183 resultados para Sistemi di rigenerazione pompe di calore alta efficienza
Resumo:
Negli ultimi anni, un crescente numero di studiosi ha focalizzato la propria attenzione sullo sviluppo di strategie che permettessero di caratterizzare le proprietà ADMET dei farmaci in via di sviluppo, il più rapidamente possibile. Questa tendenza origina dalla consapevolezza che circa la metà dei farmaci in via di sviluppo non viene commercializzato perché ha carenze nelle caratteristiche ADME, e che almeno la metà delle molecole che riescono ad essere commercializzate, hanno comunque qualche problema tossicologico o ADME [1]. Infatti, poco importa quanto una molecola possa essere attiva o specifica: perché possa diventare farmaco è necessario che venga ben assorbita, distribuita nell’organismo, metabolizzata non troppo rapidamente, ne troppo lentamente e completamente eliminata. Inoltre la molecola e i suoi metaboliti non dovrebbero essere tossici per l’organismo. Quindi è chiaro come una rapida determinazione dei parametri ADMET in fasi precoci dello sviluppo del farmaco, consenta di risparmiare tempo e denaro, permettendo di selezionare da subito i composti più promettenti e di lasciar perdere quelli con caratteristiche negative. Questa tesi si colloca in questo contesto, e mostra l’applicazione di una tecnica semplice, la biocromatografia, per caratterizzare rapidamente il legame di librerie di composti alla sieroalbumina umana (HSA). Inoltre mostra l’utilizzo di un’altra tecnica indipendente, il dicroismo circolare, che permette di studiare gli stessi sistemi farmaco-proteina, in soluzione, dando informazioni supplementari riguardo alla stereochimica del processo di legame. La HSA è la proteina più abbondante presente nel sangue. Questa proteina funziona da carrier per un gran numero di molecole, sia endogene, come ad esempio bilirubina, tiroxina, ormoni steroidei, acidi grassi, che xenobiotici. Inoltre aumenta la solubilità di molecole lipofile poco solubili in ambiente acquoso, come ad esempio i tassani. Il legame alla HSA è generalmente stereoselettivo e ad avviene a livello di siti di legame ad alta affinità. Inoltre è ben noto che la competizione tra farmaci o tra un farmaco e metaboliti endogeni, possa variare in maniera significativa la loro frazione libera, modificandone l’attività e la tossicità. Per queste sue proprietà la HSA può influenzare sia le proprietà farmacocinetiche che farmacodinamiche dei farmaci. Non è inusuale che un intero progetto di sviluppo di un farmaco possa venire abbandonato a causa di un’affinità troppo elevata alla HSA, o a un tempo di emivita troppo corto, o a una scarsa distribuzione dovuta ad un debole legame alla HSA. Dal punto di vista farmacocinetico, quindi, la HSA è la proteina di trasporto del plasma più importante. Un gran numero di pubblicazioni dimostra l’affidabilità della tecnica biocromatografica nello studio dei fenomeni di bioriconoscimento tra proteine e piccole molecole [2-6]. Il mio lavoro si è focalizzato principalmente sull’uso della biocromatografia come metodo per valutare le caratteristiche di legame di alcune serie di composti di interesse farmaceutico alla HSA, e sul miglioramento di tale tecnica. Per ottenere una miglior comprensione dei meccanismi di legame delle molecole studiate, gli stessi sistemi farmaco-HSA sono stati studiati anche con il dicroismo circolare (CD). Inizialmente, la HSA è stata immobilizzata su una colonna di silice epossidica impaccata 50 x 4.6 mm di diametro interno, utilizzando una procedura precedentemente riportata in letteratura [7], con alcune piccole modifiche. In breve, l’immobilizzazione è stata effettuata ponendo a ricircolo, attraverso una colonna precedentemente impaccata, una soluzione di HSA in determinate condizioni di pH e forza ionica. La colonna è stata quindi caratterizzata per quanto riguarda la quantità di proteina correttamente immobilizzata, attraverso l’analisi frontale di L-triptofano [8]. Di seguito, sono stati iniettati in colonna alcune soluzioni raceme di molecole note legare la HSA in maniera enantioselettiva, per controllare che la procedura di immobilizzazione non avesse modificato le proprietà di legame della proteina. Dopo essere stata caratterizzata, la colonna è stata utilizzata per determinare la percentuale di legame di una piccola serie di inibitori della proteasi HIV (IPs), e per individuarne il sito(i) di legame. La percentuale di legame è stata calcolata attraverso il fattore di capacità (k) dei campioni. Questo parametro in fase acquosa è stato estrapolato linearmente dal grafico log k contro la percentuale (v/v) di 1-propanolo presente nella fase mobile. Solamente per due dei cinque composti analizzati è stato possibile misurare direttamente il valore di k in assenza di solvente organico. Tutti gli IPs analizzati hanno mostrato un’elevata percentuale di legame alla HSA: in particolare, il valore per ritonavir, lopinavir e saquinavir è risultato maggiore del 95%. Questi