quanto concerne le modalità organizzative e procedimentali di esercizio delle funzioni da parte dei pubblici poteri, sia per quanto attiene, più in generale, alla composizione stessa degli interessi nella definizione degli assetti territoriali. In secondo luogo, si è reputato necessario sottoporre a vaglio critico il sistema pianificatorio, cercando di evidenziare i fattori strutturali e gli ulteriori elementi che hanno determinato il suo insuccesso come strumento per realizzare le condizioni ‘ottimali’ per lo sviluppo economico delle collettività che usano il territorio. In terzo luogo, poi, si è rivolto lo sguardo al quadro delle soluzioni individuate dalla normativa e, per certi versi, offerte dalla prassi alla crisi che ha investito il sistema di pianificazione del territorio, soffermandosi, specificatamente e con approccio critico, sull’urbanistica per progetti e sull’urbanistica consensuale nelle loro innumerevoli articolazioni e partizioni. Infine, si è provato a dar conto di quelle che potrebbero essere le linee evolutive dell’ordinamento, anche in un’ottica de jure condendo. Si è tentato, cioè, di rispondere, sulla base dei risultati raggiunti, alla domanda se e a quali condizioni il sistema di pianificazione territoriale ed urbanistica possa dirsi il modello preferibile per un governo degli assetti territoriali funzionale a realizzare le condizioni ottimali per lo sviluppo economico.
Resumo:
La valutazione dell’intensità secondo una procedura formale trasparente, obiettiva e che permetta di ottenere valori numerici attraverso scelte e criteri rigorosi, rappresenta un passo ed un obiettivo per la trattazione e l’impiego delle informazioni macrosismiche. I dati macrosismici possono infatti avere importanti applicazioni per analisi sismotettoniche e per la stima della pericolosità sismica. Questa tesi ha affrontato il problema del formalismo della stima dell’intensità migliorando aspetti sia teorici che pratici attraverso tre passaggi fondamentali sviluppati in ambiente MS-Excel e Matlab: i) la raccolta e l’archiviazione del dataset macrosismico; ii), l’associazione (funzione di appartenenza o membership function) tra effetti e gradi di intensità della scala macrosismica attraverso i principi della logica dei fuzzy sets; iii) l’applicazione di algoritmi decisionali rigorosi ed obiettivi per la stima dell’intensità finale. L’intera procedura è stata applicata a sette terremoti italiani sfruttando varie possibilità, anche metodologiche, come la costruzione di funzioni di appartenenza combinando le informazioni macrosismiche di più terremoti: Monte Baldo (1876), Valle d’Illasi (1891), Marsica (1915), Santa Sofia (1918), Mugello (1919), Garfagnana (1920) e Irpinia (1930). I risultati ottenuti hanno fornito un buon accordo statistico con le intensità di un catalogo macrosismico di riferimento confermando la validità dell’intera metodologia. Le intensità ricavate sono state poi utilizzate per analisi sismotettoniche nelle aree dei terremoti studiati. I metodi di analisi statistica sui piani quotati (distribuzione geografica delle intensità assegnate) si sono rivelate in passato uno strumento potente per analisi e caratterizzazione sismotettonica, determinando i principali parametri (localizzazione epicentrale, lunghezza, larghezza, orientazione) della possibile sorgente sismogenica. Questa tesi ha implementato alcuni aspetti delle metodologie di analisi grazie a specifiche applicazioni sviluppate in Matlab che hanno permesso anche di stimare le incertezze associate ai parametri di sorgente, grazie a tecniche di ricampionamento statistico. Un’analisi sistematica per i terremoti studiati è stata portata avanti combinando i vari metodi per la stima dei parametri di sorgente con i piani quotati originali e ricalcolati attraverso le procedure decisionali fuzzy. I risultati ottenuti hanno consentito di valutare le caratteristiche delle possibili sorgenti e formulare ipotesi di natura sismotettonica che hanno avuto alcuni riscontri indiziali con dati di tipo geologico e geologico-strutturale. Alcuni eventi (1915, 1918, 1920) presentano una forte stabilità dei parametri calcolati (localizzazione epicentrale e geometria della possibile sorgente) con piccole incertezze associate. Altri eventi (1891, 1919 e 1930) hanno invece mostrato una maggiore variabilità sia nella localizzazione dell’epicentro che nella geometria delle box: per il primo evento ciò è probabilmente da mettere in relazione con la ridotta consistenza del dataset di intensità mentre per gli altri con la possibile molteplicità delle sorgenti sismogenetiche. Anche l’analisi bootstrap ha messo in evidenza, in alcuni casi, le possibili asimmetrie nelle distribuzioni di alcuni parametri (ad es. l’azimut della possibile struttura), che potrebbero suggerire meccanismi di rottura su più faglie distinte.
