17 resultados para GETTIER, EDMUND L., 1927- - CRITICA E INTERPRETACIÓN

em Université de Lausanne, Switzerland


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Résumé II lavoro verte sui volgarizzamenti quattro-cinquecenteschi di Luciano di Samosata, importante capitolo nella fortuna dell'autore greco, che diede l'avvio a quel vasto fenomeno chiamato "lucianesimo", esteso in Europa fino al XIX sec. In particolare fornisco l'edizione critica e commentata delle Storie vere volgarizzate, contenute nella prima, assai ampia (41 opuscoli), e per molto tempo unica, silloge lucianea in volgare, che ho datato a poco prima del 1480. Essa ci è giunta tramite un unico manoscritto, il Vaticano Chigiano L.VI.215, confezionato a Ferrara per Ercole I d'Este, nonché in almeno otto edizioni veneziane apparse fra il 1525 e il 1551. La princeps, da cui dipendono in vario modo tutte le edizioni successive, è pubblicata da Niccolò Zoppino. I1 ms. e le prime due edizioni (1525; 1527 Bindoni e Pasini) tacciono il nome del traduttore, che compare solo nell'edizione del 1529 (Zoppino): Niccolò Leoniceno (1428-1524), medico umanista e valente grecista, attivo a Ferrara dal 1464 al 1524, studioso e traduttore di Ippocrate e Galeno, editore di Aristotele e volgarizzatore di storici per Ercole d'Este. L'edizione ha richiesto uno studio preliminare sulle numerose traduzioni in latino e in volgare di Luciano, per valutare meglio le modalità della sua fortuna umanistica. Confrontando ms. e stampe, per le Storie vere si hanno due volgarizzamenti totalmente diversi, fin dal titolo: La vera historia nel ms., Le vere narrazioni nelle cinquecentine. Ma per l'ultimo quarto di testo, ms. e stampe in sostanza coincidono. La collazione ha coinvolto anche il testo greco (con gli apparati delle edizioni critiche) e la versione latina dell'umanista umbro Lilio Tifernate (1417/18-1486) risalente al 1439-43 ca., intitolata De veris narrationibus, di cui si hanno almeno tre redazioni d'autore; una quarta è invece dovuta probabilmente a Benedetto Bordon, che la inserì nella sua silloge latina di Luciano del 1494. Ho cosa stabilito che il volgarizzamento del ms. Chigiano, La vera historia, è stato eseguito direttamente dal greco, fatto eccezionale nel panorama delle traduzioni umanistiche, mentre quello a stampa, Le vere narrazioni, deriva dalla redazione Bordon del De veris narrationibus. La diversità dei titoli dipende dalle varianti dei codici greci utilizzati dai traduttori: il Vat. gr. 1323, o una sua copia, è utilizzato sia dal volgarizzatore del Chigiano, sia da Bordon, indipendentemente l'uno dall'altro; il Marc. gr. 434, o una sua copia, dal Tifernate. Il titolo latino mantenuto da Bordon risale al Tifernate. Per quanto riguarda l'attribuzione dei due volgarizzamenti, come già per altri due testi della silloge da me studiati (Lucio 01 Asino e Timone), anche per La vera historia del Chigiano è accettabile il nome di Niccolò Leoniceno, poiché: 1) essa è tradotta direttamente dal greco, correttamente e con buona resa in volgare, 2) Paolo Giovio -che conobbe di persona il Leoniceno -, negli Elogia veris clarorum virorum imaginibus apposita ricorda che i volgarizzamenti di Luciano e di Dione eseguiti dal Leoniceno piacquero molto ad Ercole d'Este, 3) nessuno nella prima metà del sec. XVI rivendica, per sé o per un suo maestro, il volgarizzamento di Luciano. Le vere narrazioni a stampa, tradotte dal latino del Bordon, dopo il 1494 e prima del 1525, per la parte che diverge dalla Vera historia rimangono invece anonime. Dato che si tratta di due volgarizzamenti distinti, ho allestito l'edizione a fronte dei due testi fin dove essi divergono, seguendo per l'uno il ms., per l'altro la princeps; per la parte finale, in cui confluiscono, mi baso invece sul manoscritto e relego in apparato le varianti più vistose della princeps (non è emerso un chiaro rapporto di dipendenza fra i due testimoni). Oltre all'apparato critico con le lezioni rifiutate, fornisco un commento con la giustificazione delle scelte e il confronto con i corrispondenti passi greci e latini.