risultati sono in accordo con dati presenti in letteratura, ottenuti attraverso il biosensore ottico [9]. Inoltre, questi risultati sono coerenti con la significativa riduzione di attività inibitoria di questi composti osservata in presenza di HSA. Questa riduzione sembra essere maggiore per i composti che legano maggiormente la proteina [10]. Successivamente sono stati eseguiti degli studi di competizione tramite cromatografia zonale. Questo metodo prevede di utilizzare una soluzione a concentrazione nota di un competitore come fase mobile, mentre piccole quantità di analita vengono iniettate nella colonna funzionalizzata con HSA. I competitori sono stati selezionati in base al loro legame selettivo ad uno dei principali siti di legame sulla proteina. In particolare, sono stati utilizzati salicilato di sodio, ibuprofene e valproato di sodio come marker dei siti I, II e sito della bilirubina, rispettivamente. Questi studi hanno mostrato un legame indipendente dei PIs ai siti I e II, mentre è stata osservata una debole anticooperatività per il sito della bilirubina. Lo stesso sistema farmaco-proteina è stato infine investigato in soluzione attraverso l’uso del dicroismo circolare. In particolare, è stato monitorata la variazione del segnale CD indotto di un complesso equimolare [HSA]/[bilirubina], a seguito dell’aggiunta di aliquote di ritonavir, scelto come rappresentante della serie. I risultati confermano la lieve anticooperatività per il sito della bilirubina osservato precedentemente negli studi biocromatografici. Successivamente, lo stesso protocollo descritto precedentemente è stato applicato a una colonna di silice epossidica monolitica 50 x 4.6 mm, per valutare l’affidabilità del supporto monolitico per applicazioni biocromatografiche. Il supporto monolitico monolitico ha mostrato buone caratteristiche cromatografiche in termini di contropressione, efficienza e stabilità, oltre che affidabilità nella determinazione dei parametri di legame alla HSA. Questa colonna è stata utilizzata per la determinazione della percentuale di legame alla HSA di una serie di poliamminochinoni sviluppati nell’ambito di una ricerca sulla malattia di Alzheimer. Tutti i composti hanno mostrato una percentuale di legame superiore al 95%. Inoltre, è stata osservata una correlazione tra percentuale di legame è caratteristiche della catena laterale (lunghezza e numero di gruppi amminici). Successivamente sono stati effettuati studi di competizione dei composti in esame tramite il dicroismo circolare in cui è stato evidenziato un effetto anticooperativo dei poliamminochinoni ai siti I e II, mentre rispetto al sito della bilirubina il legame si è dimostrato indipendente. Le conoscenze acquisite con il supporto monolitico precedentemente descritto, sono state applicate a una colonna di silice epossidica più corta (10 x 4.6 mm). Il metodo di determinazione della percentuale di legame utilizzato negli studi precedenti si basa su dati ottenuti con più esperimenti, quindi è necessario molto tempo prima di ottenere il dato finale. L’uso di una colonna più corta permette di ridurre i tempi di ritenzione degli analiti, per cui la determinazione della percentuale di legame alla HSA diventa molto più rapida. Si passa quindi da una analisi a medio rendimento a una analisi di screening ad alto rendimento (highthroughput- screening, HTS). Inoltre, la riduzione dei tempi di analisi, permette di evitare l’uso di soventi organici nella fase mobile. Dopo aver caratterizzato la colonna da 10 mm con lo stesso metodo precedentemente descritto per le altre colonne, sono stati iniettati una serie di standard variando il flusso della fase mobile, per valutare la possibilità di utilizzare flussi elevati. La colonna è stata quindi impiegata per stimare la percentuale di legame di una serie di molecole con differenti caratteristiche chimiche. Successivamente è stata valutata la possibilità di utilizzare una colonna così corta, anche per studi di competizione, ed è stata indagato il legame di una serie di composti al sito I. Infine è stata effettuata una valutazione della stabilità della colonna in seguito ad un uso estensivo. L’uso di supporti cromatografici funzionalizzati con albumine di diversa origine (ratto, cane, guinea pig, hamster, topo, coniglio), può essere proposto come applicazione futura di queste colonne HTS. Infatti, la possibilità di ottenere informazioni del legame dei farmaci in via di sviluppo alle diverse albumine, permetterebbe un migliore paragone tra i dati ottenuti tramite esperimenti in vitro e i dati ottenuti con esperimenti sull’animale, facilitando la successiva estrapolazione all’uomo, con la velocità di un metodo HTS. Inoltre, verrebbe ridotto anche il numero di animali utilizzati nelle sperimentazioni. Alcuni lavori presenti in letteratura dimostrano l’affidabilita di colonne funzionalizzate con albumine di diversa origine [11-13]: l’utilizzo di colonne più corte potrebbe aumentarne le applicazioni.