Resumo:
Si tratta di uno studio osservazionale analitico di coorte prospettico volto a rilevare disfunzioni neuropsicologiche nei pazienti affetti da epilessia frontale notturna, attraverso una batteria di test che esplora i seguenti domini cognitivi: intelligenza generale, memoria, linguaggio, funzioni esecutive, attenzione, vigilanza, tempi di reazione, percezione della qualità della vita ed eventuale presenza di sintomi psichiatrici. Lo studio ha un follow up medio di 20 anni e riporta, per la prima volta in letteratura, lâevoluzione clinica dei soggetti che hanno avuto un esordio dellâepilessia in età evolutiva. Fino ad ora, lâepilessia frontale notturna è stata associata a disfunzioni cognitive nei soli casi di famiglie affette e nelle quali è stato possibile rilevare il difetto genetico. Questo studio ha rilevato la prevalenza di disturbi cognitivi e psichici in un campione di 24 soggetti affetti, mediante la somministrazione di una batteria di test specifica. I risultati sono stati analizzati con il programma statistico SPSS. Tutti i soggetti presentano abilità cognitive inferiori alla media in uno o più test ma il quoziente intellettivo risulta normale nei tre quarti del campione. Il ritardo mentale è più frequente e più grave nei soggetti idiopatici rispetto a quelli con alterazioni morfologiche frontali rilevate alla risonanza magnetica. Sono risultati più frequenti i disturbi della memoria, soprattutto quella a lungo termine e del linguaggio rispetto a quelli di tipo disesecutivo. Tutti i soggetti, che non hanno ottenuto un controllo delle crisi, manifestano una percezione della qualità della vita inferiore alla media. Eâ stata valutata lâinfluenza delle variabili cliniche (età di esordio dellâepilessia, frequenza e semeiologia delle crisi, durata della malattia e terapia antiepilettica), le anomalie elettroencefalografiche e le anomalie rilevate alla risonanza magnetica. Le variabili che sono in rapporto con un maggiore numero di disfunzioni neuropsicologiche sono: lâelevata frequenza di crisi allâesordio, lâassociazione con crisi in veglia, la presenza di crisi parziali secondariamente generalizzate e lâassunzione di una politerapia. I disturbi psichici prevalgono nei soggetti con anomalie elettroencefalografiche frontali sinistre. I dati neuropsicologici suggeriscono una disfunzione cognitiva prevalentemente fronto-temporale e, assieme ai dati clinici ed elettroencefalografici, sembrano confermare lâorigine mesiale e orbitale frontale delle anomalie epilettiche nellâepilessia frontale notturna.
Resumo:
L’Azienda USL di Bologna è la più grande della regione ed è una delle più grandi in Italia: serve una popolazione di 836.697 abitanti ed è distribuita su 50 comuni. E’ stata istituita il 1° gennaio 2004 con la Legge della Regione Emilia Romagna n. 21 del 20/10/2003 che ha unificato i Comuni di tre Aziende USL: “Città di Bologna”, “Bologna Sud” e “Bologna Nord” (ad eccezione del Comune di Medicina che dall’Area Nord è entrato a far parte dell’Azienda USL di Imola che ha mantenuto un’autonoma configurazione giuridica). Il territorio dell’Azienda USL di Bologna si estende per 2915,4 Kmq ed è caratterizzato dalla particolare ubicazione geografica dei suoi distretti. Al Distretto prettamente urbano, quale quello di Bologna Città si affiancano nell’Area Nord i Distretti di pianura quali Pianura Est e Pianura Ovest, mentre nell’Area Sud si collocano i Distretti con territorio più collinare, quali quelli di Casalecchio di Reno e San Lazzaro di Savena ed il Distretto di Porretta Terme che si caratterizza per l’alta percentuale di territorio montuoso. L’unificazione di territori diversi per caratteristiche orografiche, demografiche e socioeconomiche, ha comportato una maggiore complessità rispetto al passato in termini di governo delle condizioni di equità. La rimodulazione istituzionale ed organizzativa dell’offerta dei sevizi sanitari ha comportato il gravoso compito di razionalizzarne la distribuzione, tenendo conto delle peculiarità del contesto. Alcuni studi di fattibilità precedenti l’unificazione, avevano rilevato come attraverso la costituzione di un’Azienda USL unica si sarebbero potuti più agevolmente perseguire gli obiettivi collegati alle prospettive di sviluppo e di ulteriore qualificazione del sistema dei servizi delle Aziende USL dell’area bolognese, con benefici per il complessivo servizio sanitario regionale. Le tre Aziende precedentemente operanti nell’area bolognese erano percepite come inadeguate, per dimensioni, a supportare uno sviluppo dei servizi ritenuto indispensabile per la popolazione ma, che, se singolarmente realizzato, avrebbe condotto ad una inutile duplicazione di servizi già presenti. Attraverso l’integrazione delle attività di acquisizione dei fattori produttivi e di gestione dei servizi delle tre Aziende, si sarebbero potute ragionevolmente conseguire economie più consistenti rispetto a quanto in precedenza ottenuto attraverso il coordinamento volontario di tali processi da parte delle tre Direzioni. L’istituzione della nuova Azienda unica, conformemente al Piano sanitario regionale si proponeva di: o accelerare i processi di integrazione e di redistribuzione dell’offerta dei servizi territoriali, tenendo conto della progressiva divaricazione fra i cambiamenti demografici, che segnavano un crescente deflusso dal centro storico verso le periferie, ed i flussi legati alle attività lavorative, che si muovevano in senso contrario; o riorganizzare i servizi sanitari in una logica di rete e di sistema, condizione necessaria per assicurare l’equità di accesso ai servizi e alle cure, in stretta interlocuzione con gli Enti Locali titolari dei servizi sociali; o favorire il raggiungimento dell’equilibrio finanziario dell’Azienda e contribuire in modo significativo alla sostenibilità finanziaria dell’intero sistema sanitario regionale. L’entità delle risorse impegnate nell’Area bolognese e le dimensioni del bilancio della nuova Azienda unificata offrivano la possibilità di realizzare economie di scala e di scopo, attraverso la concentrazione e/o la creazione di sinergie fra funzioni e attività, sia in ambito ospedaliero, sia territoriale, con un chiaro effetto sull’equilibrio del bilancio dell’intero