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La tesi propone l'edizione critica dele traduzioni del Bellum Catilinae e del Bellum Iugurthinum di Sallustio eseguite dall'umanista ferrarese Ludovico Carbone intorno agli anni '70 del Quattrocento. I testi sono accompagnati dagli apparati delle varianti e delle correzioni d'autore; dal testo latino dell'edizione Ernout, con la segnalazione in corsivo delle parti in cui pare evidente che l'umanista aveva di fronte un testo latino diverso; e da note di commento in cui si riportano eventualmente lezioni della tradizione dell'opera sallustiana che potrebbero essere all'origine della traduzione. Nell'introduzione viene delineato il ruolo svolto da Ludovico Carbone nella Ferrara del secondo Quattrocento, tra corte, università e vita cittadina; particolare attenzione è data alle osservazioni sulla lingua italiana dell'umanista e alla sua frequentazione della letteratura in volgare. L'esame della tradizione e della diffusione dell'opera di Sallustio ha lo scopo di comprendere il significato della scelta operata dal traduttore e di cercar di capire che tipo di modello poteva trovarsi di fronte. I due volgarizzamenti sono inseriti nel contesto storico e culturale di Ferrara, che vide in questi anni un'intensa attività di traduzione - spesso su diretta richiesta del principe -, tra i cui autori si distinsero Matteo Maria Boiardo e Niccolò Leoniceno. Inoltre, per una comprensione più completa dell'operazione del Carbone, viene ricostruita la figura del dedicatario delle due traduzioni, Alberto d'Este, e la sua importanza all'interno della storia di Ferrara sia dal punto di vista politico che cultuale; operazione che permette di aggiungere elementi utili a una datazione più precisa delle opere qui pubblicate. Una parte centrale del lavoro riguarda l'analisi delle modalità di traduzione che mostra come l'operazione del Carbone, pur mantenendosi molto rispettosa del testo di partenza, abbia ambizioni letterarie. Lo sforzo del traduttore è incentrato in particolar modo sulla resa dei vocaboli e sul ritmo del periodare. E' interessante notare come l'umanista, la cui prosa latina ha un periodare ampio e ricco di subordinate su modello ciceroniano, in volgare mantenga queste caratteristiche stilistiche solo nelle lettere dedicatorie, mentre nella traduzione il suo stile si uniforma in gran parte al modello di Sallustio. La Nota al testo dà conto dei rapporti tra i manoscritti e dei criteri di edizione delle due opere. Nella Nota linguistica si trova un'analisi sistematica e approfondita della lingua del manoscritto autografo del Catilinario, mentre per gli altri manoscritti sono segnalati gli usi linguistici solo in funzione di una loro collocazione geografica. Un esame contrastivo delle abitudini linguistiche dei copisti rispetto a quelle del Carbone è alla base della scelta del manoscritto da utilizzare per l'edizione del Giugurtino, per il quale non si dispone di un autografo. Un capitolo è dedicato all'analisi delle varianti evolutive del manoscritto londinese contenente il Catilinario. Lo studio del lessico utilizzato nelle traduzioni ha portato alla costituzione del Glossario, che - attraverso un confronto con numerosi vocabolari e testi di area ferrarese o limitrofa - registra e illustra le più significative forme dialettali, i tecnicismi e i latinismi particolarmente crudi, rari o il cui significato si discosta da quello assunto più frequentemente in volgare. Si segnalano alcuni termini le cui prime attestazioni compaiono nella lingua volgare proprio in questo periodo.

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Résumé de la thèseLe présent travail analyse la notion d'autonomie en éthique biomédicale et en propose unecompréhension à partir des théories de la délibération éthique. La thèse s'articule en deux parties.La première partie consiste en l'examen de la conception de l'autonomie développée en éthiquebiomédicale. Notamment, on retrace les origines de la notion de l'autonomie du patient dans lecontexte états-unien, on analyse l'élaboration de l'autonomie sous la forme de principe éthique, etl'on considère les critiques qui lui ont été adressées. Cette première partie débouche sur la thèsesuivante: en éthique biomédicale, l'autonomie est pensée comme un outil pour la légitimation deschoix, des pratiques, ou des politiques de santé, non pas comme réflexion critique sur les raisonspour agir ou sur les conditions des choix. Le risque est que l'autonomie se réduise à un dispositif dereproduction des normes et des conditions de l'interaction, sans pour autant remettre en discussionla rationalité médicale qui prédispose les options de choix et qui justifie les pratiques et lespolitiques dans le contexte du soin. Cette conception de l'autonomie présuppose une théorie de ladélibération éthique «en troisième personne». Selon cette théorie, la délibération consiste en uneprise de distance du point de vue subjectif de l'agent, pour assumer un point de vue plus objectif: lepoint de vue d'un «spectateur» impartial. Ainsi, le but de la délibération éthique est l'élaboration deraisons morales objectives, partageables par toute personne raisonnable, pouvant générer unconsensus sur la justification des actions. Cette théorie de la délibération a une implicationimportante pour la conception de l'autonomie en éthique biomédicale: l'autonomie est représentéecomme un principe moral partageable, comme le résultat d'un processus d'abstraction réflexive.Selon une théorie de la délibération éthique différente, que l'on appelle «en première personne», onpeut apprécier la valeur de l'autonomie seulement du point de vue de l'«agent». Ainsi, l'autonomieest la véritable modalité de la délibération éthique, dont le but est la constitution de soi-même, deson intégrité et identité morale. Dans ce travail, on s'est donc demandé si et comment cette manièrede concevoir la délibération du point de vue de l'agent peut apporter quelque chose à lacompréhension de la valeur de l'autonomie personnelle en éthique biomédicale.La deuxième partie de la thèse explore deux modèles de l'autonomie en première personnedéveloppés dans le débat philosophique plus récent: le modèle «hiérarchique» et le modèle«constructiviste kantien». Les deux modèles débouchent sur une compréhension «monologique» del'autonomie, qui est centrée sur l'agent et qui ne tient pas suffisamment compte du contexterelationnel du soin. Pour apprécier la valeur de l'autonomie dans les relations intersubjectives il fautadopter une perspective différente, que l'on appelle «en deuxième personne». Selon cette théorie, ladélibération est un dialogue entre les agents et l'autonomie est issue d'une relation de respect etreconnaissance réciproque. Comme l'autonomie est toujours issue d'une relation de réciprocité,comme elle est essentiellement relationnelle, elle n'est pas une entreprise simplement singulièremais toujours et inévitablement plurielle, collective. Ainsi, l'autonomie peut représenter un idéalnon seulement personnel mais aussi public. Il s'agit d'un idéal qu'on peut adopter dans nos relationsréciproques, un idéal normatif qui nous demande d'interroger la praticabilité de l'autonomie, c'est-àdired'identifier les sources de sa vulnérabilité. Cette vulnérabilité se situe à trois niveaux: au niveaudes relations interpersonnelles, au niveau des pratiques et des institutions, et au niveau des liensd'appartenance à des communautés culturelles ou à des groupes sociaux, qui contribuent à définirles relations réciproques et donc l'exercice de l'autonomie. Ces trois sources de vulnérabilité del'autonomie se retrouvent, toutes les trois, dans le contexte du soin. Selon cette conception del'autonomie, le but de la délibération n'est ni l'élaboration des raisons objectives, ni simplement laconstitution de sa propre identité ou intégrité, quant plutôt la construction de notre monde social.Ainsi, l'autonomie est quelque chose dont on est responsables, quelque chose qui nous engage àentrer en dialogue avec l'autre comme interlocuteurs dans une communauté morale.