Resumo:
La presente ricerca si inquadra nell’ambito della risoluzione dei problemi legati alla chirurgia ossea, per la cura e la sostituzione di parti di osso in seguito a fratture, lesioni gravi, malformazioni e patologie quali osteoporosi, tumori, etc… Attualmente la progettazione di impianti per le sostituzioni/rigenerazioni ossee richiede che i materiali sviluppati siano in grado di “mimare” la composizione e la morfologia dei tessuti naturali, in modo da generare le specifiche interazioni chimiche esistenti nei tessuti dell’organismo con cui vengono a contatto e quindi di biointegrarsi e/o rigenerare l’osso mancante nel miglior modo possibile, in termini qualitativi e quantitativi. Per lo sviluppo di sostituti ossei porosi sono state sperimentate 2 tecnologie innovative: il freeze-casting ed il foaming. Gli impianti ceramici realizzati hanno presentano una dimensione dei pori ed un’interconnessione adeguata sia per l’abitazione cellulare che per la penetrazione dei fluidi fisiologici e la vascolarizzazione. In particolare l’elevata unidirezionalità nei campioni ottenuti mediante freeze-casting si presenta molto promettente poiché fornisce cammini guida che migliorano la vascolarizzazione dell’impianto e l’abitazione cellulare in tempi rapidi e nella parte più interna dello scaffold. D’altra parte, la tecnologia del foaming ha permesso l’ottenimento di materiali apatitici ad alta porosità multidimensionale ed interconnessa con proprietà meccaniche implementate rispetto a tipologie precedenti e, lavorabili dopo sinterizzazione mediante prototipazione rapida. Per questo motivo, questi materiali sono attualmente in corso di sperimentazione, con risultati preliminari adeguati promettenti per un’applicazione clinica, come sostituti ossei di condilo mandibolare, sito estremamente critico per gli sforzi meccanici presenti. È stata dimostrata la possibilità di utilizzare lo scaffold ceramico biomimetico con la duplice funzione di sostituto osseo bioattivo e sistema di rilascio in situ di ioni specifici e di antibiotico, in cui la cinetica di rilascio risulta fortemente dipendente dalle caratteristiche chimico-fisico morfologiche del dispositivo (solubilità, area di superficie specifica,…). Per simulare sempre di più la composizione del tessuto osseo e per indurre specifiche proprietà funzionali, è stata utilizzata la gelatina come fase proteica con cui rivestire/impregnare dispositivi porosi 3D a base di apatite, con cui miscelare direttamente la fase inorganica calcio-fosfatica e quindi realizzare materiali bio-ibridi in cui le due fasi contenenti siano intimamente interagenti. Inoltre al fine di ridurre gli innumerevoli problemi legati alle infezioni ossee alcuni dei materiali sviluppati sono stati quindi caricati con antibiotico e sono state valutate le cinetiche di rilascio. In questa maniera, nel sito dell’impianto sono state associate le funzioni di trasporto e di rilascio di farmaco, alla funzione di sostituzione/rigenerazione ossee. La sperimentazione con la gelatina ha messo in luce proprietà posatamente sfruttabili della stessa. Oltre a conferire allo scaffold un implementata mimesi composizionale del tessuto osseo, ha infatti consentito di aumentare le proprietà meccaniche, sia come resistenza a compressione che deformazione. Unitamente a quanto sopra, la gelatina ha consentito di modulare la funzionalità di dispensatore di farmaco; mediante controllo della cinetica di rilascio, tramite processi di reticolazione più o meno spinti.