Servizio sanitario regionale. A cinque anni dalla sua costituzione, l’Azienda USL di Bologna, ha completato una significativa fase del complessivo processo riorganizzativo superando le principali difficoltà dovute alla fusione di tre Aziende diverse, non solo per collocazione geografica e sistemi di gestione, ma anche per la cultura dei propri componenti. La tesi affronta il tema dell’analisi dell’impatto della fusione sugli assetti organizzativi aziendali attraverso uno sviluppo così articolato: o la sistematizzazione delle principali teorie e modelli organizzativi con particolare attenzione alla loro contestualizzazione nella realtà delle organizzazioni professionali di tipo sanitario; o l’analisi principali aspetti della complessità del sistema tecnico, sociale, culturale e valoriale delle organizzazioni sanitarie; o l’esame dello sviluppo organizzativo dell’Azienda USL di Bologna attraverso la lettura combinata dell’Atto e del Regolamento Organizzativo Aziendali esaminati alla luce della normativa vigente, con particolare attenzione all’articolazione distrettuale e all’organizzazione Dipartimentale per cogliere gli aspetti di specificità che hanno caratterizzano il disegno organizzativo globalmente declinato. o l’esposizione degli esiti di un questionario progettato, in accordo con la Direzione Sanitaria Aziendale, allo scopo di raccogliere significativi elementi per valutare l’impatto della riorganizzazione dipartimentale rispetto ai tre ruoli designati in “staff “alle Direzioni degli otto Dipartimenti Ospedalieri dell’AUSL di Bologna, a tre anni dalla loro formale istituzione. La raccolta dei dati è stata attuata tramite la somministrazione diretta, ai soggetti indagati, di un questionario costituito da numerosi quesiti a risposta chiusa, integrati da domande aperte finalizzate all’approfondimento delle dimensioni di ruolo che più frequentemente possono presentare aspetti di criticità. Il progetto ha previsto la rielaborazione aggregata dei dati e la diffusione degli esiti della ricerca: alla Direzione Sanitaria Aziendale, alle Direzioni Dipartimentali ospedaliere ed a tutti i soggetti coinvolti nell’indagine stessa per poi riesaminare in una discussione allargata i temi di maggiore interesse e le criticità emersi. Gli esiti sono esposti in una serie di tabelle con i principali indicatori e vengono adeguatamente illustrati.
Resumo:
Con il presente lavoro, che ha ad oggetto l’istituto dello scioglimento anticipato delle Camere nell’ordinamento costituzionale italiano, il candidato si propone tre obiettivi. Il primo è quello della ricostruzione dogmatica dell’istituto che sconta inevitabilmente un grosso debito nei confronti della vasta letteratura giuridica che si è sviluppata nel corso dei decenni. Il secondo obiettivo è quello, ben più originale, dell’indagine sulla prassi che ha contraddistinto il ricorso allo scioglimento nella peculiare realtà italiana. In questo modo si viene colmando uno spazio di ricerca diretto a leggere gli avvenimenti e a ricondurli in un quadro costituzionale sistematico, anche al fine di ricavare utili riflessioni circa la conformità della prassi stessa al dato normativo, nonché sulle modalità di funzionamento concreto dell'istituto. Il terzo obiettivo, quello più ambizioso, è utilizzare le considerazioni così sviluppate per ricercare soluzioni interpretative adeguate all’evoluzione subita dall’assetto politico-istituzionale italiano negli ultimi due decenni. Quanto al metodo, la scelta del candidato è stata quella di ricorrere ad uno strumentario che pone in necessaria sequenza logica: a) i presupposti storici/comparatistici e il dibattito in Assemblea costituente, utili per l’acquisizione del patrimonio del parlamentarismo europeo del tempo e per la comprensione del substrato su cui si costruisce l’edificio costituzionale; b) il testo costituzionale, avvalendosi anche delle importanti considerazioni svolte dalla dottrina più autorevole; c) la prassi costituzionale, consistente nella fase di implementazione concreta del disposto normativo. La finalità che il candidato si pone è dimostrare la possibilità di configurare lo scioglimento secondo un modello di tipo “primoministeriale”. Per quanto riguarda la prima parte della ricerca, dalla pur sintetica descrizione dei precedenti storici (sia rispetto alle realtà europee, inglese e francese in primis, che al periodo prerepubblicano) si trae conferma che l’operatività dell’istituto è intrinsecamente influenzata dalla forma di governo. Una prima indicazione che emerge con forza è come la strutturazione del sistema partitico e il grado di legame tra Assemblea rappresentativa e Gabinetto condizionino la ratio del potere di scioglimento, la sua titolarità ed il suo effettivo rendimento. Infatti, in presenza di regimi bipartitici e di impianti istituzionali che accentuano il raccordo fiduciario, il Capo dello Stato tende all’emarginazione, e lo scioglimento acquisisce carattere di automaticità tutte le volte in cui si verificano crisi ministeriali (eventualità però piuttosto rara); più consueto è invece lo scioglimento primoministeriale libero, come arma politica vera e propria attraverso cui il Governo in carica tende a sfruttare il momento migliore per ricercare il giudizio del popolo. Al contrario, dove il sistema politico è più dinamico, e il pluralismo sociale radicalizzato, il Capo dello Stato interferisce fortemente nella vita istituzionale e, in particolare, nella formazione dell’indirizzo politico: in quest’ottica lo scioglimento viene da questi inglobato, ed il suo ricorso subordinato ad esigenze di recupero della funzionalità perduta; soprattutto, quando si verificano crisi ministeriali (invero frequenti) il ricorso alle urne non è conseguenza automatica, ma semmai gli viene preferita la via della formazione di un Gabinetto poggiante su una maggioranza alternativa. L’indagine svolta dal candidato sui lavori preparatori mostra come il Costituente abbia voluto perseguire l'obiettivo di allargare le maglie della disciplina costituzionale il più possibile, in modo da poter successivamente ammettere più soluzioni interpretative. Questa conclusione è il frutto del modo in cui si sono svolte le discussioni. Le maggiori opzioni prospettate