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Nel secolo scorso è emersa in Italia un'originale modalité di rappresentazione letteraria che trasfigura i caratteri dell'identità per costruire una particolare forma di alterità, un "altro sé". Infatti, a causa di uno stato di crisi identitaria dello scrittore, in Silo ne e in Carlo Levi si assiste alla costruzione di figure di alterità (il "cafone", i contadini del Sud), rappresentazioni letterarie di quei soggetti socialmente subalterni che questi scrittori volevano riscattare ed emancipare. La tematizzazione dell'autorappresentazione che si riscontra in Brancati e in Pasolini va invece in un'altra direzione, diventa il progetto di una scoperta: la formalizzazione retorica di un'identità "altra" all'interno della propria individualità, letterariamente oggettivata e formalizzata. Brancati, cosi riletto e rivalutato, mostra la crisi dell'autorappresentazione, cioè del posizionamento d'autore nel momento del passaggio dal fascismo all'antifascismo, e quindi il processo di costruzione di un'identità "altra", più forte, che renda possibile la scrittura. Il brancatismo, cioè quel fenomeno culturale legato alia fortuna della narrativa brancatiana, ha anestetizzato questa dimensione critica della scrittura brancatiana riconducendo le sue figure e le sue trame narrative all'interno del discorso dell'alterità, iunzionale a una normalizzazione e borghesizzazione della società italiana del dopoguerra.La tesi propone quindi una teoria della rappresentazione italiana nel Novecento che, prendendo le mosse dalla critica postcoloniale, individua un'originale modalità di rappresentazione per cui gli elementi di "identità" vengono letterariamente trasfigurati in un'"alterità". Individuata questa esperienza, spiccano con inedita intensità le proposte di Carlo Levi per una nuova Italia, che incorporasse il sostrato "primitivo" nell'Italia contemporanea e futura; la progettualità delle esperienze artistiche di Pasolini dagli anni '50 alia sua scomparsa; e il percorso di Sciascia dall'acuta e innovativa riflessione sul pirandellismo degli esordi al ripiegamento sulla "sicilitudine" degli anni '80.

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Quelles représentations de la schizophrénie les psychiatres vont-ils construire à travers l'étude des écrits asilaires des patients et des scientifiques dans la première moitié du XXème siècle? Le psychiatre helvétique Hans Steck (1891-1980), qui a travaillé à l'Asile psychiatrique de Cery de 1920 à 1960 et qui s'est fait connaître du public grâce à l'oeuvre d'Aloïse Corbaz, reconnue comme auteure d'art brut par Jean Dubuffet en 1945, constitue le fil rouge de la thèse. Dans le contexte des mouvements tels que Γ "art psychopathologique" et Γ "art brut", Steck étudie les théories de "la mentalité primitive et les peintures magiques des schizophrènes". En 1927, il se tourne vers les théories évolutionnistes de la régression et les premières études de Lévy-Bruhl pour avancer l'idée qu'il existe un "parallélisme schizo-primitif'. Puis il développe des explications de la pensée délirante, à partir des théories exposées lors du Premier Congrès International de Psychiatrie en 1950. Enfin, adoptant la perspective phénoménologique, il explique que "la fonction de l'art et la fonction du délire visent à reconstituer un monde viable pour le malade". En ce sens, l'expression artistique, bien que n'entrant pas dans le champ de la psychothérapie, fournit des indicateurs de l'état psychique du malade en même temps qu'elle contribue à son bien-être. Sont abordés les problèmes concernant la reconnaissance de Γ "auteur" interné, dont les oeuvres appartiennent soit aux archives médicales, soit au musée. La pérennité des critères qui définissent les oeuvres d'"art psychopathologique" ou d'"art brut" est également mise en question. Enfin, le rôle essentiel de l'écriture à l'hôpital, tant pour les patients que pour les soignants, fait l'objet de nombreux développements. - What representations of schizophrenia have psychiatrists been constructing when studying writings by patients and scientists in mental asylums in the first half of the 20th century? The Swiss psychiatrist Hans Steck (1891-1980) is the protagonist of this dissertation. From 1920 to 1960, he has been working at the "Asile psychiatrique de Cery" near Lausanne. Steck is known thanks to the paintings of Aloïse Corbaz, an artist recognized by Jean Dubuffet as belonging to the "art brut" movement in 1945. In the context of movements like "art psychopathologique" and "art brut," Steck studies theories of "primitive character and magic paintings of schizophrenics." In 1927, Steck engages with theories of regression and Lévy-Bruhl's early studies in order to push the idea of a "parallelism schizo-primitif." On the occasion of the First International Congress of psychiatry held in Paris in 1950, Steck develops explanations for the "pensée délirante." Finally, turning to a phenomenological point of view, he explains, "the function of art and the function of the delusion help the patient to reconstruct a viable environment for the sick person." In this way, artistic expression is not thought of as a psychotherapeutical means, but provides insight into the state of mind of a mentally sick person at the same time as contributing to his well-being. The dissertation discusses whether the "author's" work belongs in medical archives or museums. The continuity of "psychopathological art" and "art brut" criteria will be discussed. Finally, the essential role that writing played in the hospital for the patients as well as for the medical staff is presented.