Resumo:
A livello globale una delle problematiche più urgenti della sanità pubblica umana e veterinaria è rappresentata dal controllo delle infezioni virali. L’emergenza di nuove malattie, la veloce diffusione di patologie finora confinate ad alcune aree geografiche, lo sviluppo di resistenza dei patogeni alle terapie utilizzate e la mancanza di nuove molecole attive, sono gli aspetti che influiscono più negativamente livello socio-economico in tutto il mondo. Misure per limitare la diffusione delle infezioni virali prevedono strategie per prevenire e controllare le infezioni in soggetti a rischio . Lo scopo di questa tesi è stato quello di indagare il possibile utilizzo di prototipi virali utilizzati come modello di virus umani per valutare l’efficacia di due diversi metodi di controllo delle malattie virali: la rimozione mediante filtrazione di substrati liquidi e gli antivirali di sintesi e di origine naturale. Per quanto riguarda la rimozione di agenti virali da substrati liquidi, questa è considerata come requisito essenziale per garantire la sicurezza microbiologica non solo di acqua ad uso alimentare , ma anche dei prodotti utilizzati a scopo farmaceutico e medico. Le Autorità competenti quali WHO ed EMEA hanno redatto delle linee guida molto restrittive su qualità e sicurezza microbiologica dei prodotti biologici per garantire la rimozione di agenti virali che possono essere trasmessi con prodotti utilizzati a scopo terapeutico. Nell'industria biomedicale e farmaceutica c'è l'esigenza di una tecnologia che permetta la rimozione dei virus velocemente, in grande quantità, a costi contenuti, senza alterare le caratteristiche del prodotto finale . La collaborazione con l’azienda GVS (Zola Predosa, Italia) ha avuto come obiettivo lo studio di una tecnologia di filtrazione che permette la rimozione dei virus tramite membrane innovative e/o tessuti-non-tessuti funzionalizzati che sfruttano l’attrazione elettrostatica per ritenere ed asportare i virus contenuti in matrici liquide. Anche gli antivirali possono essere considerati validi mezzi per il controllo delle malattie infettive degli animali e nell’uomo quando la vaccinazione non è realizzabile come ad esempio in caso di scoppio improvviso di un focolaio o di un attacco bioterroristico. La scoperta degli antivirali è relativamente recente ed il loro utilizzo è attualmente limitato alla patologia umana, ma è in costante aumento l’interesse per questo gruppo di farmaci. Negli ultimi decenni si è evidenziata una crescente necessità di mettere a punto farmaci ad azione antivirale in grado di curare malattie ad alta letalità con elevato impatto socio-economico, per le quali non esiste ancora un’efficace profilassi vaccinale. Un interesse sempre maggiore viene rivolto agli animali e alle loro patologie spontanee, come modello di studio di analoghe malattie dell’uomo. L’utilizzo di farmaci ad azione antivirale in medicina veterinaria potrebbe contribuire a ridurre l’impatto economico delle malattie limitando, nel contempo, la disseminazione dei patogeni nell’ambiente e, di conseguenza, il rischio sanitario per altri animali e per l’uomo in caso di zoonosi. Le piante sono sempre state utilizzate dall’industria farmaceutica per l’isolamento dei composti attivi e circa il 40% dei farmaci moderni contengono principi d’origine naturale. Alla luce delle recenti emergenze sanitarie, i fitofarmaci sono stati considerati come una valida per migliorare la salute degli animali e la qualità dei prodotti da essi derivati. L’obiettivo del nostro studio è stato indagare l’attività antivirale in vitro di estratti naturali e di molecole di sintesi nei confronti di virus a RNA usando come prototipo il Canine Distemper Virus, modello di studio per virus a RNA a polarità negativa, filogeneticamente correlato al virus del morbillo umano. La scelta di questo virus è dipesa dal fatto che rispetto ai virus a DNA e ai retrovirus attualmente l’offerta di farmaci capaci di contrastare le infezioni da virus a RNA è molto limitata e legata a molecole datate con alti livelli di tossicità. Tra le infezioni emergenti causate da virus a RNA sono sicuramente da menzionare quelle provocate da arbovirus. Le encefaliti virali da arbovirus rappresentano una emergenza a livello globale ed attualmente non esiste una terapia specifica. Una delle molecole più promettenti in vitro per la terapia delle infezioni da arbovirus è la ribavirina (RBV) che, con il suo meccanismo d’azione pleiotropico, si presta ad essere ulteriormente studiata in vivo per la sua attività antivirale nei confronti delle infezioni da arbovirus. Uno dei fattori limitanti l’utilizzo in vivo di questa molecola è l’incapacità della molecola di oltrepassare la barriera emato-encefalica. Nel nostro studio abbiamo messo a punto una formulazione per la somministrazione endonasale di RBV e ne abbiamo indagato la diffusione dalla cavità nasale all’encefalo attraverso l’identificazione e quantificazione della molecola antivirale nei diversi comparti cerebrali . Infine è stato condotto un esperimento in vivo per valutare l’efficacia di un composto a base di semi di Neem, di cui sono già note le proprietà antimicrobiche, nei confronti dell’infezione da orf virus, una zoonosi a diffusione mondiale, che ha un elevato impatto economico in aree ad alta densità ovi-caprina e può provocare lesioni invalidanti anche nell’uomo.
