11 resultados para Pompeya, Italia, Basilica pontificia del santicimo Rosario

em Université de Lausanne, Switzerland


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Ce travail n'a pas pour but d'établir une histoire du choeur tragique pour ainsi dire 'd'anthologie', mais bien plutôt de tracer un parcours sélectif et dynamique, en suivant l'évolution de ses formes et de ses fonctions dans la tragédie italienne, à partir du début du XVIe siècle jusqu' à la production alfiérienne et au retour du choeur dans le théâtre de Manzoni ; à cela s'ajoute un exercice en dehors du genre dramatique tel que le Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie dans les Operette morali di Giacomo Leopardi. Dans la première partie - la plus ample et complexe, portant sur l'emploi du choeur dans la tragédie de la Renaissance - on essaye de cerner le contexte qui favorise la persistance d'un espace choral en examinant plusieurs commentaires de la Poétique aristotélicienne, et des essais de théorie dramaturgique comme Della poesia rappresentativa de Angelo Ingegneri, ou le Discorso intorno al comporre de Giambattista Giraldi Cinzio. À côté de la discussion sur le rôle du choeur on envisage aussi le profil formel des sections chorales, en s'appuyant sur l'analyse métrique, dans le cadre plus général du 'petrarchismo metrico', et en particulier de la réception de la chanson pétrarquesque. Interroger la présence de trois constantes thématiques - par exemple la forme de l'hymne à Éros - signifie en suite relever l'importance de Sophocle pour le théâtre de la Renaissance dans la perspective du choeur. Cette première section est complétée par un chapitre entièrement consacré à Torquato Tasso et à son Re Torrismondo, qui présente un troisième chant choral de grande épaisseur philosophique, central dans l'économie du drame et analysé ici à travers un exercice de lecture qui utilise à la fois les instruments de la stylistique, de l'intertextualité, et de l'intratextualité concernant l'entier corpus poétique et philosophique tassien, de ses Rime aux Dialoghi. La deuxième section, qui commence par une exploration théorique de la question du choeur, conduite par exemple sur les textes de Paolo Beni e Tommaso Campanella, a pour cible principale de expliquer comment le choeur assume le rôle d'un vrai 'personnage collectif' dans le théâtre de Federico Della Valle : un choeur bien installé dans l'action tragique, mais conservant au même temps les qualités lyriques et philosophiques d'un chant riche de mémoire culturelle et intertextuelle, de la Phaedra de Sénèque à la Commedia dantesque dans la Reina di Scozia, centre principal de l'analyse et coeur du catholicisme contreréformiste dellavallien. Dans la troisième partie le discours se concentre sur les formes de la métamorphose, pour ainsi dire, du choeur : par exemple la figure du confident, conçu comme un substitut du groupe choral dans les discussions des théoriciens et des auteurs français - voir Corneille, D'Aubignac, Dacier - et italiens, de Riccoboni à Calepio et Maffei. Cependant dans cette section il est surtout question de la définition de l'aria mélodramatique compris comme le 'nouveau choeur' des Modernes, formulée par Ranieri Calzabigi et par Metastasio. Il s'agit donc ici de mettre en relation l'élaboration théorique contenue dans la Dissertazione de Calzabigi et dans l'Estratto de l'Arte poetica de Metastasio avec le premier et unique essai tragique de jeunesse de ce dernier, le Giustino, et le livret de son Artaserse. On essaye de montrer le profond lien entre l'aria et l'action dramatique : donc c'est le dramma musicale qui est capable d'accueillir la seule forme de choeur - l'aria - encore possible dans le théâtre moderne, tandis que le choeur proprement tragique est désormais considéré inutilisable et pour ainsi dire hors-contexte (sans toutefois oublier qu'à la fin du siècle Vittorio Alfieri essayait de ne pas renoncer au choeur dans sa traduction des Perses d'Eschyle ; et surtout dans un essai tragique comme l'Alceste seconda ou dans sa tramelogedia, l'Abele). Comme conclusion une section contenant des remarques qui voudrait juste indiquer trois possibles directions de recherche ultérieure : une comparaison entre Manzoni et Leopardi - dans la perspective de leur intérêt pour le choeur et de la différence entre le sujet lyrique manzonien et celui léopardien ; une incursion dans le livret du mélodrame verdien, afin de comprendre la fonction du choeur manzonien et sa persistance dans le texte pour l'opéra ; et enfin quelque note sur la réception du choeur manzonien