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Les Evangiles latins de l'enfance ont été peu étudiés depuis l'édition de M. R. James en 1927. La prochaine publication dans la Series apocryphorum des Évangiles irlandais de l'enfance jette un éclairage nouveau sur cette compilation latine qui combine le Protévangile de Jacques, l'Évangile du Pseudo-Matthieu et une 3e Source non identifiée racontant la naissance de Jésus. Les récits irlandais du Leabar Breac et du Liber Flavus Fergusiorum permettent de remonter à un état antérieur à la compilation, pas encore influencé par le Pseudo-Matthieu. Ils conservent parfois des éléments du texte de la Source qui ont disparu dans le latin. Le récit original de cette source inconnue est indépendant du Protévangile de Jacques et pourrait être aussi ancien que lui. C'est ce qui ressort de l'étude par l'A. de quelques motifs caractéristiques : l'impôt lié au recensement, la pauvreté de Joseph, le rôle des fils de Joseph, le lieu de la nativité, l'épisode de la sage-femme.

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Partant d'une perspective sémiotique appliquée aux débuts de film pour élargir l'approche à une réflexion historique sur l'intermédialité, cet article examine le postulat selon lequel les spectacles vivants qui précédaient la projection des films dans les années 1920 ont été en quelque sorte « happés » par le discours filmique. A travers l'examen d'un ensemble de films réalisés entre 1927 et 1937 qui accordent dans leurs génériques ou leurs prologues une place prépondérante à l'adresse vocale, l'auteur met en évidence certains phénomènes de résurgence de l'oralité propre à la période « muette », les speaker des premiers talkies endossant une fonction à certains égards similaire à celle du bonimenteur des premiers temps. L'accent est mis sur la production cinématographique de Guitry, dont la passion pour la « théâtralité » l'incite à proposer des formes singulières d'auto-mise en scène et d'adresse au spectateur. La question de la réflexivité des incipit passe également par la prise en compte de la dimension technologique, qui est parfois intégrée au film même, à l'instar de l'ouverture radiophonique de L'Atlantide de Pabst. Ces considérations s'inscrivent plus généralement dans une réflexion sur les diverses imitations de la voix vive à l'ère des technologies de l'audiovisuel.

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Nella mia tesi di dottorato mi concentro sul poema di Lucrezia Marinelli, L'Enrico, ovvero Bisanzio acquistato, pubblicato a Venezia nel 1635, indagando le strategie messe in atto dall'autrice per rivisitare il genere epico in un'ottica di riscatto femminile. Rispetto al canone epico e, in particolare, al modello di riferimento - la Gerusalemme liberata del Tasso - le vicende nodali sono, infatti, riscritte da un punto di vista chiaramente femminile. Pur occupandomi principalmente dell'opera di Marinelli, in alcuni casi nel corso del mio lavoro propongo dei confronti con altri poemi epici e cavallereschi prodotti da donne - in particolare I tredici canti del Floridoro di Moderata Fonte (1581) - volti a mostrare come le scrittrici avessero degli intenti comuni, dialogando in maniera critica con i modelli maschili da cui, tuttavia, traggono ispirazione. Nei primi capitoli del mio lavoro prendo in esame alcuni personaggi tradizionali dell'epica (le guerriere, la maga, ...) presenti ne L'Enrico e ne ripercorro gli episodi topici (le sortite notturne, l'eroe sull'isola, ...) dimostrando come, pur inserendosi coerentemente nel genere epico, siano caratterizzati in modo sostanzialmente diverso rispetto alla precedente tradizione maschile. Il primo capitolo si concentra sulle figure di guerriere, le quali presentano - rispetto ai precedenti modelli - differenze notevoli: non si lasciano coinvolgere in vicende amorose e non finiscono per essere sottomesse o uccise da un uomo, mantenendo così coerentemente intatti i valori di forza e indipendenza. Neppure la maga sull'isola - presa in esame nel capitolo dedicato alle Altre figure di donne idealizzate - è coinvolta in vicende sentimentali o caratterizzata sensualmente. L'autrice la rappresenta, non alla stregua di una tentatrice al servizio delle forze del male, ma come una donna colta, casta e disposta ad aiutare il cavaliere naufragato sulla sua isola. Nello stesso capitolo sono indagate anche altre figure femminili idealizzate, per taluni aspetti meno innovative, ma ugualmente interessanti: la Vergine, la personificazione di Venezia e la Musa. Queste rappresentazioni dal carattere iconico, presentano, infatti, diverse caratteristiche in comune con i personaggi più attivi del poema, le guerriere e la maga. Il capitolo Delle pene e delle tragedie amorose è dedicato all'amore e ai suoi esiti tragici. Le figure di donna coinvolte sono le madri, le mogli e Idillia, in cui è riconoscibile il personaggio topico della "damigella in difficoltà". Queste protagoniste, destinate a soffrire perché abbandonate dall'uomo che amano - il quale sente più forte il richiamo della guerra rispetto a quello dell'amore - servono da exempla, dimostrando che attaccamento affettivo e dipendenza conducono inesorabilmente all'infelicità. Rispetto al canone epico Marinelli riscatta alcune figure femminili, permettendo alle sue guerriere di prendersi la rivincita, vendicando la morte di eroine quali Camilla e Clorinda. Conseguentemente, alcuni guerrieri sono destinati a morire per