si collocavano lungo una linea che aveva ad un estremo una tassativa preordinazione delle condizioni legittimanti, ed all’altro estremo l’esclusiva e pressoché arbitraria facoltà decisionale dello scioglimento nelle mani del Capo dello Stato; in mezzo, la via mediana (e maggiormente gradita) del potere sì presidenziale, benché circondato da tutta una serie di limiti e garanzie, nel quadro della costruzione di una figura moderatrice dei conflitti tra Esecutivo e Legislativo. Ma non bisogna tralasciare che, seppure rare, diverse voci propendevano per la delineazione di un potere governativo di scioglimento la quale impedisse che la subordinazione del Governo al Parlamento si potesse trasformare in degenerazione assemblearista. Quindi, il candidato intende sottolineare come l’adamantina prescrizione dell’art. 88 non postuli, nell’ambito dell’interpretazione teleologica che è stata data, alcuno specifico indirizzo interpretativo dominante: il che, in altri termini, è l’ammissione di una pluralità di concezioni teoricamente valide. L'analisi del dettato costituzionale non ha potuto prescindere dalla consolidata tripartizione delle teorie interpretative. Dall'analisi della letteratura emerge la preferenza per la prospettiva dualistica, anche in virtù del richiamo che la Costituzione svolge nei confronti delle competenze sia del Presidente della Repubblica (art. 88) che del Governo (art. 89), il che lo convince dell’inopportunità di imporre una visione esclusivista, come invece sovente hanno fatto i sostenitori della tesi presidenziale. Sull’altro versante ciò gli permette di riconferire una certa dignità alla tesi governativa, che a partire dal primo decennio repubblicano era stata accantonata in sede di dibattito dottrinario: in questo modo, entrambe le teoriche fondate su una titolarità esclusiva assumono una pari dignità, benchè parimenti nessuna delle due risulti persuasiva. Invece, accedere alla tesi della partecipazione complessa significa intrinsecamente riconoscere una grande flessibilità nell’esercizio del potere in questione, permettendo così una sua più adeguata idoneità a mutare le proprie sembianze in fase applicativa e a calarsi di volta in volta nelle situazioni contingenti. Questa costruzione si inserisce nella scelta costituente di rafforzare le garanzie, ed il reciproco controllo che si instaura tra Presidente e Governo rappresenta la principale forma di tutela contro potenziali abusi di potere. Ad ognuno dei due organi spettano però compiti differenti, poiché le finalità perseguite sono differenti: come l’Esecutivo agisce normalmente secondo canoni politici, in quanto principale responsabile dell’indirizzo politico, al Capo dello Stato si addice soprattutto il compito di sorvegliare il regolare svolgimento dei meccanismi istituzionali, in posizione di imparzialità. Lo schema costituzionale, secondo il candidato, sembra perciò puntare sulla leale collaborazione tra i poteri in questione, senza però predefinire uno ruolo fisso ed immutabile, ma esaltando le potenzialità di una configurazione così eclettica. Assumendo questa concezione, si ha buon gioco a conferire piena cittadinanza costituzionale all’ipotesi di scioglimento disposto su proposta del Presidente del Consiglio, che si può ricavare in via interpretativa dalla valorizzazione dell’art. 89 Cost. anche secondo il suo significato letterale. Al discorso della titolarità del potere di scioglimento, il candidato lega quello circa i presupposti legittimanti, altro nodo irrisolto. La problematica relativa alla loro definizione troverebbe un decisivo ridimensionamento nel momento in cui si ammette la compartecipazione di Governo e Presidente della Repubblica: il diverso titolo con il quale essi cooperano consentirebbe di prevenire valutazioni pretestuose circa la presenza delle condizioni legittimanti, poichè è nel reciproco controllo che entrambi gli organi individuano i confini entro cui svolgere le rispettive funzioni. Si giustificano così sia ragioni legate ad esigenze di funzionalità del sistema (le più ricorrenti in un sistema politico pluripartitico), sia quelle scaturenti dalla divaricazione tra orientamento dei rappresentati e orientamento dei rappresentanti: purchè, sottolinea il candidato, ciò non conduca il Presidente della Repubblica ad assumere un ruolo improprio di interferenza con le prerogative proprie della sfera di indirizzo politico. Il carattere aperto della disciplina costituzionale spinge inevitabilmente il candidato ad approfondire l'analisi della prassi, la cui conoscenza costituisce un fondamentale modo sia per comprendere il significato delle disposizioni positive che per apprezzare l’utilità reale ed il rendimento sistemico dell’istituto. Infatti, è proprio dall'indagine sulla pratica che affiorano in maniera prepotente le molteplici virtualità dello strumento dissolutorio, con modalità operative che, a seconda delle singole fasi individuate, trovano una strutturazione casistica variabile. In pratica: nel 1953 e nel 1958 è l'interesse del partito di maggioranza relativa ad influenzare il Governo circa la scelta di anticipare la scadenza del Senato; nel 1963 e nel 1968 invece si fa strada l'idea del consenso diffuso allo scioglimento, seppure nel primo caso l'anticipo valga ancora una volta per il solo Senato, e nel secondo ci si trovi di fronte all'unica ipotesi di fine naturale della legislatura; nel 1972, nel 1976, nel 1979, nel 1983 e nel 1987 (con una significativa variante) si manifesta con tutta la sua forza la pratica consociativa, figlia della degenerazione partitocratica che ha svuotato le istituzioni giuridiche (a partire dal Governo) e cristallizzato nei partiti politici il centro di gravità della vita pubblica; nel 1992, a chiusura della prima epoca repubblicana, caratterizzata dal dominio della proporzionale (con tutte le sue implicazioni), si presentano elementi atipici, i quali vanno a combinarsi con le consolidate tendenze, aprendo così la via all'incertezza sulle tendenze future. È con l'avvento della logica maggioritaria, prepotentemente affacciatasi per il tramite dei referendum elettorali, a sconvolgere il quadro delle relazioni fra gli organi costituzionali, anche per quanto concerne ratio e caratteristiche del