et du Coro di morti léopardien dans le XXe siècle, en assumant comme point d'observation la poésie de Carlo Michelstaedter, Andrea Zanzotto et Franco Fortini. Il lavoro non intende tracciare una storia 'da manuale' del coro tragico, ma piuttosto indicare un percorso selettivo e dinamico, seguendo l'evoluzione delle sue forme e delle sue funzioni nella tragedia italiana, a partire dall'inizio del sedicesimo secolo per arrivare alla produzione alfieriana e al ritorno del coro nel teatro di Manzoni; a ciò si aggiunge una prova estranea al genere drammatico come il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie nelle Operette morali di Giacomo Leopardi. Nella prima parte - la più ampia e complessa, riguardante l'impiego del coro nella tragedia rinascimentale - si cerca di ricostruire il contesto che favorisce la persistenza dello spazio corale attraverso l'esame di diversi commenti alla Poetica aristotelica, e di alcuni saggi di teoria drammaturgica come Della poesia rappresentativa di Angelo Ingegneri, o il Discorso intorno al comporre di Giambattista Giraldi Cinzio. La discussione sul ruolo del coro è affiancata dall'esame del profilo formale delle sezioni corali, grazie a un'indagine metrica nel quadro del più ampio petrarchismo metrico cinquecentesco, e in particolare nel quadro della ricezione della formacanzone petrarchesca. Interrogare la presenza di tre costanti tematiche - per esempio la forma dell'inno a Eros - significherà in seguito rilevare l'importanza di Sofocle per il teatro rinascimentale anche nella prospettiva angolata del coro. Questa prima sezione è completata da un capitolo interamente dedicato a Torquato Tasso e al suo Re Torrismondo, che presenta un terzo canto corale di grande spessore stilistico e filosofico, centrale nell'economia del dramma e analizzato qui attraverso un esercizio di lettura che si serve degli strumenti della stilistica e dell'intertestualità, oltre che del rapporto intratestuale fra i vari luoghi del corpus tassiano, dalle Rime ai suoi Dialoghi. La seconda sezione, che si avvia con un'esplorazione teorica della questione del coro nel Seicento - condotta per esempio sui testi di Paolo Beni e Tommaso Campanella - ha per fulcro la descrizione di un coro quale 'personaggio collettivo' nelle tragedie di Federico Della Valle: un coro ben inserito nell'azione tragica, ma che conserva allo stesso tempo le qualità liriche e filosofiche di un canto ricco di memoria culturale e intertestuale, dalla Fedra di Seneca alla Commedia dantesca, nella sua Reina di Scozia, centro dell'analisi e cardine del cattolicesimo controriformista dellavalliano. Nella terza sezione il discorso si concentra sulle forme della metamorfosi, per così dire, del coro: per esempio la figura del confidente, interpretato come un sostituto del gruppo corale nelle discussioni di teorici e autori francesi - Corneille, D'Aubignac, Dacier - e italiani, da Riccoboni a Calepio e Maffei. Ma qui ci si rivolge anzitutto alla definizione dell'aria melodrammatica, sentita quale 'nuovo coro' dei Moderni da Ranieri Calzabigi e Pietro Metastasio. Si tratterà dunque di mettere in relazione l'elaborazione teorica svolta nella Dissertazione di Calzabigi e nell'Estratto dell'arte poetica di Metastasio con il primo e unico - e giovanile - tentativo tragico di quest'ultimo, il Giustino, e con il libretto del suo Artaserse. L'intenzione è quella di mostrare il profondo legame tra l'aria e l'azione drammatica: è perciò il dramma musicale che è capace di accogliere la sola forma di coro - l'aria - ancora possibile nel teatro moderno, mentre il vero e proprio coro tragico si rassegna ormai a essere considerato inutile e per così dire fuori contesto (senza dimenticare, tuttavia, che al chiudersi del secolo Vittorio Alfieri tentava di non rinunciare al coro nella sua traduzione dei Persiani di Eschilo; e soprattutto in un tentativo tragico come la sua Alceste seconda o nella tramelogedia Abele). In conclusione una più veloce sezione che vorrebbe semplicemente indicare qualche altra possibile direzione di ricerca: un confronto fra Manzoni e Leopardi - nella prospettiva del coro interesse per il coro, e della differenza fra il soggetto lirico manzoniano e quello leopardiano; un'incursione nel libretto del melodramma verdiano, per misurarvi la funzione del coro manzoniano e la sua persistenza nel testo operistico; e infine qualche appunto sulla ricezione del coro manzoniano e del Coro di morti di Leopardi nel Novecento, assumendo quale punto d'osservazione la poesia di Carlo Michelstaedter, Andrea Zanzotto e Franco Fortini.