mano di una donna. Nel quarto capitolo, mi concentro proprio su La sconfitta degli eroi, mettendo in luce come l'autrice proponga una sua personale regola del contrappasso, volta a cambiare (e addirittura invertire) le sorti dei personaggi che animano il suo poema. Questi aspetti risultano essere ancora più significativi se confrontati con l'opera - data alle stampe per la prima volta nel 1600 - intitolata Nobiltà et eccellenza delle donne. In questo trattato Marinelli sosteneva la superiorità del genere femminile su quello maschile. Alcune delle posizioni assunte nello scritto giovanile sono confermate dai personaggi e dalle vicende che animano l'Enrico. Confronti puntuali fra trattato e poema epico sono effettuati nell'ultimo capitolo del mio lavoro, sottolineando come fra le due opere vi siano delle affinità volte a confermare l'eccellenza delle donne.

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La présente recherche se propose de désobstruer un certain nombre de catégories « esthétiques », au sens étendu du terme, de leur métaphysique implicite. La thèse que je souhaite défendre se présente sous la forme d'un paradoxe : d'une part, le sens originel d'« esthétique » a été perdu de vue, d'autre part, malgré cet oubli, quiconque s'interroge philosophiquement sur les beaux-arts reçoit, nolens volens, Baumgarten en héritage. Avec AEsthetica (1750/1758), ouvrage inacheet hautement problématique, nous pourrions dire, citant René Char, qu'il s'agit-là d'un « héritage précédé d'aucun testament ». En d'autres termes, ce qui nous échoit nous occupe, voire nous préoccupe, sans que nous disposions des outils conceptuels pour nous y rapporter librement. Soyons clairs, je ne soutiens pas que l'esthétique philosophique, telle qu'elle s'énonce à ses débuts, soit un passage obligé pour penser l'art, et ce d'autant plus qu'il ne s'agit pas d'un passage, mais proprement d'une impasse. Ce que je veux dire, c'est que Kant répond à Baumgarten, et que Hegel répond à Kant et ainsi de suite. Il n'y a pas de tabula rasa dans l'histoire de la pensée, et l'oubli de l'historicité d'une pensée est le meilleur moyen de la neutraliser en simple supplément culturel, tout en demeurant entièrement captifs de ses présupposés.Au départ, la question qui motivait implicitement la rédaction de cette recherche se formulait ainsi : « Dans quelle mesure la philosophie énonce-t-elle quelque chose d'important au sujet des beaux-arts ? » Au fil du temps, la question s'est inversée pour devenir : « Qu'est-ce que les écrits sur les beaux- arts, tels qu'ils foisonnent au 18e siècle, nous enseignent à propos de la philosophie et des limites inhérentes à sa manière de questionner ?» Et gardons-nous de penser qu'une telle inversion cantonne la question de l'esthétique, au sens très large du terme, à n'être qu'une critique immanente à l'histoire de la philosophie. Si la philosophie était une « discipline » parmi d'autres, un « objet » d'étude possible dans la liste des matières universitaires à choix, elle ne vaudrait pas, à mon sens, une seule heure de peine. Mais c'est bien parce que la philosophie continue à orienter la manière dont nous nous rapportons au « réel », au « monde » ou à l'« art » - je place les termes entre guillemets pour indiquer qu'il s'agit à la fois de termes usuels et de concepts philosophiques - que les enjeux de la question de l'esthétique, qui est aussi et avant tout la question du sentir, excèdent l'histoire de la philosophie.Pour introduire aux problèmes soulevés par l'esthétique comme discipline philosophique, j'ai commencé par esquisser à grands traits la question du statut de l'image, au sens le plus général du terme. Le fil conducteur a été celui de l'antique comparaison qui conçoit la poésie comme une « peinture parlante » et la peinture comme une « poésie muette ». Dans le prolongement de cette comparaison, le fameux adage ut pictura poesis erit a été conçu comme le véritable noeud de toute conception esthétique à venir.Il s'est avéré nécessaire d'insister sur la double origine de la question de l'esthétique, c'est-à-dire la rencontre entre la pensée grecque et le christianisme. En effet, l'un des concepts fondamentaux de l'esthétique, le concept de création et, plus spécifiquement la possibilité d'une création ex nihiio, a été en premier lieu un dogme théologique. Si j'ai beaucoup insisté sur ce point, ce n'est point pour établir une stricte identité entre ce dogme théologique et le concept de création esthétique qui, force est de l'admettre, est somme toute souvent assez flottant dans les écrits du 18e siècle. L'essor majeur de la notion de création, couplée avec celle de génie, sera davantage l'une des caractéristiques majeures du romantisme au siècle suivant. La démonstration vise plutôt à mettre en perspective l'idée selon laquelle, à la suite des théoriciens de l'art de la Renaissance, les philosophes du Siècle des Lumières ont accordé au faire artistique ou littéraire une valeur parfaitement inédite. Si l'inventeur du terme « esthétique » n'emploie pas explicitement le concept de création, il n'en demeure pas moins qu'il attribue aux poètes et aux artistes le pouvoir de faire surgir des mondes possibles et que ceux-ci, au même titre que d'autres régions de l'étant, font l'objet d'une saisie systématique qui vise à faire apparaître la vérité qui leur est propre. Par l'extension de l'horizon de la logique classique, Baumgarten inclut les beaux-arts, à titre de partie constituante des