potere di scioglimento delle Camere. Soprattutto, nella fase di stretta transizione che ha attraversato il quadriennio 1992-1996, il candidato mette in luce come i continui smottamenti del sistema politico abbiano condotto ad una fase di destabilizzazione anche per quanto riguarda la prassi, incrinando le vecchie regolarità e dando vita a potenzialità fino allora sconosciute, addirittura al limite della conformità a Costituzione. La Presidenza Scalfaro avvia un processo di netta appropriazione del potere di scioglimento, esercitandolo in maniera esclusiva, grazie anche alla controfirma offerta da un Governo compiacente (“tecnicco”, perciò debitore della piena fiducia quirinalizia). La piena paternità presidenziale, nel 1994, è accompagnata da un altro elemento di brusca rottura con il passato, ossia quello della ragione legittimante: infatti, per la prima volta viene addotta palesemente la motivazione del deficit di rappresentatività. Altro momento ad aver costituito da spartiacque nell’evoluzione della forma di governo è stato il mancato scioglimento a seguito della crisi del I Governo Berlusconi, in cui forti erano state le pressioni perché si adeguasse il parlamentarismo secondo i canoni del bipolarismo e del concetto di mandato di governo conferito direttamente dagli elettori ad una maggioranza (che si voleva predefinita, nonostante essa in verità non lo fosse affatto). Dopo questa parentesi, secondo il candidato la configurazione dello strumento dissolutorio si allinea su ben altri binari. Dal punto di vista della titolarità, sono i partiti politici a riprendere vigorosamente un certo protagonismo decisionale, ma con una netta differenza rispetto al passato consociativo: ora, il quadro politico pare saldamente attestato su una dinamica bipolare, per cui anche in relazione all’opzione da adottare a seguito di crisi ministeriale sono le forze della maggioranza che decidono se proseguire la legislatura (qualora trovino l’accordo tra di loro) o se sciogliere (allorchè invece si raggiunga una sorta di maggioranza per lo scioglimento). Dal punto di vista dei presupposti, sembra consolidarsi l’idea che lo scioglimento rappresenti solo l’extrema ratio, chiamando gli elettori ad esprimersi solo nel momento in cui si certifica l’assoluta impossibilità di ripristinare la funzionalità perduta. Conclusioni. Il rafforzamento della prospettiva bipolare dovrebbe postulare una riconfigurazione del potere di scioglimento tesa a valorizzare la potestà decisionale del Governo. Ciò discenderebbe dal principio secondo cui il rafforzamento del circuito che unisce corpo elettorale, maggioranza parlamentare e Governo, grazie al collante di un programma politico condiviso, una coalizione che si presenta alle elezioni ed un candidato alla Presidenza del Consiglio che incarna la perfetta sintesi di tutte queste istanze, comporta che alla sua rottura non si può che tornare al giudizio elettorale: e quindi sciogliere le Camere, evitando la composizione di maggioranze che non rappresentano la diretta volontà popolare. Il candidato però non ritiene auspicabile l’adozione di un automatismo analogo alla regola dell'aut simul stabunt aut simul cadent proprio dell’esperienza regionale post 1999, perché soluzione eccessivamente rigida, che ingesserebbe in maniera inappropriata una forma parlamentare che comunque richiede margini di flessiblità. La proposta è invece di rileggere il testo costituzionale, rebus sic stantibus, nel senso di far prevalere un potere libero di proposta da parte del Governo, cui il Capo dello Stato non potrebbe non consentire, salvo svolgere un generale controllo di costituzionalità volto ad accertare l’insussistenza di alcuna forma di abuso. Su queste conclusioni il lavoro esprime solo prime idee, che meritano di essere approfondite. Come è da approfondire un tema che rappresenta forse l’elemento di maggiore originalità: trattasi della qualificazione e descrizione di un mandato a governare, ossia della compatibilità costituzionale (si pensi, in primis, al rapporto con il divieto di mandato imperativo di cui all’art. 67 Cost.) di un compito di governo che, tramite le elezioni, gli elettori affidano ad una determinata maggioranza, e che va ad arricchire il significato del voto rispetto a quello classico della mera rappresentanza delle istanze dei cittadini (e propria del parlamentarismo ottocentesco): riflessi di tali considerazioni si avrebbero inevitabilmente anche rispetto alla concezione del potere di scioglimento, che in siffatta maniera verrebbe percepito come strumento per il ripristino del “circuito di consonanza politica” che in qualche modo si sarebbe venuto a rompere. Ad ogni buon conto, già emergono dei riflessi in questo senso, per cui la strada intrapresa dal candidato pare quella giusta affinchè l’opera risulti completa, ben argomentata ed innovativa.
Resumo:
La tesi si articola in tre capitoli. Il primo dà conto del dibattito sorto attorno alla problematica dell’inquadramento della previdenza complementare nel sistema costituzionale dell’art. 38 Cost. che ha diviso la dottrina tra quanti hanno voluto ricondurre tale fenomeno al principio di libertà della previdenza privata di cui all’ art. 38, comma 5, Cost. e quanti lo hanno invece collocato al 2° comma della stessa norma, sulla base di una ritenuta identità di funzioni tra previdenza pubblica e previdenza complementare. Tale ultima ricostruzione in particolare dopo la c.d. Riforma “Amato” è culminata nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha avuto modo di pronunciarsi sulla questione con una serie di pronunce sulla vicenda del c.d. “contributo sul contributo” e su quella della subordinazione dei requisiti di accesso alle prestazioni pensionistiche complementari alla maturazione dei requisiti previsti dal sistema obbligatorio. Il capitolo successivo si occupa della verifica della attualità e della coerenza dell’impostazione della Corte Costituzionale alla luce dell’evoluzione della disciplina dei fondi pensione. Nel terzo capitolo, infine, vengono affrontate alcune questioni aperte in relazione ai c.d. fondi pensione “preesistenti” suscettibili di sollevare preoccupazioni circa la necessità di garantire le aspettative e i diritti dei soggetti iscritti.