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Nella mia tesi di dottorato mi concentro sul poema di Lucrezia Marinelli, L'Enrico, ovvero Bisanzio acquistato, pubblicato a Venezia nel 1635, indagando le strategie messe in atto dall'autrice per rivisitare il genere epico in un'ottica di riscatto femminile. Rispetto al canone epico e, in particolare, al modello di riferimento - la Gerusalemme liberata del Tasso - le vicende nodali sono, infatti, riscritte da un punto di vista chiaramente femminile. Pur occupandomi principalmente dell'opera di Marinelli, in alcuni casi nel corso del mio lavoro propongo dei confronti con altri poemi epici e cavallereschi prodotti da donne - in particolare I tredici canti del Floridoro di Moderata Fonte (1581) - volti a mostrare come le scrittrici avessero degli intenti comuni, dialogando in maniera critica con i modelli maschili da cui, tuttavia, traggono ispirazione. Nei primi capitoli del mio lavoro prendo in esame alcuni personaggi tradizionali dell'epica (le guerriere, la maga, ...) presenti ne L'Enrico e ne ripercorro gli episodi topici (le sortite notturne, l'eroe sull'isola, ...) dimostrando come, pur inserendosi coerentemente nel genere epico, siano caratterizzati in modo sostanzialmente diverso rispetto alla precedente tradizione maschile. Il primo capitolo si concentra sulle figure di guerriere, le quali presentano - rispetto ai precedenti modelli - differenze notevoli: non si lasciano coinvolgere in vicende amorose e non finiscono per essere sottomesse o uccise da un uomo, mantenendo così coerentemente intatti i valori di forza e indipendenza. Neppure la maga sull'isola - presa in esame nel capitolo dedicato alle Altre figure di donne idealizzate - è coinvolta in vicende sentimentali o caratterizzata sensualmente. L'autrice la rappresenta, non alla stregua di una tentatrice al servizio delle forze del male, ma come una donna colta, casta e disposta ad aiutare il cavaliere naufragato sulla sua isola. Nello stesso capitolo sono indagate anche altre figure femminili idealizzate, per taluni aspetti meno innovative, ma ugualmente interessanti: la Vergine, la personificazione di Venezia e la Musa. Queste rappresentazioni dal carattere iconico, presentano, infatti, diverse caratteristiche in comune con i personaggi più attivi del poema, le guerriere e la maga. Il capitolo Delle pene e delle tragedie amorose è dedicato all'amore e ai suoi esiti tragici. Le figure di donna coinvolte sono le madri, le mogli e Idillia, in cui è riconoscibile il personaggio topico della "damigella in difficoltà". Queste protagoniste, destinate a soffrire perché abbandonate dall'uomo che amano - il quale sente più forte il richiamo della guerra rispetto a quello dell'amore - servono da exempla, dimostrando che attaccamento affettivo e dipendenza conducono inesorabilmente all'infelicità. Rispetto al canone epico Marinelli riscatta alcune figure femminili, permettendo alle sue guerriere di prendersi la rivincita, vendicando la morte di eroine quali Camilla e Clorinda. Conseguentemente, alcuni guerrieri sono destinati a morire per mano di una donna. Nel quarto capitolo, mi concentro proprio su La sconfitta degli eroi, mettendo in luce come l'autrice proponga una sua personale regola del contrappasso, volta a cambiare (e addirittura invertire) le sorti dei personaggi che animano il suo poema. Questi aspetti risultano essere ancora più significativi se confrontati con l'opera - data alle stampe per la prima volta nel 1600 - intitolata Nobiltà et eccellenza delle donne. In questo trattato Marinelli sosteneva la superiorità del genere femminile su quello maschile. Alcune delle posizioni assunte nello scritto giovanile sono confermate dai personaggi e dalle vicende che animano l'Enrico. Confronti puntuali fra trattato e poema epico sono effettuati nell'ultimo capitolo del mio lavoro, sottolineando come fra le due opere vi siano delle affinità volte a confermare l'eccellenza delle donne.