arts libéraux, comme objets de la logique au sens élargi du terme, appee « esthético- logique ». L'inclusion de ce domaine spécifique d'étants est justifiée, selon les dires de son auteur, par le manque de concrétude de la logique formelle. Or, et cela n'est pas le moindre des paradoxes de l'esthétique, la subsomption des beaux-arts sous un concept unitaire d'Art et la portée noétique qui leur est conférée, s'opère à la faveur du sacrifice de leur singularité et de leur spécificité. Cela explique le choix du titre : « métaphysique de l'Art » et non pas « métaphysique de l'oeuvre d'art » ou « métaphysique des beaux-arts ». Et cette aporîe constitutive de la première esthétique est indépassable à partir des prémices que son auteur a établies, faisant de la nouvelle discipline une science qui, à ce titre, ne peut que prétendre à l'universalité.Au 18e siècle, certaines théories du beau empruntent la voie alternative de la critique du goût. J'ai souhaité questionner ces alternatives pour voir si elles échappent aux problèmes posés par la métaphysique de l'Art. Ce point peut être considéré comme une réplique à Kant qui, dans une note devenue célèbre, soutient que « les Allemands sont les seuls à se servir du mot "esthétique" pour désigner ce que d'autres appellent la critique du goût ». J'ai démontré que ces deux termes ne sont pas synonymes bien que ces deux positions philosophiques partagent et s'appuient sur des présupposés analogues.La distinction entre ces deux manières de penser l'art peut être restituée synthétiquement de la sorte : la saisie systématique des arts du beau en leur diversité et leur subsomption en un concept d'Art unitaire, qui leur attribue des qualités objectives et une valeur de vérité indépendante de toute saisie subjective, relègue, de facto, la question du jugement de goût à l'arrière-plan. La valeur de vérité de l'Art, définie comme la totalité des qualités intrinsèques des oeuvres est, par définition, non tributaire du jugement subjectif. Autrement dit, si les oeuvres d'art présentent des qualités intrinsèques, la question directrice inhérente à la démarche de Baumgarten ne peut donc nullement être celle d'une critique du goût, comme opération subjective {Le. relative au sujet, sans que cela soit forcément synonyme de « relativisme »), mais bien la quête d'un fondement qui soit en mesure de conférer à l'esthétique philosophique, en tant que métaphysique spéciale, sa légitimité.Ce qui distingue sur le plan philosophique le projet d'une métaphysique de l'Art de celui d'une esthétique du goût réside en ceci que le premier est guidé, a priori, par la nécessité de produire un discours valant universellement, indépendant des oeuvres d'art, tandis que le goût, pour s'exercer, implique toujours une oeuvre singulière, concrète, sans laquelle celui-ci ne reste qu'à l'état de potentialité. Le goût a trait au particulier et au contingent, sans être pour autant quelque chose d'aléatoire. En effet, il n'est pas un véritable philosophe s'interrogeant sur cette notion qui n'ait entrevu, d'une manière ou d'une autre, la nécessité de porter le goût à la hauteur d'un jugement, c'est-à-dire lui conférer au moins une règle ou une norme qui puisse le légitimer comme tel et le sauver du relativisme, pris en son sens le plus péjoratif. La délicatesse du goût va même jusqu'à être tenue pour une forme de « connaissance », par laquelle les choses sont appréhendées dans toute leur subtilité. Les différents auteurs évoqués pour cette question (Francis Hutcheson, David Hume, Alexander Gerard, Louis de Jaucourt, Montesquieu, Voltaire, D'Alembert, Denis Diderot, Edmund Burke), soutiennent qu'il y a bien quelque chose comme des « normes » du goût, que celles-ci soient inférées des oeuvres de génie ou qu'elles soient postulées a priori, garanties par une transcendance divine ou par la bonté de la Nature elle-même, ce qui revient, en dernière instance au même puisque le geste est similaire : rechercher dans le suprasensible, dans l'Idée, un fondement stable et identique à soi en mesure de garantir la stabilité de l'expérience du monde phénoménal.La seconde partie de la recherche s'est articulée autour de la question suivante : est-ce que les esthétiques du goût qui mesurent la « valeur » de l'oeuvre d'art à l'aune d'un jugement subjectif et par l'intensité du sentiment échappent aux apories constitutives de la métaphysique de l'Art ?En un sens, une réponse partielle à cette question est déjà contenue dans l'expression « esthétique du goût ». Cette expression ne doit pas être prise au sens d'une discipline ou d'un corpus unifié : la diversité des positions présentées dans cette recherche, bien que non exhaustive, suffit à le démontrer. Mais ce qui est suggéré par cette expression, c'est que ces manières de questionner l'art sont plus proches du sens original du terme aisthêsis que ne l'est la première esthétique philosophique de l'histoire de la philosophie. L'exercice du goût est une activité propre du sentir qui, en même temps, est en rapport direct avec la capacité intellectuelle à discerner les choses et à un juger avec finesse et justesse.Avec le goût esthétique s'invente une espèce de « sens sans organe » dont la teneur ontologique est hybride, mais dont le nom est identique à celui des cinq sens qui procurent la jouissance sensible la plus immédiate et la moins raisonnable qui soit. Par la reconnaissance de l'existence d'un goût « juste » et « vrai », ou à défaut, au moins de l'existence