Resumo:
La ricerca svolta ha individuato fra i suoi elementi promotori l’orientamento determinato da parte della comunità europea di dare vita e sostegno ad ambiti territoriali intermedi sub nazionali di tipo regionale all’interno dei quali i sistemi di città potessero raggiungere le massime prestazioni tecnologiche per cogliere gli effetti positivi delle innovazioni. L’orientamento europeo si è confrontato con una realtà storica e geografica molto variata in quanto accanto a stati membri, nei quali le gerarchie fra città sono storicamente radicate e funzionalmente differenziate secondo un ordine che vede la città capitale dominante su città subalterne nelle quali la cultura di dominio del territorio non è né continua né gerarchizzata sussistono invece territori nazionali compositi con una città capitale di riconosciuto potere ma con città di minor dimensione che da secoli esprimono una radicata incisività nella organizzazione del territorio di appartenenza. Alla prima tipologia di stati appartengono ad esempio i Paesi del Nord Europa e l’Inghilterra, esprimendo nella Francia una situazione emblematica, alla seconda tipologia appartengono invece i Paesi dell’aera mediterranea, Italia in primis, con la grande eccezione della Germania. Applicando gli intendimenti comunitari alla realtà locale nazionale, questa tesi ha avviato un approfondimento di tipo metodologico e procedurale sulla possibile organizzazione a sistema di una regione fortemente policentrica nel suo sviluppo e “artificiosamente” rinata ad unità, dopo le vicende del XIX secolo: l’Emilia-Romagna. Anche nelle regioni che si presentano come storicamente organizzate sulla pluralità di centri emergenti, il rapporto col territorio è mediato da centri urbani minori che governano il tessuto cellulare delle aggregazioni di servizi di chiara origine agraria. Questo stato di cose comporta a livello politico -istituzionale una dialettica vivace fra territori voluti dalle istituzioni e territori legittimati dal consolidamento delle tradizioni confermato dall’uso attuale. La crescente domanda di capacità di governo dello sviluppo formulata dagli operatori economici locali e sostenuta dalle istituzioni europee si confronta con la scarsa capacità degli enti territoriali attuali: Regioni, Comuni e Province di raggiungere un livello di efficienza sufficiente ad organizzare sistemi di servizi adeguati a sostegno della crescita economica. Nel primo capitolo, dopo un breve approfondimento sulle “figure retoriche comunitarie”, quali il policentrismo, la governance, la coesione territoriale, utilizzate per descrivere questi fenomeni in atto, si analizzano gli strumenti programmatici europei e lo S.S.S.E,. in primis, che recita “Per garantire uno sviluppo regionale equilibrato nella piena integrazione anche nell’economia mondiale, va perseguito un modello di sviluppo policentrico, al fine di impedire un’ulteriore eccessiva concentrazione della forza economica e della popolazione nei territori centrali dell’UE. Solo sviluppando ulteriormente la struttura, relativamente decentrata, degli insediamenti è possibile sfruttare il potenziale economico di tutte le regioni europee.” La tesi si inserisce nella fase storica in cui si tenta di definire quali siano i nuovi territori funzionali e su quali criteri si basa la loro riconoscibilità; nel tentativo di adeguare ad essi, riformandoli, i territori istituzionali. Ai territori funzionali occorre riportare la futura fiscalità, ed è la scala adeguata per l'impostazione della maggior parte delle politiche, tutti aspetti che richiederanno anche la necessità di avere una traduzione in termini di rappresentanza/sanzionabilità politica da parte dei cittadini. Il nuovo governo auspicato dalla Comunità Europea prevede una gestione attraverso Sistemi Locali Territoriali (S.Lo.t.) definiti dalla combinazione di milieu locale e reti di attori che si comportano come un attore collettivo. Infatti il secondo capitolo parte con l’indagare il concetto di “regione funzionale”, definito sulla base della presenza di un nucleo e di una corrispondente area di influenza; che interagisce con altre realtà territoriali in base a relazioni di tipo funzionale, per poi arrivare alla definizione di un Sistema Locale territoriale, modello evoluto di regione funzionale che può essere pensato come una rete locale di soggetti i quali, in funzione degli specifici rapporti che intrattengono fra loro e con le specificità territoriali del milieu locale in cui operano e agiscono, si comportano come un soggetto collettivo. Identificare un sistema territoriale, è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per definire qualsiasi forma di pianificazione o governance territoriale, perchè si deve soprattutto tener conto dei processi di integrazione funzionale e di networking che si vengono a generare tra i diversi sistemi urbani e che sono specchio di come il territorio viene realmente fruito., perciò solo un approccio metodologico capace di sfumare e di sovrapporre le diverse perimetrazioni territoriali riesce a definire delle aree sulle quali definire un’azione di governo del territorio. Sin dall’inizio del 2000 il Servizio Sviluppo Territoriale dell’OCSE ha condotto un’indagine per capire come i diversi paesi identificavano empiricamente le regioni funzionali. La stragrande maggioranza dei paesi adotta una definizione di regione funzionale basata sul pendolarismo. I confini delle regioni funzionali sono stati definiti infatti sulla base di “contorni” determinati dai mercati locali del lavoro, a loro volta identificati sulla base di indicatori relativi alla mobilità del lavoro. In Italia, la definizione di area urbana funzionale viene a coincidere di fatto con quella di Sistema