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Cette thèse de doctorat a comme sujet la poésie dialectale contemporaine du Nord de l'Italie. Il s'agit d'une étude métrique de poésies écrites dans divers dialectes sélectionnés sur la base d'un système linguistique unitaire tel que le galloitalico que l'on trouve au Piémont, en Lombardie, en Ligurie et en Emilie-Romagne. Plus précisément, le corpus soumis à examen prend en considération les formes poétiques qui, au cours de la deuxième moitié du XXème siècle, confèrent au vers libre une certaine régularité comme les structures « simples » presque archétypiques des quatrains, des huitains et de toutes les formes métriques qui optent pour une strophe unique avec un nombre de vers multiple de quatre. Ces dernières sont particulièrement intéressantes car elles peuvent cacher une structure en quatrain souvent dévoilée par la disposition des rimes, de la syntaxe et parfois également du rythme. Ces choix qui pourraient sembler arbitraires sont en réalité liés aux tentatives des poètes de reprendre des formes de la tradition pour les innover ou simplement pour les reproposer avec ou sans modification. Les liens avec la tradition et la notion de libertà nella chiusura ont été étudiés en fonction des composantes fondamentales de l'organisme métrique, c'est-à-dire la forme, les rimes, la syllabation et le rythme. Pour citer Raboni, il s'agit de comprendre la manière dont "la dissonanza può essere usata per «salvare» l'ipotesi tonale" et la manière dont "la trasgressione metrica finisce col prolungare la vita della regola alla quale, derivandone, si oppone" (Giovanni RABONI, L'opera poetica, a cura di Rodolfo Zucco, Milano, Mondadori, i Meridiani, 2006, p.403). L'objectif de cette recherche est donc d'explorer et d'expliquer l'ambiguïté métrique de la poésie dialectale du XXème siècle tout en se référant à un article fondamental pour ce genre d'étude écrit par Pier Vincenzo Mengaldo et intitulé Questioni metriche novecentesche. L'ambition de cette thèse ne se limite pas à prolonger une réflexion encore à ses débuts dans le cas de la poésie régionale contemporaine, mais elle réalise également un panorama essentiel, bien que sommaire, qui met au premier plan les aspects innovateurs, et parfois conservateurs de la poésie dialectale contemporaine de certaines régions du Nord de l'Italie.

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Résumé La ricerca del dibattito sul restauro nella Firenze del Novecento copre un arco temporale piuttosto lungo, che va dall'istituzione del Gabinetto dei restauri fiorentino, avvenuta tra il 1932 e il 1934 sino al 1966, anno della drammatica alluvione che travolse il patrimonio storico e artistico della città di Firenze. Sono più di trent'anni densi di storia, in cui grazie alla tradizionale vocazione artigiana messa in atto di volta in volta attraverso metodiche sperimentali, il Gabinetto dei restauri fiorentino, organizzato da Ugo Procacci affrontò dapprima l'emergenza bellica e, grazie alle esperienze maturate in quella circostanza, fronteggiò i danni provocati alle opere d'arte alluvionate. Lo scopo della ricerca è stato proprio quello di individuare gli aspetti ancora attuali del dibattito sul restauro e sulla conservazione. Filo conduttore è stato il dibattito sull'unificazione dei princìpi del restauro in Italia e quindi, dei suoi riflessi a Firenze. Nella prima parte della ricerca, trattando degli inizi dell'attività del Gabinetto dei restauri di Firenze era inevitabile studiare i riflessi che la creazione dell'Istituto Centrale del Restauro ha avuto sull'ambiente fiorentino. L'incombere della seconda guerra mondiale ebbe un peso determinante nell'accelerare i tempi di attuazione di un simile progetto: si temeva fortemente per le sorti del patrimonio artistico italiano e alle Soprintendenze sarebbe spettato il compito di mettere in salvo il maggior numero possibile di opere d'arte nei rifugi antiaerei e, successivamente, provvedere al restauro delle opere danneggiate: la questione dell'unificazione dei metodi da seguire nel campo del restauro e della conservazione delle opere d'arte era divenuta argomento di urgente attualità a guerra conclusa, soprattutto in vista del recupero delle opere danneggiate, Nella seconda parte del lavoro, trattando gli aspetti più attuali e quindi problematici della storia del restauro fiorentino, in particolare riferiti all'arco cronologico che va dalla metà degli anni Cinquanta sino alla fine degli anni Sessanta, è risultato di estremo interesse analizzare le cause e gli effetti della nota "stagione degli stacchi" e quindi l'avvio del dibattito sulla conservazione preventiva delle pitture murali esposte all'aperto. La questione relativa alla conservazione delle pitture murali esposte all'aperto, nei chiostri e nei tabernacoli, rappresentò il caso paradigmatico attorno al quale l'interesse e le soluzioni adottate per la salvaguardia dei cicli pittorici trovarono gli studiosi e i teorici del restauro italiani e stranieri per un'unica volta tutti concordi nell'avvalersi della prassi sistematica preventiva dello strappo delle pitture murali e del distacco delle sottostanti sinopie. Fu dunque questa l'unica occasione in cui si assistette ad una vera unificazione di intenti a livello nazionale.