d'une « norme » indiscutable de celui-ci, c'est-à-dire de la possibilité de formuler un jugement de goût une tentative inédite de spîritualisation de la sensibilité a lieu.Par conséquent, il est loin d'être évident que ce que j'ai appelé les esthétiques du goût échappent à un autre aspect aporétique de la métaphysique de l'Art, à savoir : passer à côté du caractère singulier de telle ou telle oeuvre afin d'en dégager les traits universels qui permettent au discours de s'étayer. Dans une moindre mesure, cela est même le cas dans les Salons de Diderot où, trop souvent, le tableau sert de prétexte à l'élaboration d'un discours brillant.Par contre, tout l'intérêt de la question du goût réside en ceci qu'elle présente, de façon particulièrement aiguë, les limites proprement métaphysiques dont l'esthétique, à titre de discipline philosophique, se fait la légataire et tente à sa manière d'y remédier par une extension inédite du concept de vérité et sa caractérisai ion en termes de vérité « esthéticologique » au paragraphe 427 de Y Esthétique. Cela dit, le fait même que dans l'empirisme la sensibilité s'oppose, une fois de plus, à l'intellect comme source de la naissance des idées - même si c'est dans la perspective d'une réhabilitation de la sensibilité -, indique que l'horizon même de questionnement demeure inchangé. Si le goût a pu enfin acquérir ses lettres de noblesse philosophique, c'est parce qu'il a été ramené, plus ou moins explicitement, du côté de la raison. Le jugement portant sur les arts et, de manière plus générale, sur tout ce qui est affaire de goût ne saurait se limiter au sentiment de plaisir immédiat. Le vécu personnel doit se transcender en vertu de critères qui non seulement permettent de dépasser le relativisme solipsiste, mais aussi de donner forme à l'expérience vécue afin qu'elle manifeste à chaque fois, et de façon singulière, une portée universelle.Le goût, tel qu'il devient un topos des discours sur l'art au 18e siècle, peut, à mon sens, être interprété comme l'équivalent de la glande pinéale dans la physiologie cartésienne : l'invention d'un « je ne sais quoi » situé on ne sait où, sorte d'Hermès qui assure la communication entre l'âme et le corps et sert l'intermédiaire entre l'intellect et la sensibilité. L'expérience décrite dans l'exercice du goût implique de facto une dimension par définition occultée par la métaphysique de l'Art : le désir. Pour goûter, il faut désirer et accepter d'être rempli par l'objet de goût. Dans l'exercice du goût, le corps est en jeu autant que l'intellect, il s'agit d'une expérience totale dans laquelle aucune mise à distance théorétique n'est, en un premier temps, à même de nous prémunir de la violence des passions qui nous affectent. L'ambiguïté de cette notion réside précisément dans son statut ontologiquement problématique. Mais cette incertitude est féconde puisqu'elle met en exergue le caractère problématique de la distinction entre corps et esprit. Dans la notion de goût est contenue l'idée que le corps pense aussi et que, par voie de conséquence, la sensibilité n'est pas dépourvue de dimension spirituelle. Reste que formuler les choses de la sorte revient à rejouer, en quelque sorte, l'antique diaphorâ platonicienne et à convoquer, une fois de plus, les grandes oppositions métaphysiques telles que corps et âme, sensible et intelligible, matière et forme.La troisième partie est entièrement consacrée à Shaftesbury qui anticipe le statut ontologiquement fort de l'oeuvre d'art (tel qu'il sera thématisé par Baumgarten) et l'allie à une critique du goût. Cet auteur peut être considéré comme une forme d'exception qui confirme la règle puisque sa métaphysique de l'Art laisse une place prépondérante à une critique du goût. Mais le cumul de ces deux caractéristiques opposées un peu schématiquement pour les besoins de la démonstration n'invalide pas l'hypothèse de départ qui consiste à dire que la saisie philosophique de la question du goût et l'invention conjointe de l'esthétique au 18e siècle sont deux tentatives de trouver une issue au problème du dualisme des substances.Cette recherche doit être prise comme une forme de propédeutique à la fois absolument nécessaire et parfaitement insuffisante. Après Baumgarten et le siècle du goût philosophique, les propositions de dépassement des apories constitutives d'une tradition qui pense l'art à partir de couples d'oppositions métaphysiques tels qu'âme et corps, forme et matière, ainsi que leurs traductions dans les arts visuels (dessin et couleur ou encore figuration et abstraction), n'ont pas manqué. Il aurait fallu in fine s'effacer pour laisser la place aux plasticiens eux-mêmes, mais aussi aux poètes, non plus dans l'horizon de Y ut pictura, mais lorsqu'ils expriment, sans verser dans l'analyse conceptuelle, leurs rencontres avec telle ou telle oeuvre (je pense à Baudelaire lorsqu'il évoque Constantin Guys, à Charles Ferdinand Ramuz lorsqu'il rend hommage à Cézanne ou encore à Pascal Quignard lorsqu'il raconte les fresques de la maison des Dioscures à Pompéi, pour ne citer que trois noms qui affleurent immédiatement à ma mémoire tant leur souvenir est vivace et leur exemple un modèle). Et puis il s'agit, malgré tout, de ne pas renoncer pour autant au discours esthétique, c'est- à-dire à la philosophie, mais de réinterroger les catégories dont nous sommes les légataires et de penser avec et au-delà des limites qu'elles nous assignent. Mais cela ferait l'objet d'un autre ouvrage.