Locale del Lavoro (SLL). Il fatto di scegliere dati statistici legati a caratteristiche demografiche è un elemento fondamentale che determina l’ubicazione di alcuni servizi ed attrezzature e una mappa per gli investimenti nel settore sia pubblico che privato. Nell’ambito dei programmi europei aventi come obiettivo lo sviluppo sostenibile ed equilibrato del territorio fatto di aree funzionali in relazione fra loro, uno degli studi di maggior rilievo è stato condotto da ESPON (European Spatial Planning Observation Network) e riguarda l’adeguamento delle politiche alle caratteristiche dei territori d’Europa, creando un sistema permanente di monitoraggio del territorio europeo. Sulla base di tali indicatori vengono costruiti i ranking dei diversi FUA e quelli che presentano punteggi (medi) elevati vengono classificati come MEGA. In questo senso, i MEGA sono FUA/SLL particolarmente performanti. In Italia ve ne sono complessivamente sei, di cui uno nella regione Emilia-Romagna (Bologna). Le FUA sono spazialmente interconnesse ed è possibile sovrapporre le loro aree di influenza. Tuttavia, occorre considerare il fatto che la prossimità spaziale è solo uno degli aspetti di interazione tra le città, l’altro aspetto importante è quello delle reti. Per capire quanto siano policentrici o monocentrici i paesi europei, il Progetto Espon ha esaminato per ogni FUA tre differenti parametri: la grandezza, la posizione ed i collegamenti fra i centri. La fase di analisi della tesi ricostruisce l’evoluzione storica degli strumenti della pianificazione regionale analizzandone gli aspetti organizzativi del livello intermedio, evidenziando motivazioni e criteri adottati nella suddivisione del territorio emilianoromagnolo (i comprensori, i distretti industriali, i sistemi locali del lavoro…). La fase comprensoriale e quella dei distretti, anche se per certi versi effimere, hanno avuto comunque il merito di confermare l’esigenza di avere un forte organismo intermedio di programmazione e pianificazione. Nel 2007 la Regione Emilia Romagna, nell’interpretare le proprie articolazioni territoriali interne, ha adeguato le proprie tecniche analitiche interpretative alle direttive contenute nel Progetto E.S.P.O.N. del 2001, ciò ha permesso di individuare sei S.Lo.T ( Sistemi Territoriali ad alta polarizzazione urbana; Sistemi Urbani Metropolitani; Sistemi Città – Territorio; Sistemi a media polarizzazione urbana; Sistemi a bassa polarizzazione urbana; Reti di centri urbani di piccole dimensioni). Altra linea di lavoro della tesi di dottorato ha riguardato la controriprova empirica degli effettivi confini degli S.Lo.T del PTR 2007 . Dal punto di vista metodologico si è utilizzato lo strumento delle Cluster Analisys per impiegare il singolo comune come polo di partenza dei movimenti per la mia analisi, eliminare inevitabili approssimazioni introdotte dalle perimetrazioni legate agli SLL e soprattutto cogliere al meglio le sfumature dei confini amministrativi dei diversi comuni e province spesso sovrapposti fra loro. La novità è costituita dal fatto che fino al 2001 la regione aveva definito sullo stesso territorio una pluralità di ambiti intermedi non univocamente circoscritti per tutte le funzioni ma definiti secondo un criterio analitico matematico dipendente dall’attività settoriale dominante. In contemporanea col processo di rinnovamento della politica locale in atto nei principali Paesi dell’Europa Comunitaria si va delineando una significativa evoluzione per adeguare le istituzioni pubbliche che in Italia comporta l’attuazione del Titolo V della Costituzione. In tale titolo si disegna un nuovo assetto dei vari livelli Istituzionali, assumendo come criteri di riferimento la semplificazione dell’assetto amministrativo e la razionalizzazione della spesa pubblica complessiva. In questa prospettiva la dimensione provinciale parrebbe essere quella tecnicamente più idonea per il minimo livello di pianificazione territoriale decentrata ma nel contempo la provincia come ente amministrativo intermedio palesa forti carenze motivazionali in quanto l’ente storico di riferimento della pianificazione è il comune e l’ente di gestione delegato dallo stato è la regione: in generale troppo piccolo il comune per fare una programmazione di sviluppo, troppo grande la regione per cogliere gli impulsi alla crescita dei territori e delle realtà locali. Questa considerazione poi deve trovare elementi di compatibilità con la piccola dimensione territoriale delle regioni italiane se confrontate con le regioni europee ed i Laender tedeschi. L'individuazione di criteri oggettivi (funzionali e non formali) per l'individuazione/delimitazione di territori funzionali e lo scambio di prestazioni tra di essi sono la condizione necessaria per superare l'attuale natura opzionale dei processi di cooperazione interistituzionale (tra comuni, ad esempio appartenenti allo stesso territorio funzionale). A questo riguardo molto utile è l'esperienza delle associazioni, ma anche delle unioni di comuni. Le esigenze della pianificazione nel riordino delle istituzioni politico territoriali decentrate, costituiscono il punto finale della ricerca svolta, che vede confermato il livello intermedio come ottimale per la pianificazione. Tale livello è da intendere come dimensione geografica di riferimento e non come ambito di decisioni amministrative, di governance e potrebbe essere validamente gestito attraverso un’agenzia privato-pubblica dello sviluppo, alla quale affidare la formulazione del piano e la sua gestione. E perché ciò avvenga è necessario che il piano regionale formulato da organi politici autonomi, coordinati dall’attività dello stato abbia caratteri definiti e fattibilità economico concreta.
