4 resultados para systemic therapy

em AMS Tesi di Dottorato - Alm@DL - Università di Bologna


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Gliomas are the most common primary brain tumours. Despite advances in surgical techniques, postoperative supportive care, radiation and adjuvant systemic therapy, the life expectancy of patients with high grade glioma has remained essentially poor. Furthermore differential diagnosis among astrocytomas, oligodendrogliomas and oligoastrocytomas is very challenging and subject to inter-observer variability. The purpose of the research was: 1) to investigate a series of high grade and low grade gliomas at gene and protein (immunohistochemistry) levels to disclose possible genetic portraits of malignancy; 2) to verify the utility of Nogo-A, Olig-2 and synaptophysin in providing a correct histological diagnosis of oligodendroglioma and to investigate a possible complementary role in selecting the best areas suitable for detecting 1p/19q codeletion using FISH analysis; 3) to study the role of microRNA in high grade gliomas. In order to obtain these goals large series of brain tumors were studied with DNA microarrays, immunohistochemistry and RT-PCR The results demonstrated that: - Overexpression of IGFBP-2 and CDC20 is highly related to glioblastomas and their immunopositivity can be useful for the identification of glioblastoma in small biopsies. - Nogo-A is the most useful and specific marker in differentiating oigodendrogliomas from other gliomas. Furthermore, using a Nogo-A driven FISH analysis, it is possible to identify a larger number of 1p19q codeletions in gliomas. - microRNAs can be studied in paraffin embedded tissues better than in fresh tissues. A series of six microRNA, significatively deregulated in glioblastomas, may represent a genetic signature with prognostic and predictive value and could constitute candidates for novel anti-cancer therapeutics.

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Studio prospettico su 75 pazienti con malattia paranale di Crohn che ha come obiettivo quello di confrontare i risultati tra le nuove terapie medico-chirurgiche emergenti. La prima procedura è comune a tutti i pazienti e consiste in un intervento di incisione degli ascessi, fistulectomia e posizionamento di setoni di drenaggio nei tramiti fistolosi per il controllo della sepsi.Successivamente i pazienti vengono divisi in cinque gruppi e sottoposti ai trattamenti per la chiusura dei tramiti fistolosi: terapia sistemica con Infliximab,terapia sistemica con Adalimumab,confezionamento di Flap endoanale, instillazione di colla di fibrina o posizionamento di protesi biologiche. Abbiamo osservato una chiusura completa dei tramiti fistolosi nel 60% dei pazienti trattati con Infliximab, 53% di quelli trattati con Adalimumab, 40% di quelli in terapia con colla di fibrina, 80% di quelli sottoposti a Flap endoanale e 60% di quelli trattati con protesi biologiche. Gli ottimi risultati raggiunti in con le diverse metodiche di trattamento chirurgico locale rappresentano una valida alternativa alla terapia con farmaci biologici. Tali nuove metodiche risultano anzi fondamentali per il trattamento di quei pazienti che dopo una terapia con farmaci biologici non hanno raggiunto una completa risoluzione del quadro (rescue therapy). Terapia biologica e nuove tecniche chirurgiche risultano pertanto complementari, la prima contribuendo al miglioramento della qualità della mucosa del canale anale e del retto basso sulla quale risulta quindi più agevole agire con le seconde con una percentuale di successo sempre maggiore.

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L’osteomielite associata all’impianto è un processo infettivo a carico del tessuto osseo spesso accompagnato dalla distruzione dell’osso stesso. La patogenesi delle osteomieliti associate all’impianto si basa su due concetti fondamentali: l’internalizzazione del patogeno all’interno degli osteoblasti e la capacità dei batteri di formare il biofilm. Entrambi i meccanismi consentono infatti di prevenire l’eliminazione del batterio da parte delle difese immunitarie dell’ospite e di ostacolare l’azione della maggior parte degli antibiotici (che non penetrano e non agiscono pertanto su microrganismi intracellulari), così sostenendo ed alimentando l’infezione. Il saggio di invasione messo a punto su micropiastra ha consentito di investigare in modo approfondito e dettagliato il ruolo ed il peso dell’internalizzazione nella patogenesi delle infezioni ortopediche peri-protesiche causate da S. aureus, S. epidermidis, S. lugdunensis ed E. faecalis. Lo studio ha evidenziato che l’invasione delle cellule MG-63 non rappresenta un meccanismo patogenetico delle infezioni ortopediche associate all’impianto causate da S. epidermidis, S. lugdunensis ed E. faecalis; al contrario, in S. aureus la spiccata capacità invasiva rappresenta un’abile strategia patogenetica che consente al patogeno di sfuggire alla terapia sistemica e alla risposta immunitaria dell’ospite. È stato studiato inoltre il ruolo dell’immunità innata nella difesa contro il biofilm batterico. In seguito all’incubazione del biofilm opsonizzato di S. epidermidis con i PMN è stato possibile osservare la formazione delle NETs. Le NETs rappresentano ottime armi nella difesa contro il biofilm batterico, infatti le trappole sono in grado di limitare la diffusione batterica e quindi di confinare l’infezione. La comprensione del ruolo dell’internalizzazione nella patogenesi delle osteomieliti associate all’impianto e lo studio della risposta immunitaria innata a questo tipo di infezioni, spesso caratterizzate dalla presenza di biofilm, sono presupposti per identificare e affinare le migliori strategie terapeutiche necessarie ad eradicare l'infezione.

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Il Sorafenib è l’unica terapia sistemica approvata per l’epatocarcinoma (HCC) avanzato. Tuttavia, molti tumori sviluppano resistenze. La chemioterapia metronomica sembrerebbe avere un effetto antiangiogenetico. La Capecitabina metronomica è potenzialmente efficace nell’HCC avanzato. Lo scopo dello studio è stato valutare il comportamento di un modello murino di HCC sottoposto a Sorafenib, Capecitabina e terapia combinata, per dimostrarne un eventuale effetto sinergico. Il modello è stato creato in topi scid mediante inoculazione sottocutanea di 5 milioni di cellule HuH7. I topi sono stati suddivisi in 4 gruppi: gruppo 1 sottoposto a terapia con placebo (9 topi), gruppo 2 a Sorafenib (7 topi), gruppo 3 a Capecitabina (7 topi) e gruppo 4 a terapia combinata Sorafenib+Capecitabina (10 topi). I topi sono stati studiati al giorno 0 e 14 con ecografia B-mode e con mezzo di contrasto (CEUS). Al giorno 14 sono stati sacrificati e i pezzi tumorali sono stati conservati per l’analisi Western Blot. Un topo del gruppo 1 e 4 topi del gruppo 4 sono morti precocemente e quindi sono stati esclusi. Il delta di crescita tumorale al giorno 14 rispetto al giorno 0 è risultato di +503 %, +158 %, +462 % e +176 % rispettivamente nei 4 gruppi (p<0.05 tra i 4 gruppi, tra il gruppo 1 e 2, tra il gruppo 1 e 4, tra il gruppo 2 e 3, tra il gruppo 3 e 4). Alla CEUS non si sono evidenziate differenze statisticamente significative nei cambiamenti di perfusione tumorale al giorno 14 nei 4 gruppi. L’analisi Western Blot ha mostrato livelli di VEGFR-2 inferiori nel gruppo dei topi trattati con Sorafenib. La terapia di associazione di Sorafenib e Capecitabina non comporta un beneficio, in termini di riduzione della crescita tumorale, in un modello murino di HCC rispetto al solo Sorafenib. Inoltre, può essere sospettato un incremento di tossicità.