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Lo scopo di questa tesi è quello di analizzare dapprima l’impatto ambientale di tali impianti e poi analizzare il contributo effettivo che oggi la tecnologia innovativa dei cicli Rankine organici può dare nella valorizzazione elettrica del calore di scarto di processi industriali, focalizzando l’obiettivo principalmente sulle turbine a gas ed eseguendo un caso di studio in un settore ancora poco esplorato da questa tecnologia, quello Oil&Gas. Dopo aver effettuato il censimento degli impianti a fonti fossili e rinnovabili, cogenerativi e non, presenti in Emilia-Romagna, è stato sviluppato un software chiamato MiniBref che permette di simulare il funzionamento di una qualsiasi centrale termoelettrica grazie alla possibilità di combinare la tecnologia dell’impianto con il tipo di combustibile consentendo la valutazione delle emissioni inquinanti ed i potenziali di inquinamento. Successivamente verranno illustrati gli ORC, partendo dalle caratteristiche impiantistiche e termodinamiche fino ad arrivare alla scelta del fluido organico, fondamentale per le performance del ciclo. Dopo aver effettuato una ricognizione dello stato dell’arte delle applicazioni industriali degli ORC nel recupero termico, verranno eseguite simulazioni numeriche per ricostruire gli ORC ed avere una panoramica il più completa ed attendibile delle prestazioni effettive di questi sistemi. In ultimo verranno illustrati i risultati di un caso di studio che vede l’adozione di recupero mediante ciclo organico in un’installazione esistente del settore Oil&Gas. Si effettuerà uno studio delle prestazione dell’impianto al variare delle pressioni massime e minime del ciclo ed al variare del fluido impiegato al fine di mostrare come questi parametri influenzino non solo le performance ma anche le caratteristiche impiantistiche da adottare. A conclusione del lavoro si riporteranno i risultati relativi all’analisi condotte considerando l’impianto ai carichi parziali ed in assetto cogenerativo.
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La demolizione idrolitica delle pareti cellulari delle piante tramite enzimi lignocellulosici è quindi uno degli approcci più studiati della valorizzazione di scarti agricoli per il recupero di fitochimici di valore come secondary chemical building block per la chimica industriale. White rot fungi come il Pleurotus ostreatus producono una vasta gamma di enzimi extracellulari che degradano substrati lignocellulosici complessi in sostanze solubili per essere utilizzati come nutrienti. In questo lavoro abbiamo studiato la produzione di diversi tipi di enzimi lignocellulosici quali cellulase, xilanase, pectinase, laccase, perossidase e arylesterase (caffeoilesterase e feruloilesterase), indotte dalla crescita di Pleurotus ostreatus in fermentazione allo stato solido (SSF) di sottoprodotti agroalimentari (graspi d’uva, vinaccioli, lolla di riso, paglia di grano e crusca di grano) come substrati. Negli ultimi anni, SSF ha ricevuto sempre più interesse da parte dei ricercatori, dal momento che diversi studi per produzioni di enzimi, aromi, coloranti e altre sostanze di interesse per l' industria alimentare hanno dimostrato che SSF può dare rendimenti più elevati o migliorare le caratteristiche del prodotto rispetto alla fermentazione sommersa. L’utilizzo dei sottoprodotti agroalimentari come substrati nei processi SSF, fornisce una via alternativa e di valore, alternativa a questi residui altrimenti sotto/o non utilizzati. L'efficienza del processo di fermentazione è stato ulteriormente studiato attraverso trattamenti meccanici di estrusione del substrato , in grado di promuovere il recupero dell’enzima e di aumentare l'attività prodotta. Le attività enzimatiche prodotte dalla fermentazione sono strettamente dipendente della rimozione periodica degli enzimi prodotti. Le diverse matrici vegetali utilizzate hanno presentato diversi fenomeni induttivi delle specifiche attività enzimatiche. I processi SSF hanno dimostrato una buona capacità di produrre enzimi extracellulari in grado di essere utilizzati successivamente nei processi idrolitici di bioraffinazione per la valorizzazione dei prodotti agroalimentari.