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La tesi descrive il fenomeno di ricezione del mito faustiano all'interno della tradizione letteraria italiana di Otto e Novecento (1808-1945) nel suo sviluppo diacronico, individuando i nodi processuali emergenti ritenuti sistematici accanto alle tipologie predominanti della risposta testuale e alle più proficue rifunzionalizzazioni letterarie. La storia del mito di Faust è stata considerata aristotelicamente nella sua natura complessa ed evolutiva di fabula rinarrata, e di volta in volta risemantizzata in nuovi sistemi di valori, estetici e ideologici. Ma soprattutto in nuovi sistemi testuali. Scopo primario è stato infatti quello di comprendere come il mito di Faust sia entrato dentro alla cultura letteraria italiana e come abbia agito al suo interno, interferendo con essa. Naturalmente lo scambio e gli sviluppi hanno investito in modo reciproco e la tradizione accogliente e il mito stesso, producendo un allargamento esegetico delle sue possibilità semantiche: è infatti emersa una storia testuale che tematizza nel tempo il medesimo mito lungo assi interpretative anche estremamente divergenti. La ricerca ha portato alla scoperta di una ricca testualità rimossa dal canone della storia della letteratura italiana, anche se spesso prevalgono i testi-documento sui testi esteticamente più validi e significativi in sé; si tratta di una testualità talmente quantitativamente ricca da invitare ad un ripensamento qualitativo del fenomeno generale. Il mito di Faust, per due secoli percepito dalla critica dominante come distante ed estraneo alla cultura letteraria italiana, è invece riuscito ad entrare nella tradizione letteraria italiana, anche se attraverso modalità molto controverse: in linea di massima è potuto passare dal canone statico al canone dinamico laddove ha saputo influenzare e stimolare nuove vie significative di sviluppo formale. Il confronto della cultura letteraria italiana con il mito di Faust è stato in effetti caratterizzato subito da un doppio movimento discratico di rifiuto e dialogo. Il principale fattore di rifiuto è stato di carattere culturale: la difficoltà ad accettare un equilibrio fatto non di antitesi risolte in una sintesi ma di polarità aperte, irrisolte, in perpetuo bilanciamento, anche a livello formale reso in una tragedia franta in scene apparentemente autonome, divisa in due parti così diverse e chiusa da un lieto fine, mal si confaceva ai diffusi canoni classicisti di equilibrio formale, nonché alle esigenze romantiche di poesia moralmente chiara nel suo messaggio. Da qui le diffuse accuse di scarsa chiarezza e ambiguità morale, che andavano direttamente ad incontrarsi e sommarsi con i pregiudizi più propriamente teologico- religiosi di estraneità a quel mito nato come saga luterana dichiaratamente anti-papale. La condanna di carattere moralistico-cattolico risulta nei fatti propria più di certa cultura che non del largo pubblico che invece nel corso dell'Ottocento dimostra di gradire le versioni per musica e balletto di argomento faustiano, per quanto semplificata ed edulcorate rispetto alla leggenda originaria così come rispetto alla tragedia goethiana. Rispetto a tutti questi elementi di resistenza e rifiuto l'opera Mefistofele di Boito si presenta come snodo di opposizione consapevole e riferimento duraturo d'interrogazione critica. La principale linea di avvicinamento invece tra la cultura letteraria italiana e il mito di Faust resta quella del parallelo, già ideato dagli stessi intellettuali tedeschi d'inizio Ottocento, con l'opera ritenuta massima nel nuovo canone nazionale italiano da fine Settecento ad oggi: la Divina Commedia. Tanta critica, almeno fino alla metà del XX secolo, si rifà più o meno esplicitamente a questo parallelo pregiudiziale e testualmente piuttosto infondato ma molto produttivo, come si è attestato, a livello creativo. Questa ricostruzione ha voluto nel suo complesso dimostrare sul campo il valore di questo macrotesto faustiano come una delle vie maestre della dialettica tra tradizione e modernità, ancor più significativa nell'ambito di una cultura letteraria come quella italiana che, dopo l'estinguersi della sua centralità in epoca rinascimentale, si è rivelata particolarmente resistente al dialogo con le altre letterature fino al pieno Novecento.