Resumo:
È la nostra intenzione, per mezzo di questa ricerca, effettuare uno studio metodico del procedure tributaria con gli actas con acuerdo, che costituisce una riflessione fedele delle tecniche convenzionali usate allo scopo di dare più sicurezza giurídica al contribuente ed evitare la formazione delle controversie inutili quando stabilisce la possibilità di raggiungere un accordo con la Amministrazione Finanziaria, per la indeterminatezza e la difficoltà che esistono nel sistema fiscale che ordina, per quanto l’interpretazione e l’applicazione della norma si riferisce. Per la realizzaione di questa ricerca ha usato i materiali possiedono del ambito giuridico, questo è, dottrina, giurisprudenza e il Diritto positive, tanto nazionale (spagnolo) quanto straniero, perché l’analisi interrotta di queste fonti, mette di rilievo adi atti relativi a lei actas con acuerdo, di cui la risposta non ha essere pacifica né l’uno né l’altro unanime, poichè abbiamo occasione da analizzare in questo lavoro che prova a contribuire nel minim misurato allo studio su questo tipo specifico di actas e, allo stesso tempo, per effettuare le considerazioni de lege ferenda sul relativo regime legale. Giustificato l’interesse dell’oggetto di studio e dei mezzi tematichi usare, risulta opportuno esporre dopo, il soddisfare di base che è stato seguito per l’elaborazione del lavoro, che consiste di quattro capitoli, a quale va fare il riferimento. Abbiamo considerato indovinato per cominciare, dedicare il capitolo I, titolato “Natura legale degli actas con acuerdo” all’analisi della domanda circa l’inserzione negli accordi nelle procedure fiscali, prendente como l’ipotesi di partenza la scrittura dall’articolo 88 dalla Legge dal Regime Giuridico delle Amministrazioni Pubbliche e la Procedura Amministrativa Comune, dall’applicazione ausiliaria alle procedure fiscale e da quale la possibilità è introdotta di fare gli accordi, i patti o i contratti fra l’Ammistrazione e gli amministrate che possono avere la considerazione dei rimorchi delle procedure amministrative o, a tali introduce dentro con il carattere precedente al relativo completamento, incomparabile con esso unilateralità caratteristico delle prestazioni amministrative. Anche se, dato che relativo adattato messo in funzione all’interno nell sistema fiscale, l’approvazione di una norma specifica, sarebbe consigliabile, che regola l’accordo corrispondente o l’accordo, perché solamente finora, le valutazioni specifiche sono state regolate soltanto como quale sono oggetto di analisi. Quando abbiamo fato l’esame delle caratteristiche che sono conformi la compilazione convenzizonale della procedura ed all’interno di questo primo capitolo, là sono imbarcati in il dibattito doctrinal discutibile su uno alle funzioni decisive degli actas con acuerdo, poichè è quello della sua natura legale, con l’obiettivo per incorniciarlo nella categoria di tecnica di patticio o di atto amministrativo, poiché del telaio in uno o l’altro, saranno fatti derivi il regime legale e le relative conseguenze; e così, dopo l’esame specifico di ogni delle teorie formulate, rendere specificamente la natura legale che abbiamo considerato più misura a la realtà di questa figura. D’altra parte, il secondo dei capitoli accende “La prospettiva dogmatica e costituzionale degli actas con acuerdo”, in cui ci siamo avvicinati alla compatibilità di questa figura con i principii principali del Finanziario che la costituzione spagnola allo scopo di ottenere un Sistema Finanziario del justo; e reso specifico nel principio di capacità contributiva, nel principio di uguaglianza, nel principio di legalità, nel principio di tutela giurisdizionale effetiva, nel principio di certezza e nel indisponibilità del credito tributario. L’analisi nel Diritto comparato è di base nello studio su tutta l’istituzione legale, non solo per affrontante le possibili carenze del nostro sistema fiscale, ma anche per capire la stessa realtà legale, per quel motivo, noi ha dedicato il terzo dei capitoli, “Risoluzione convenzionale delle polemiche del Finanziario nel quadro del Diritto comparato”, fare una descrizione separata del regime legale di ogni delle figure attuali dei differenti sisteme studiati; ma concentrandosi il nostro studio nella modalitá del accertamento con adesione di sistema italiano, perché gli actas con acuerdo sono basati, in grande misura, in questo modello, ragione per la quale il relativo esame concederà rilevare i problemi ed i successi principali, tanto teorico quanto pratico, che la relativa applizcazione ha causato in Italia e trasferirla all’ordenamento spagnolo. Il capitolo IV, “Regime legale degli actas con acuerdo”, costituisce il nucleo della nostra ricerca quando si avvicina l’esame della relativa portata dell’applicazione, obiettivo come tanto soggettivo, di questa categoria specifica delle Ufficio dell’Entrate, i preventivi che il legislatore depositato giù in moda da potere invitare l’attuario di controllo al contribuente per regolarizzare la sua situazione finanziaria prima dell’esistenza dei concetti legali indetermine, concretion della norma legale o della realizzazione delle misure, delle valutazioni o delle valutazioni per la determinazione dell’obbligo finanziario; così como la procedura che deve essere seguita, i requisiti richiesti per i relativo abbonamento, si sono riferiti all’autorizzazione dall’organo competente per liquidare i debiti, la costituzione della garanzia dovuta per assicurare i tutela dell credito tributario egli effetti legali derivato dalla relativa formalizzazione. Per concludere la nostra ricerca, poichè è tradizionale in questi casi, un’ultima sezione è dedicata per riunire le conclusioni principali che derivano dallo studio si sono presentate nelle pagine precedere, provante a fornire una visione globale delle domande imbarcate nel lavoro, così como dei problemi provocati e, nel relativo caso, delle soluzioni possibili.