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Recent developments in piston engine technology have increased performance in a very significant way. Diesel turbocharged/turbo compound engines, fuelled by jet fuels, have great performances. The focal point of this thesis is the transformation of the FIAT 1900 jtd diesel common rail engine for the installation on general aviation aircrafts like the CESSNA 172. All considerations about the diesel engine are supported by the studies that have taken place in the laboratories of the II Faculty of Engineering in Forlì. This work, mostly experimental, concerns the transformation of the automotive FIAT 1900 jtd – 4 cylinders – turbocharged – diesel common rail into an aircraft engine. The design philosophy of the aluminium alloy basement of the spark ignition engine have been transferred to the diesel version while the pistons and the head of the FIAT 1900 jtd are kept in the aircraft engine. Different solutions have been examined in this work. A first V 90° cylinders version that can develop up to 300 CV and whose weight is 30 kg, without auxiliaries and turbocharging group. The second version is a development of e original version of the diesel 1900 cc engine with an optimized crankshaft, that employ a special steel, 300M, and that is verified for the aircraft requirements. Another version with an augmented stroke and with a total displacement of 2500 cc has been examined; the result is a 30% engine heavier. The last version proposed is a 1600 cc diesel engine that work at 5000 rpm, with a reduced stroke and capable of more than 200 CV; it was inspired to the Yamaha R1 motorcycle engine. The diesel aircraft engine design keeps the bore of 82 mm, while the stroke is reduced to 64.6 mm, so the engine size is reduced along with weight. The basement weight, in GD AlSi 9 MgMn alloy, is 8,5 kg. Crankshaft, rods and accessories have been redesigned to comply to aircraft standards. The result is that the overall size is increased of only the 8% when referred to the Yamaha engine spark ignition version, while the basement weight increases of 53 %, even if the bore of the diesel version is 11% lager. The original FIAT 1900 jtd piston has been slightly modified with the combustion chamber reworked to the compression ratio of 15:1. The material adopted for the piston is the aluminium alloy A390.0-T5 commonly used in the automotive field. The piston weight is 0,5 kg for the diesel engine. The crankshaft is verified to torsional vibrations according to the Lloyd register of shipping requirements. The 300M special steel crankshaft total weight is of 14,5 kg. The result reached is a very small and light engine that may be certified for general aviation: the engine weight, without the supercharger, air inlet assembly, auxiliary generators and high pressure body, is 44,7 kg and the total engine weight, with enlightened HP pump body and the titanium alloy turbocharger is less than 100 kg, the total displacement is 1365 cm3 and the estimated output power is 220 CV. The direct conversion of automotive piston engine to aircrafts pays too huge weight penalties. In fact the main aircraft requirement is to optimize the power to weight ratio in order to obtain compact and fast engines for aeronautical use: this 1600 common rail diesel engine version demonstrates that these results can be reached.
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Premessa: nell’aprile 2006, l’American Heart Association ha approvato la nuova definizione e classificazione delle cardiomiopatie (B. J. Maron e coll. 2006), riconoscendole come un eterogeneo gruppo di malattie associate a disfunzione meccanica e/o elettrica riconducibili ad un ampia variabilità di cause. La distinzione tra le varie forme si basa non più sui processi etiopatogenetici che ne sono alla base, ma sulla modalità di presentazione clinica della malattia. Si distinguono così le forme primarie, a prevalente od esclusivo interessamento cardiaco, dalle forme secondarie in cui la cardiomiopatia rientra nell’ambito di un disordine sistemico dove sono evidenziabili anche disturbi extracardiaci. La nostra attenzione è, nel presente studio, focalizzata sull’analisi delle cardiomiopatie diagnosticate nei primi anni di vita in cui si registra una più alta incidenza di forme secondarie rispetto all’adulto, riservando un particolare riguardo verso quelle forme associate a disordini metabolici. Nello specifico, il nostro obiettivo è quello di sottolineare l’influenza di una diagnosi precoce sull’evoluzione della malattia. Materiali e metodi: abbiamo eseguito uno studio descrittivo in base ad un’analisi retrospettiva di tutti i pazienti giunti all’osservazione del Centro di Cardiologia e Cardiochirurgia Pediatrica e dell’ Età Evolutiva del Policlinico S. Orsola- Malpighi di Bologna, dal 1990 al 2006, con diagnosi di cardiomiopatia riscontrata nei primi due anni di vita. Complessivamente sono stati studiati 40 pazienti di cui 20 con cardiomiopatia ipertrofica, 18 con cardiomiopatia dilatativa e 2 con cardiomiopatia restrittiva con un’età media alla