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Partant d'une perspective sémiotique appliquée aux débuts de film pour élargir l'approche à une réflexion historique sur l'intermédialité, cet article examine le postulat selon lequel les spectacles vivants qui précédaient la projection des films dans les années 1920 ont été en quelque sorte « happés » par le discours filmique. A travers l'examen d'un ensemble de films réalisés entre 1927 et 1937 qui accordent dans leurs génériques ou leurs prologues une place prépondérante à l'adresse vocale, l'auteur met en évidence certains phénomènes de résurgence de l'oralité propre à la période « muette », les speaker des premiers talkies endossant une fonction à certains égards similaire à celle du bonimenteur des premiers temps. L'accent est mis sur la production cinématographique de Guitry, dont la passion pour la « théâtralité » l'incite à proposer des formes singulières d'auto-mise en scène et d'adresse au spectateur. La question de la réflexivité des incipit passe également par la prise en compte de la dimension technologique, qui est parfois intégrée au film même, à l'instar de l'ouverture radiophonique de L'Atlantide de Pabst. Ces considérations s'inscrivent plus généralement dans une réflexion sur les diverses imitations de la voix vive à l'ère des technologies de l'audiovisuel.

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Résumé de thèseC.F. Ramuz (1878-1947) compte parmi les auteurs de Suisse française les plus traduits au cours du XXe siècle. Ses romans, nouvelles, poèmes et essais ont circulé à travers le monde entier dans une trentaine de langues, totalisant plus de trois cents documents traduits. Malgré cette très large diffusion, aucune étude détaillée n'a permis à ce jour de présenter les enjeux de sa réception en dehors de l'aire francophone. Cette recherche vise à combler en partie cette lacune, en s'attachant à l'analyse de la réception germanophone de Ramuz. Comme celle-ci se concentre essentiellement sur un espace de production, de circulation et de discussion alémanique, ce travail aborde aussi une histoire des échanges littéraires en Suisse. Les aspects développés dans ce travail permettent d'identifier les facteurs qui ont conféré à Ramuz, dans le contexte spécifiquement suisse, la stature d'un écrivain national.C'est en 1921 que paraissent les premières traductions allemandes en volume, sous l'égide du traducteur bâlois Albert Baur. Werner Johannes Guggenheim, un homme de théâtre très engagé dans la vie culturelle suisse, lui emboîte le pas pour devenir dès 1927 le traducteur attitré de Ramuz. Entre 1927 et 1945, il signe vingt et une traductions qui feront l'objet de nombreuses rééditions. Durant cette large période, la lecture des textes de Ramuz est placée sous le sceau de la Défense spirituelle et le travail du traducteur contribue à renforcer les valeurs fondatrices du pays, par-delà les barrières linguistiques. Mais les textes de Ramuz prêtent aussi le flanc à un autre type de lecture idéologique : l'attachement de l'auteur au sol qui l'a vu naître fournit un terreau propice aux thèses du IIIe Reich et plusieurs travaux universitaires allemands investiguent la mystique paysanne de Ramuz pour le rattacher au canon de la littérature « Blut-und-Boden ». Il faut attendre les années 1970 pour qu'un vaste projet éditorial s'engage dans une réévaluation de l'oeuvre ramuzienne : entre 1972 et 1978, la maison Huber Verlag à Frauenfeld confie à différents traducteurs le soin de traduire les grands romans et les principaux essais de Ramuz sous le titre des Werke in sechs Bänden. La modernité de son écriture, son rythme et sa narration polyphonique ressortent alors à travers ces retraductions. Parallèlement, la réception germanophone de Ramuz est animée à la fin des années 1970 par une série de traductions en dialecte bernois réalisées par Hans Ulrich Schwaar. Depuis le début des années 1980, l'oeuvre de Ramuz se trouve toujours au catalogue des éditeurs de langue allemande, mais principalement en réédition. Pastorale, un recueil de nouvelles traduit par Peter Sidler en 1994 chez Limmat Verlag, représente toutefois une exception et semble ranimer dans l'aire germanophone la discussion autour des oeuvres de Ramuz.La recherche souligne ainsi les dynamiques particulières qui ont conditionné le transfert des textes de Ramuz en langue allemande. Elle révèle comment les traductions peuvent être le miroir des différentes politiques culturelles qui ont régi les échanges littéraires au sein de la Suisse durant tout le siècle passé. Cette étude permet aussi d'explorer la façon dont les instances littéraires suisses ont négocié le passage vers l'Allemagne, notamment sous le régime nazi. Enfin, sur le plan littéraire, l'analyse des textes traduits invite à une relecture des explorations stylistiques de l'écrivain romand : le regard transversal des traducteurs éclaire sous un jour différent les débats qui animent la réception de Ramuz en langue française, en même temps qu'il y apporte des réponses nouvelles et parfois inattendues.