diagnosi di 4,5 mesi (range:0-24 mesi). Per i pazienti descritti a partire dal 2002, 23 in totale, sono state eseguite le seguenti indagini metaboliche: emogasanalisi, dosaggio della carnitina, metabolismo degli acidi grassi liberi (pre e post pasto), aminoacidemia quantitativa (pre e post pasto), acidi organici, mucopolisaccaridi ed oligosaccaridi urinari, acilcarnitine. Gli stessi pazienti sono stati inoltre sottoposti a prelievo bioptico di muscolo scheletrico per l’analisi ultrastrutturale, e per l’analisi dell’attività enzimatica della catena respiratoria mitocondriale. Nella stessa seduta veniva effettuata la biopsia cutanea per l’eventuale valutazione di deficit enzimatici nei fibroblasti. Risultati: l’età media alla diagnosi era di 132 giorni (range: 0-540 giorni) per le cardiomiopatie ipertrofiche, 90 giorni per le dilatative (range: 0-210 giorni) mentre le 2 bambine con cardiomiopatia restrittiva avevano 18 e 24 mesi al momento della diagnosi. Le indagini metaboliche eseguite sui 23 pazienti ci hanno permesso di individuare 5 bambini con malattia metabolica (di cui 2 deficit severi della catena respiratoria mitocondriale, 1 con insufficienza della β- ossidazione per alterazione delle acilcarnitine , 1 con sindrome di Barth e 1 con malattia di Pompe) e un caso di cardiomiopatia dilatativa associata a rachitismo carenziale. Di questi, 4 sono deceduti e uno è stato perduto al follow-up mentre la forma associata a rachitismo ha mostrato un netto miglioramento della funzionalità cardiaca dopo appropriata terapia con vitamina D e calcio. In tutti la malattia era stata diagnosticata entro l’anno di vita. Ciò concorda con gli studi documentati in letteratura che associano le malattie metaboliche ad un esordio precoce e ad una prognosi infausta. Da un punto di vista morfologico, un’evoluzione severa si associava alla forma dilatativa, ed in particolare a quella con aspetto non compaction del ventricolo sinistro, rispetto alla ipertrofica e, tra le ipertrofiche, alle forme con ostruzione all’efflusso ventricolare. Conclusioni: in accordo con quanto riscontrato in letteratura, abbiamo visto come le cardiomiopatie associate a forme secondarie, ed in particolare a disordini metabolici, sono di più frequente riscontro nella prima infanzia rispetto alle età successive e, per questo, l’esordio molto precoce di una cardiomiopatia deve essere sempre sospettata come l’espressione di una malattia sistemica. Abbiamo osservato, inoltre, una stretta correlazione tra l’età del bambino alla diagnosi e l’evoluzione della cardiomiopatia, registrando un peggioramento della prognosi in funzione della precocità della manifestazione clinica. In particolare la diagnosi eseguita in epoca prenatale si associava, nella maggior parte dei casi, ad un’evoluzione severa, comportandosi come una variabile indipendente da altri fattori prognostici. Riteniamo, quindi, opportuno sottoporre tutti i bambini con diagnosi di cardiomiopatia effettuata nei primi anni di vita ad uno screening metabolico completo volto ad individuare quelle forme per le quali sia possibile intraprendere una terapia specifica o, al contrario, escludere disordini che possano controindicare, o meno, l’esecuzione di un trapianto cardiaco qualora se ne presenti la necessità clinica.
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Oggetto di studio del dottorato sono stati i suoli forestali in ambiente litoraneo della Regione Emilia-Romagna. In particolare sono state considerate quattro zone di studio in Provincia di Ravenna: Pineta di San Vitale, aree boscate di Bellocchio, Pineta di Classe e Pineta di Pinarella di Cervia. Lo studio in una prima fase si è articolato nella definizione dello stato del sistema suolo, mediante la caratterizzazione pedologica delle zone di studio. A tale scopo è stata messa a punto un’adeguata metodologia d’indagine costituita da un’indagine ambientale e successivamente da un’indagine pedologica. L’indagine ambientale, mediante fotointerpretazione ed elaborazione di livelli informativi in ambito GIS, ha permesso di individuare ambiti pedogenetici omogenei. L’indagine pedologica in campo ha messo in luce l’elevata variabilità spaziale di alcuni fattori della pedogenesi, in particolar modo l’andamento microtopografico tipico dei sistemi dunali costieri e la profondità della falda freatica del piano campagna. Complessivamente sono stati aperti descritti e campionati 40 profili pedologici. Sugli orizzonti diagnostici di questi sono state eseguite le seguenti analisi: tessitura, pH, calcare totale, carbonio organico, azoto kjeldahl, conduttività elettrica (CE), capacità di scambio cationico (CSC) e calcare attivo. I suoli presentano, ad eccezione della tessitura (generalmente grossolana), un’elevata variabilità delle proprietà chimico fisiche in funzione della morfologia, della profondità e della vicinanza della falda freatica. Sono state riscontrate diverse correlazioni, tra le più significative quelle tra carbonio organico e calcare totale (coeff. di correlazione R = -0.805 per Pineta di Classe) e tra calcare totale e pH (R = 0.736), dalle quali si è compreso in che misura l’effetto della decarbonatazione agisce nei diversi ambiti pedogenetici e tra suoli con diversa età di formazione. Il calcare totale varia da 0 a oltre 400 g.kg-1 e aumenta dalla superficie in profondità, dall’entroterra verso la costa e da nord verso sud. Il carbonio organico, estremamente variabile (0.1 - 107 g.kg-1), è concentrato soprattutto nel primo orizzonte superficiale. Il rapporto C/N (>10 in superficie e molto variabile in profondità) evidenzia una efficienza di umificazione non sempre ottimale specialmente negli orizzonti prossimi alla falda freatica. I tipi di suoli presenti, classificati secondo la Soil Taxonomy, sono risultati essere Mollic/Sodic/Typic Psammaquents nelle zone interdunali, Typic Ustipsamments sulle sommità dunali e Oxiaquic/Aquic Ustipsamments negli ambienti morfologici intermedi. Come sintesi della caratterizzazione pedologica sono state prodotte due carte dei suoli, rispettivamente per Pineta di San Vitale (scala 1:20000) e per le aree boscate di Bellocchio (scala 1:10000), rappresentanti la distribuzione dei pedotipi osservati. In una seconda fase si è focalizzata l’attenzione sugli impatti che le principali pressioni naturali ed antropiche, possono esercitare sul suolo, condizionandone la qualità in virtù delle esigenze del soprasuolo forestale. Si è scelta la zona sud di Pineta San Vitale come area campione per monitorarne mensilmente, su quattro siti rappresentativi, le principali caratteristiche chimico-fisiche dei suoli e delle acque di falda, onde evidenziare possibili correlazioni. Le principali determinazioni svolte sia nel suolo in pasta satura che nelle acque di falda hanno riguardato CE, Ca2+, Mg2+, K+, Na+, Cl-, SO4 2-, HCO3 - e SAR (Sodium Adsorption Ratio). Per ogni sito indagato sono emersi andamenti diversi dei vari parametri lungo i profili, correlabili in diversa misura tra di loro. Si sono osservati forti trend di aumento di CE e degli ioni solubili verso gli orizzonti profondi in profili con acqua di falda più salina (19 – 28 dS.m-1) e profonda (1 – 1.6 m dalla superficie), mentre molto significativi sono apparsi gli accumuli di sali in superficie nei mesi estivi (CE in pasta satura da 17.6 a 28.2 dS.m-1) nei profili con falda a meno di 50 cm dalla superficie. Si è messo successivamente in relazione la CE nel suolo con diversi parametri ambientali più facilmente monitorabili quali profondità e CE di falda, temperatura e precipitazioni, onde trovarne una relazione statistica. Dai dati di tre dei quattro siti monitorati è stato possibile definire tali relazioni con equazioni di regressione lineare a più variabili. Si è cercato poi di estendere l’estrapolabilità della CE del suolo per tutte le altre casistiche possibili di Pineta San Vitale mediante la formulazione di un modello empirico. I dati relativi alla CE nel suolo sia reali che estrapolati dal modello, sono stati messi in relazione con le esigenze di alcune specie forestali presenti nelle zone di studio e con diverso grado di tolleranza alla salinità ed al livello di umidità nel suolo. Da tali confronti è emerso che per alcune specie moderatamente tolleranti la salinità (Pinus pinea, Pinus pinaster e Juniperus communis) le condizioni critiche allo sviluppo e alla sopravvivenza sono da ricondursi, per la maggior parte dei casi, alla falda non abbastanza profonda e non tanto alla salinità che essa trasmette sull’intero profilo del suolo. Per altre specie quali Quercus robur, Populus alba, Fraxinus oxycarpa e Ulmus minor moderatamente sensibili alla salinità, ma abituate a vivere in suoli più umidi, la salinità di una falda troppo prossima alla superficie può ripercuotersi su tutto il profilo e generare condizioni critiche di sviluppo. Nei suoli di Pineta San Vitale sono stati inoltre studiati gli aspetti relativi all’inquinamento da accumulo di alcuni microtossici nei suoli quali Ag, Cd, Ni e Pb. In alcuni punti di rilievo sono stati osservati moderati fattori di arricchimento superficiale per Pb e Cd riconducibili all’attività antropica, mentre le aliquote biodisponibili risultano maggiori in superficie, ma all’interno dei valori medi dei suoli italiani. Lo studio svolto ha permesso di meglio conoscere gli impatti sul suolo, causati dalle principali pressioni esistenti, in un contesto dinamico. In particolare, si è constatato come i suoli delle zone studiate abbiano un effetto tampone piuttosto ridotto sulla mitigazione degli effetti indotti dalle pressioni esterne prese in esame (salinizzazione, sodicizzazione e innalzamento della falda freatica). Questo è dovuto principalmente alla ridotta presenza di scambiatori sulla matrice solida atti a mantenere un equilibrio dinamico con le frazioni solubili. Infine le variabili ambientali considerate sono state inserite in un modello concettuale DPSIR (Driving forces, Pressures, States, Impacts, Responces) dove sono stati prospettati, in via qualitativa, alcuni scenari in funzione di possibili risposte gestionali verosimilmente attuabili, al fine di modificare le pressioni che insistono sul sistema suolo-vegetazione delle pinete ravennati.